Soliloquio del dolore – 15

Tutta la mia vita è stata una forma di resistenza, di silenziosa, discreta, ma ostinata e feroce resistenza, all’incoscienza, alla povertà di spirito, all’apparenza, alla superficialità, al dio dell’utile, al superfluo, alla schiavitù, alla morale tradizionale e alle sue sacre istituzioni, ai suoi pregiudizi, ai suoi luoghi comuni, alle sue convenzioni. Ho sempre difeso strenuamente la mia individualità, la mia unicità da ogni violento tentativo di assimilazione sociale, passando una vita in trincea, in guerra con il mondo intero. Ma come può un uomo, per di più solo, senza amore e senza affetti, resistere al mondo, alla sua spinta omologatrice? Mi sono sempre opposto alla maggioranza e in questo atteggiamento irriducibilmente oppositivo alla folla ho trovato la mia ragione d’essere, orgoglioso della mia solitudine, perché, come scrive l’uomo del sottosuolo, «Io sono solo, e loro invece sono tutti» [102].
Non mi sono mai adattato, non ho mai ceduto ai compromessi, non ho mai voluto essere tiepido e mediocre come voi, come tutti e, sin dall’adolescenza, interessato alle cose davvero indispensabili, essenziali, fedele a me stesso, alla mia natura superflua rispetto alla società, mi sono rifiutato di piegarmi alla sistematica derisione di tutto ciò che, pur essendo giusto, sacrosanto, viene sconfitto, deriso, umiliato.
Non ho mai smesso di credere a me stesso, alle mie verità, alle mie attitudini, sebbene vivere credendo a se stessi sia quanto di più complicato, e, così facendo, ho sempre preservato il mio «io spirituale», difendendolo dagli assalti dell’«io animale», facilmente saziabile attraverso soddisfazioni futili, sciocche, meramente materiali [103]. Ho visto tanti giovani di belle speranze smettere di credere a se stessi, iniziare a credere agli altri, ai precetti del senso comune, «concessioni a una società di selvaggi» [104], e lasciarsi travolgere dall’«io animale», in una brutale metamorfosi che li ha svuotati, rendendoli incapaci di spingersi al di là del misero, pidocchioso interesse personale. In fondo li capisco (ma non li compatisco, questo mai), perché è così semplice e comodo seguire gli altri, uniformarsi al senso comune e in base a questo orientare opinioni e scelte, mentre è così difficile e faticoso restare fedeli a se stessi e al proprio «io spirituale».
È facile e confortevole essere una cosa tra le cose, restare schiavi del più e del meno, del prima e del dopo, del se e del forse, del ma e del però, in completa e incosciente balia dei bisogni più bassi, sciocchi e superflui, ogni giorno confezionati ad arte dalla società e dai potenti che la governano, politici e miliardari. Mentre voi vi adattate alla sufficienza di ciò che vi è dato [105], io non sono mai stato capace di farlo. Io ho sempre saputo che «il piacere è il fiore del dolore, il dolce è il fiore dell’acerbo, l’acutezza è il fiore della profondità, la pace è il fiore dell’attività, l’affermazione è il fiore della negazione, il sapere è il fiore della fame, la prudenza è il fiore del coraggio» [106]. Non mi sono mai voltato indietro e ho sempre visto il mondo per quello che davvero è, non un insieme di esseri più o meno sessualmente desiderabili, di cose mangiabili o potabili, non un immenso giaciglio, come lo rappresentano quelle necessità contingenti di cui non riuscite a liberarvi neppure per un istante e che avete elevato al rango di ragioni di vita, ma un «insieme di cose grigie ch’io non so cosa sono ma che certamente non sono fatte perch’io mi rallegri» [107]. Mai mi sono rallegrato di quello che ho visto.
Seduto sul mio scoglio, mi sono lasciato travolgere dalla marea, senza retrocedere di un passo, senza cercare nuova aria, fedele a me stesso e alle mie verità, sempre, incapace di adattarmi alla schiavitù di ciò che ancora non conoscevo, di accontentarmi del chiacchiericcio insensato della folla, in un sanguinoso corpo a corpo con la vostra vita inautentica e con me stesso.
Io non ho mai distolto lo sguardo dall’abisso, non ho mai tentato di mettermi in salvo da me stesso e dalle mie terribili verità, non mi sono mai stordito in «un’attività che fingendo piccoli scopi conseguibili via via in un vicino futuro, dia l’illusione di camminare a chi sta fermo» [108]. Io ho vissuto e agito e ragionato e scritto e amato, sì, anche amato, in vista di un unico, grande scopo: la mia libertà, ovvero ciò che per ogni individuo dovrebbe essere il bene più prezioso. Ma per tutti voi, soggiogati dalla facilità di un’accettazione supina, passiva al sistema sociale per come vi è stato tramandato dai vostri alacri padri, il diritto di esistere non è il diritto di essere liberi, bensì il diritto «d’abbrutirsi nella vita diminuita, nella fatica ottusa, di curvare la schiena in un angolo oscuro per non aver da guardar in faccia la vita e non vedere la morte» [109]. Sì, guardare in faccia la vita, e la vita in generale, non solo quella «diminuita», significa vedere la morte. Non c’è scampo per chiunque non si accontenti di ciò che gli è dato, che osi spingersi oltre, in profondità, squarciando il velo di apparenze e menzogne che ammanta ed edulcora le vostre piccole, meschine esistenze.
La vostra educazione non è che degenerazione e diminuzione dell’individuo, il vostro progresso non è che il suo immiserimento, il suo depotenziamento, la vostra morale non è che repressione del lato oscuro, dionisiaco dell’uomo e regolarizzazione della violenza e dell’egoismo più barbaro. Uniti nella debolezza, nel timore, nell’interesse violentate la natura e i vostri simili, trovando nella società e nelle sue regole scandalose un «padrone migliore dei singoli padroni», illudendovi di partecipare alla sua autorità (la democrazia), prostrati al cospetto del dio Pluto e della sua insensata lingua [110]. Privati della vostra individualità, della vostra coscienza, della vostra libertà e della vostra voce, dotati di paraocchi, come i cavalli, andate dritti per la vostra strada, tirate avanti, del tutto privi di senso critico, irresponsabili, ridotti a mera materia, fin quando la morte non vi libera da questa assurda marcia verso il niente. L’unica realtà di voi uomini sociali, di voi uomini civili non è che il becero tornaconto personale, l’interesse egoistico che conosce una sola unità di misura: il denaro.
Andate di fretta, correte di qua e di là, vi incontrate, vi scontrate, vi prendete, vi lasciate, talvolta vi ammazzate, muovendovi in continuazione, indefessamente, come formiche laboriose dall’anima di cicale, ma il vostro moto è solo apparente. In realtà non andate da nessuna parte, mentre la morte implacabile vi attende. Niente di ciò che fate ha senso, perché niente ha senso: «Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione» [111]. È tutto qui, non c’è altro, per quanto possiate illudervi del contrario.
Ho sempre ricercato il senso che si cela dietro le apparenze, il fuoco immanente che le distrugge. Sono stato io stesso quel fuoco. Non ho mai accettato il corso presente delle cose, della storia e la sua fine. Ne ho sempre immaginata una umanamente più dignitosa, perché, certo, ognuno di noi deve morire, ma c’è modo e modo di morire. Ho sempre creduto che la consapevolezza dell’insensatezza della vita e della miseria umana potesse conciliarci con il nostro destino mortale, insegnandoci ad accettarlo e a viverlo con serenità, con dignità, non come la peggiore delle disgrazie, ma come una fortuna. Credete davvero che un essere possa gioire dell’immortalità? Chiedete al Mefistofele di Goethe, i cui elogi del nulla non sono altro che maledizioni contro se stesso e il proprio destino immortale [112]. La morte è la massima espressione della libertà individuale e quanto più un uomo sarà stato inutile in vita, tanto più morirà sereno, libero dal senso di colpa, dal rimorso e dal rimpianto.
La vostra bontà e la vostra bellezza mi hanno sempre lasciato indifferente. Io ho trovato la bontà nella rinuncia, nell’isolamento, nella solitudine, nel suicidio e la bellezza nei bassifondi, dove l’essenza umana è costretta a risplendere in tutta la sua forza per farsi strada tra il fango e le tenebre. Ho trovato le madri più generose e amorevoli tra le puttane impalate ai bordi delle strade, costrette a svendere il proprio corpo per garantire un futuro ai figli, e l’amore più potente tra i pazzi, ricoverati con violenza e addomesticati attraverso farmaci. Come Ulrich, l’uomo senza qualità, mi sono sempre orientato seguendo un unico segno: che la vicinanza alla tale idea, alla tale persona, alla tale parola mi innalzasse oppure mi facesse affondare, mi destasse alla vita oppure no, che facesse parlare la mia lingua e il mio cervello oppure «la scintilla di un brivido sulla punta delle dita» [113]. È vero, non ho mai potuto dimostrare nulla, ma non mi sono mai arreso a questa brutale evidenza, perché chi lo fa è perduto per sempre, precipita in una notte nebbiosa, senza stelle, nell’incoscienza, nella chiacchiera sterile e stantia, che alla fine scade sempre nella maldicenza.
Non ho mai creduto ai vostri concetti di bene e male, del resto regolarmente trasgrediti da voi stessi, che negli armadi nascondete scheletri tali da mandare all’aria le vostre vite se uscissero fuori. In molte occasioni sono stato peggiore di voi, lo confesso, molte notti sono naufragato in oceani di fango maleodoranti e nauseabondi, ma non ho mai tradito e offeso nessuno all’infuori di me stesso, non ho mai tradito e offeso una compagna, una moglie, un figlio.
Nella seconda giornata del ritiro spirituale descritto da Joyce nel Ritratto dell’artista da giovane, dedicata all’inferno e al paradiso, il predicatore, attraverso la cosiddetta «costituzione del luogo», come la definisce sant’Ignazio nei suoi esercizi spirituali, fornisce un’efficace rappresentazione del regno infernale: il lezzo insopportabile, il fuoco eterno, che brucia ma non illumina, le tenebre eterne, la totale assenza di umanità, i dannati inferni individuali che ardono per sempre, le grida assordanti, i feroci rimproveri dei diavoli, voci della coscienza offesa. Sembra il vostro mondo.
Come Dedalus, ho sempre fatto mio il luciferino motto: «Non servirò» [114]. Non ho mai servito ciò in cui non credo, qualunque nome abbia, mi sono sempre sottratto a ogni ordine sociale, politico e religioso, cercando la mia saggezza lontano dagli altri, lontano da voi, usando a mia difesa le armi della parola, della rinuncia e dell’esclusione. Ironia della sorte, ho trovato il nulla ovvero quanto di più terribile potessi trovare, ma va bene così, almeno ho preservato la mia libertà.
Ho sempre guardato dritto in faccia, senza distogliere lo sguardo, ciò che voi nascondete a voi stessi, storditi dal vostro stesso strepito. Sono sempre stato capace di pensare la morte che sono e anche se, in fondo, non ho fatto altro che ricominciare daccapo lo stesso fallimento laddove tanti altri scrittori e pensatori lo avevano lasciato, almeno morirò in pace con me stesso, almeno sarò felice di morire.
Ancora non avete capito che il progresso non ha niente a che fare con la felicità? Ancora non avete capito che il progresso, questo grandioso e fantomatico mito moderno all’ombra del quale è nata la nostra luminosa civiltà, non è altro che una superstizione «con cui si nasconde a se stessi la propria incomprensione della vita» [115]? Da più di due secoli progrediamo, progrediamo incessantemente e che cosa abbiamo guadagnato da questa inarrestabile marcia in avanti? La distruzione dell’individualità e dell’unico pianeta così generoso da ospitarci, da donare la vita a un essere tanto sviluppato e intelligente quanto menomato e stupido. Bravi! Bel lavoro! Diventare schiavi senza nome di governi e multinazionali, era questa la vostra grandiosa aspirazione? Provate a ribellarvi, almeno una volta nella vita, allo stato presente delle cose, al vostro mondo inautentico e sentirete un brivido vitale corrervi lungo la schiena, la vostra coscienza che si risveglia. Ma è così confortevole restare dei semplici rimasugli d’umanità, vero? Io non ho mai voluto essere semplicemente un rimasuglio, un rottame d’umanità, ma un uomo, e forse questo mi rende ancor più misero di tutti voi. Accumulate ogni giorno beni superflui, trasformando la terra in un’immensa discarica, vi circondate di sciocchezze, complicate la vita, che in fondo è una cosa così semplice, così elementare. Ogni giorno ideate congegni e ordigni, fino a quando troverete quello capace di annientare in un colpo solo il mondo intero – non necessariamente un male, anzi:

Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie [116].

Il progresso ha arrestato l’evoluzione. L’età media si alza, l’intelligenza si affina, fino a crearne una nuova, artificiale, la tecnologia si evolve e l’uomo organicamente si indebolisce, regredisce, incapace di adattarsi, di resistere al freddo e al caldo. Vivere senza condizionatore d’estate è diventato impossibile… E indebolendo noi stessi indeboliamo la terra, di cui ormai non siamo altro che il mortale virus. Gran bel progresso, complimenti!
Le condizioni poste dalla natura alla vita su questa povera terra sono così semplici, così elementari, ma voi non avete fatto altro che complicare le cose, ergere sovrastrutture su sovrastrutture, ideologiche, politiche, sociali, ridicole e fasulle tutte, sotto le quali avete sepolto la vostra coscienza, la vostra essenza, il vostro «oltre», come lo definisce Serafino Gubbio [117], privandovi per sempre della possibilità di un’esistenza autentica e libera, terragna. Avete creato un sistema di vita artefatto e ipocrita, dominato dall’interesse, dall’egoismo nella sua forma più becera, viziosa, nel quale vi muovete alla stregua di automi, intrappolati in un labirinto di convenzioni che allontanano dall’essenziale, dal «midollo dell’universale» [118]. Un meccanismo assordante e frenetico che non sa produrre altro che stupidità, stupidità «affannose e grottesche» [119].
Come nel sanatorio della Montagna incantata alla vigilia della Prima guerra mondiale, vedo proliferarsi e diffondersi nel vostro mondo idiote strategie d’evasione che sfociano nell’ossessione: il regno della «Grande Stupidità». Anch’io, come Hans Castorp, mi guardo attorno e non vedo che aspetti paurosi, sinistri, maligni, rendendomi conto di ciò che vedo: «la vita senza tempo, la vita senza preoccupazioni e senza speranze, la vita sciatta, affannosa e stagnante, la vita morta» [120]. Come Hans Castorp, anch’io provo paura guardandomi intorno e presagisco una catastrofe imminente. Non gioco a fare il profeta o, peggio, il menagramo, semplicemente faccio strazio di ciò che vedo e di me stesso. Sì, anche di me stesso, perché, vedete, il consapevole vive ogni giorno il supplizio di Tantalo, è condannato a una fame e a una sete eterne, impossibili da placare e, per quanto mi sia sempre sforzato di riconoscermi indifferente come voi e il vostro mondo, come accade a Meursault prima di morire [121], in realtà non ho mai smesso di desiderare un cibo e un’acqua che mi salvassero dalla mia condanna. Lei era riuscita ad appagare, almeno in parte, questo desiderio, che ora sono costretto a dilaniare per poter resistere, dilaniando con lui, necessariamente, una parte considerevole di me stesso, a tal punto è radicata nel profondo questa aspirazione.
La vostra vita sociale è una vita parassitaria, dominata dal superfluo e dalle sciocchezze, inquinata alle radici, e non conoscete più salute. Avere un lavoro sicuro, ovvero mettersi in salvo, accoppiarsi, proliferare, metter su famiglia, o magari più d’una, comprare una casa dotata di tutti i comfort e una macchina (elettrica, mi raccomando), concedersi una volta all’anno un paio di settimane di vacanza, permettersi delle salutari scappatelle: ecco a cosa si riduce la vostra utilità sociale. Ebbene, all’interno di questo quadro desolante, essere «un uomo utile mi è sempre parso qualcosa di molto repellente» [122]. Sono sempre stato felice, malignamente felice, come un diavolo, della mia inutilità, della mia irresponsabilità, della mia inattualità, e quanto ne ho riso! La mia esistenza non poggia su alcuna base solida, sicura, sono un singolo, un isolato che non offre garanzie e non ha niente da perdere, dunque niente da arrischiare. Io sono tutto ciò che la mia immagine riflette, un vagabondo dello spirito e niente di più, che ha sempre trovato troppo angusta e opprimente, troppo limitata e semplicistica la vostra visione del mondo e della vita. Invece di mantenermi entro i limiti di un modo di vedere e di pensare mediocre, sfumato e tiepido, che a tutti voi arreca tanto conforto e sicurezza, ho sempre oltrepassato i confini convenzionali della maggioranza e vagabondato in oscure e rimosse regioni del pensiero umano, dubitando di tutto, deridendo, negando e distruggendo tutto, anche a costo di distruggere me stesso.
Ho sempre ripudiato il concetto di stato, «il più freddo di tutti i freddi mostri» [123], «dove tutti perdono se stessi» e «il lento suicidio di tutti si chiama “la vita”» [124], e ogni forma di governo, ritenendo ogni forma di governo un regime (democrazia compresa, «schiavitù autocompiaciuta» [125]), un attentato alla libertà dell’individuo, ma senza fantasticare grandiose rivoluzioni. Non ho mai avuto fiducia nella massa, i cui moti producono solamente disastri, e non mi sono mai ritenuto un rivoluzionario, bensì un ribelle, il cui unico scopo è riprendere il governo di se stesso:

Rivoluzione e ribellione non devono essere considerati sinonimi. La prima consiste in un rovesciamento della condizione sussistente o status, dello Stato o della società, ed è perciò un’azione politica o sociale; la seconda porta certo, come conseguenza inevitabile, al rovesciamento delle condizioni date, ma non parte di qui, bensì dall’insoddisfazione degli uomini verso se stessi, non è una levata di scudi, ma un sollevamento dei singoli, cioè un emergere ribellandosi, senza preoccuparsi delle istituzioni che ne dovrebbero conseguire. La rivoluzione mirava a creare nuove istituzioni, la ribellione ci porta a non farci più governare da istituzioni, ma a governarci noi stessi, e perciò non ripone alcuna radiosa speranza nelle “istituzioni” [126].

Stati, governi, regimi hanno in fondo poca importanza, sono niente e svaniranno nel niente. Come annuncia Baudelaire, la rovina ovvero il progresso universale, non si manifesta attraverso le istituzioni politiche, ma anzitutto attraverso «l’avvilimento dei cuori» [127]. Da questo avvilimento deriva tutto il resto. La meccanica e l’ultra-capitalismo vi hanno americanizzati, svuotati a tal punto, a tal punto il progresso ha atrofizzato la vostra parte più preziosa, quella spirituale, che tra non molto escogiterete una giustizia che «farà interdire quei cittadini che non abbiano saputo far fortuna» [128]. Del resto, nel vostro senso di giustizia avete introdotto «un’infamia irreprensibile» [129]. Come Baudelaire, «sperduto in questo brutto mondo, spinto a gomitate dalla folla, sono come un uomo stremato il cui sguardo non vede, dietro di sé, negli anni profondi, che disillusione e amarezza, e davanti a sé soltanto una burrasca che non contiene niente di nuovo, né insegnamento, né dolore» [130].
Nessuno mi darà mai un premio per la mia ribellione e la mia resistenza, del resto, non è un premio che ho mai cercato, consapevole della sua inesistenza:

Niente da aspettare
niente da temere
niente chiedere – e tutto dare
non andare
ma permanere. –
Non c’è premio – non c’è posa.
La vita è tutta una dura cosa [131].

Mai, sempre, sempre, mai… I due estremi in cui è condannata a dibattersi la maledetta razza degli assoluti, incontentabili, destinati a restare fino all’ultimo dei loro giorni incompresi ed emarginati.
Per la mia natura estrema, se avessi avuto anche solo un sospetto di fede, con voluttà mi sarei fatto monaco e avrei scalato con entusiasmo, a mani nude, il monte Athos, mentre non sono diventato altro che l’ennesimo profeta del nulla inascoltato e suicida.

NOTE

[102] Fëdor Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, cit., p. 66.

[103] Lev Tolstoj, Resurrezione, traduzione di Emanuela Guercetti, Garzanti, Milano 2013, pp. 50-51.

[104] Robert Musil, L’uomo senza qualità, traduzione di Irene Castiglia, Newton Compton editori, Roma 2013, p. 842.

[105] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 104.

[106] Ivi, p. 105.

[107] Ivi, p. 122.

[108] Ivi, p. 129.

[109] Ivi, p. 134.

[110] «Pape Satàn, pape Satàn aleppe» esclama insensatamente il Pluto dantesco in apertura del VII canto dell’Inferno.

[111] Jean-Paul Sartre, La nausea, traduzione di Bruno Fonzi, Einaudi, Torino 2014, p. 180.

[112] «[…] tutto quello che nasce è degno di finire in perdizione. E però meglio sarebbe che non nascesse nulla»; «Per conto mio, preferirei il vuoto eterno» (Johann Wolfgang Goethe, Faust, traduzione di Guido Manacorda, BUR, Milano 2008, p. 99 e 873).

[113] Robert Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 843.

[114] James Joyce, Ritratto dell’artista da giovane, traduzione di Marina Emo Capodilista, Newton Compton editori, Roma 1995, p. 215.

[115] Lev Tolstoj, La confessione, cit., p. 19.

[116] Italo Svevo, La coscienza di Zeno, in Id., Romanzi, a cura di Pietro Sarzana, Mondadori, Milano 1992, p. 1117.

[117] Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Mondadori, Milano 1974, p. 3.

[118] Fëdor Dostoevskij, Da parte dell’autore, in Id., I fratelli Karamazov, cit., p. 21.

[119] Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, cit., p. 139.

[120] Thomas Mann, La montagna incantata, traduzione di Ervino Pocar, Corbaccio, Milano 2014, p. 591.

[121] «Quasi che quella grande rabbia mi avesse purgato dal male, svuotato della speranza, di fronte a quella notte carica di segni e di stelle mi aprivo per la prima volta alla tenera indifferenza del mondo. Nel riconoscerlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito di essere stato felice, di esserlo ancora» (Albert Camus, Lo straniero, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2016, pp. 156-157).

[122] Charles Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, a cura di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano 1983, p. 55.

[123] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, traduzione di Anna Maria Carpi, in Id., Opere 1882/1895, cit., p. 254.

[124] Ivi, p. 255. Un analogo giudizio negativo dello stato si trova già in Stirner: «Lo Stato non può abbandonare la pretesa di determinare la volontà dei singoli, di contarci e di specularci. Per lo Stato è assolutamente necessario che nessuno abbia una volontà propria e, se qualcuno dimostra di averla, lo Stato deve escluderlo (rinchiuderlo, esiliarlo, ecc.); se tutti dimostrassero di averla, essi abolirebbero lo Stato. Lo Stato non è pensabile senza il dominio e la schiavitù (sudditanza); infatti lo Stato deve dominare tutti coloro che ne fanno parte: questa si chiama appunto “volontà dello Stato”» (Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 205-206).

[125] «Chiunque avrebbe potuto accorgersi che tutto ciò non era altro che un imbroglio, sia in teoria sia in pratica, giacché anche nel più democratico dei sistemi e anche laddove vige il suffragio universale, il popolo non può comunque esprimere la propria volontà. E non può esprimerla, in primo luogo, perché una simile volontà collettiva di tutto un popolo, di molti milioni di persone, non esiste e non può esistere; in secondo luogo, perché, anche se esistesse una tale volontà collettiva, una maggioranza di voti non potrebbe comunque esprimerla pienamente in alcun modo. Questo inganno – anche a tacere sul fatto che gli uomini eletti in tal modo, partecipando al governo del loro paese, approvano leggi e governano il popolo non in vista di ciò che è bene per esso, ma lasciandosi guidare per lo più, unicamente, dall’intento di mantenere salda la propria posizione di privilegio e il proprio potere frammezzo alle lotte dei vari partiti, e per tacere altresì della depravazione che questo inganno diffonde tra il popolo mediante le menzogne, lo stordimento e le corruzioni che sono caratteristica costante dei periodi elettorali – è particolarmente dannoso a cagione di quella schiavitù autocompiaciuta in cui esso riduce gli uomini che vi incorrono» (Lev Tolstoj, Guerra e rivoluzione, a cura di Roberto Coaloa, Feltrinelli, Milano 2015, p. 88).

[126] Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 330-331.

[127] Charles Baudelaire, Razzi, in Id., Il mio cuore messo a nudo, cit., p. 33.

[128] Ivi, p. 34.

[129] Ibidem.

[130] Ivi, pp. 34-35.

[131] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute, cit., p. 85.

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