Spazzatura. I rifiuti cerebrali di un uomo (suo malgrado) – Agosto

1. – Sai, Carlo, qualche anno fa anch’io ho avuto un’avventura con una donna russa più grande di me, molto più grande di me. Avevo ventisei o ventisette anni, lei almeno venti di più. Si chiamava Marina, capelli castani, fisico imponente, da amazzone siberiana, direi. Aveva un figlio della mia stessa età, ferito gravemente nella guerra del Donbass, ricoverato in condizioni critiche. Per questo motivo aveva le unghie devastate, mordicchiate, smangiucchiate. Le sue labbra carnose contornate di nero erano reticenti, ma sono riuscito a piegarle in un modesto sorriso con i miei complimenti, melliflui forse, ma lì per lì sinceri, onesti. Era angosciata per la triste sorte del frutto del suo grembo, ma io ancora oggi m’illudo di essere riuscito a mitigare almeno per mezz’ora la sua angoscia.
– Come…
– Come ci siamo conosciuti? Ho letto il suo annuncio… Mi ha attirato l’ottimo rapporto qualità-prezzo. Dopo aver fatto l’amore abbiamo parlato per un po’ (sai, era tardi, ero l’ultimo cliente), mi ha raccontato la sua storia, di cui ricordo però solo pochi particolari. Prima di andare via l’ho abbracciata, ma lei ha messo in chiaro di non essere quel genere di donna, che lascia gli uomini aggrapparsi a lei come a una scialuppa di salvataggio. Mortificato, perché non era certo mia intenzione cercare appigli, me ne sono andato via a testa bassa, lasciandola alla sua inquietudine, divorato dal rimorso che sempre, fisiologicamente, si manifesta in me dopo simili circostanze. Io mi disprezzo sempre, Carlo, come vuoi tu, e soprattutto dopo aver comprato una donna. Il Caso mi ha fatto dono della solitudine, ma non sempre so apprezzare questo dono come dovrei, come merita.
– Colui che è per sé stesso non ha bisogno d’altra cosa che sia per lui nel futuro, ma possiede tutto in sé. Ma l’uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di sé stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a sé stesso in ogni presente.
– Il dovere di un uomo solo è di essere ancora più solo.
– Ci sei anche tu, Emil?
– Io ci sono sempre.

2. – Meursault è innocente! È il sole il colpevole! La colpa è di quella maledetta palla di fuoco che ci incendia! Arrestate il sole! Condannate a morte il sole! Impiccate o crivellate il sole, non quest’uomo senza colpa! – gridavo come un ossesso per i corridori del tribunale di Algeri, mentre le guardie mulatte e sudate mi trascinavano fuori a forza.

3. Ieri sera Elena – in realtà si chiama Francesca, ho scoperto almeno il suo nome, e so anche dove lavora, in un’agenzia immobiliare – indossava un abito bianco, all’altezza delle ginocchia. Nella calura umida della sera, quando le mura dei palazzi e l’asfalto sprigionano il calore assorbito durante il giorno, la sua figura ideale emanava freschezza, una freschezza salutare e benefica. Ah, con quanta devota voluttà naufragherei in quella lunga chioma ondosa e del colore del rame! Ma il Caso mi ha già fatto una grazia mostrandomela. La sua sola esistenza è un miracolo. Conquistare il suo amore sarebbe come morire, ma di una morte eroica, di una morte «bella» – quella teorizzata e praticata da Carlo -, a me preclusa.

4. Ieri sera ho incrociato lo sguardo di una madre che passeggiava mano nella mano con sua figlia. Uno sguardo disilluso e tragico: il mio sguardo. I nostri occhi si sono incontrati per un secondo, non di più, eppure è bastato questo solo, fugace attimo per sentirmi eternamente, cosmicamente legato a quella donna. In quel secondo l’ho amata con tutto me stesso, e so per certo che lei ha amato me.

5. Sono un uomo primonovecentesco. Come tale sono più interessato a comprendere il dolore che a respingerlo, negarlo, o addirittura estirparlo. Me ne frego del kitsch dell’ipocrita comfort morale, credo, con Strindberg, che «la vita rende tutto orribile», e che, con Maeterlinck, tre quarti degli uomini – stima comunque generosa -, «sono condannati alla miseria». Io aspiro ad un’etica assoluta, intransigente, radicale che voi oggi non potete neanche lontanamente immaginare. Io porto dentro di me lo spirito nichilistico d’inizio XX secolo, alla ricerca più di una «metamorfosi del male», con Trakl – a proposito, in questi giorni ho una relazione con sua sorella Grete, ma che nessuno glielo dica -, che un’idiota negazione di quelle forze distruttrici che incombono invisibili, ma pesanti come massi, e inesorabili come condanne al rogo nella Spagna ultracattolica del Quattrocento, sulle nostre teste spezzate dal resto del corpo.

6. C’è un solo cattolico che rispetto, ed è il cattolico radicale alla Leo Naphta, che non cede alla melliflua ipocrisia imposta come nuovo dogma propagandistico dalla chiesa contemporanea.

7. Rido, e di cuore, dell’ipocrita e vile nosofobia contemporanea. Che mi aggredisca un morbo incurabile, che mi condanni a morte! Allora sì che troverei la forza e il coraggio di spararmi un colpo di pistola in testa. Verrei persino giustificato da questa società sprofondata nel kitsch del comfort morale… che simpatica ironia.

8. La responsabilità della donna in questo irreversibile processo di sfacelo socio-storico-culturale è enorme. La donna non sa più spingere il proprio sguardo oltre il muro dell’apparenza, resta deficientemente attaccata alla superficie, e aspira a farsi maschio, a maschilizzarsi per scrollarsi di dosso tutte le responsabilità. La donna, coscienza del mondo… la sola che potrebbe salvarlo, ma che preferisce lasciarsi travolgere dalla distruzione, che preferisce lasciarsi contaminare dalla minorità. Perché la distruzione e la minorità sono così comode, confortevoli e semplici. Facile, molto più facile accomodarsi sul treno veloce che conduce all’estinzione piuttosto che provare a fermarlo.

9. Le donne si allontanano da me perché io mi mostro per quello che davvero sono, nudo, senza ricorrere a ipocriti travestimenti. E l’uomo nudo è spregevole e fa paura. Ogni uomo. Se noi ci mostrassimo per quel che davvero siamo, come faccio io – perché il Caso mi ha privato della capacità di fare diversamente -, non proveremmo più alcuna attrazione sessuale gli uni per gli altri. Ma si svilupperebbe forse, forse, un sentimento di solidarietà ancora sconosciuto alla storia dell’umanità. Un sentimento di solidarietà vero, autentico, profondo, che ritarderebbe la nostra, comunque inevitabile, estinzione.
Io sono un nudo di Schiele. E un bue squartato di Soutine.

10. Che sia chiaro: io non voglio convincere nessuno, io non voglio avere ragione di nessuno. Io non intendo spiegare, né tantomeno giustificare, quello che penso, perché non solo quello che penso, ma tutto, e ribadisco tutto, è privo di una spiegazione e di una giustificazione. Qualcuno di voi tirerà certamente in ballo la scienza. Ma ricordate quello che scrive Wittgenstein: «Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati».

11. Tavole della legge, codici e costituzioni sono assolutamente inutili. Meri orpelli retorici con i quali sette e stati giustificano se stessi al cospetto della “civiltà”. Quanti di queste indicazioni, quanti di questi foglietti illustrativi se ne fregano, aggirandoli in modo più o meno eclatante? Abbiate il coraggio di rispondere a questa domanda – ma esaminando innanzitutto voi stessi, e poi, per consolarvi, perché dovrete consolarvi, gli altri -. Non oserete forse condividere la mia opinione – e non è certo questo che voglio -, ma almeno mi biasimerete arrossendo, distogliendo lo sguardo.

12. Sono intrappolato in un libro di cui avrei voluto e dovuto essere l’autore e non il protagonista. È questa la mia disgrazia.

13. Le venti circa. Fuori è la luce della tragedia: rossa. Rossa come lo sguardo rosso di Schönberg. Il canto dodecafonico delle cicale fa da sottofondo. Certamente un uomo non lontano da qui si sta strappando la carotide, o si sta spappolando le cervella con un colpo di pistola, o si sta precipitando da una finestra, o si sta appendendo ad una trave. Quello che dovrei fare io. Quello che vorrei fare io. Ma i legami m’intrappolano come una camicia di forza. Invisibile e dunque invincibile.

14. Lukács scrive che «Ogni opera letteraria è costruita attorno a problemi e traccia un sentiero che, d’improvviso, inaspettatamente eppure con forza inesorabile, può interrompersi sul ciglio di un burrone. Ciascuno dei suoi sentieri – si snodino pure lungo palmeti in fiore o attraverso campi rigogliosi di candidi gigli – ciascuno dei suoi sentieri porterà soltanto là, sul ciglio del grande burrone, né può interrompersi prima o altrove che proprio sul ciglio di questo burrone». Ma io non mi accontento, non posso accontentarmi del ciglio, io vi precipito con me nel burrone! E non passiamo certo per palmeti o per campi di gigli, no, ma per deserti e scenari post-apocalittici, per distese riarse e rese sterili dalle fiamme, cumuli di cenere e di ossa. Ad una desolazione mortale è ridotto il mio cervello distrutto.

15. «Nelle ore più sublimi della donna, l’uomo è soltanto il falegname di Maria, accanto a un dio».
Lou Andreas-Salomé, Erotismo, 1910

Elena, mia Elena. Non ci sorrideremo mai. Mai ci scambieremo una parola. Mai le nostre mani si sfioreranno, le nostre labbra si congiungeranno. Mai ci vedremo nudi. Mai il mio sguardo potrà sfondare il muro dell’immaginazione e ritrovarsi davanti alla realtà. Eppure sappi che questa impossibilità, proprio questa impossibilità, mi rende tuo più di tutti quegli uomini ai quali hai fatto dono del tuo sorriso, della tua parola, del tuo amore e del tuo corpo. Non mi conoscerai mai, e proprio questo mi permette di essere quell’uomo ideale che sogni e che non incontrerai mai, quel dio che vagheggi nei tuoi momenti sublimi. Io sono tutto ciò che desideri, io… Quando ti ammiro dentro di me non c’è voluttà, quella volgare voluttà che vedo affiorare negli occhi ferini degli uomini bestiali che ti guardano, ma un placido appagamento, una quieta soddisfazione. Loro ti guardano bramosi, lascivi, io invece ti ammiro, come dio, se fosse esistito, avrebbe ammirato il mondo dopo averlo creato.

16. Non ho resistito. Giunto all’ingresso del cimitero civile di Nettuno, al fascino dei lumini accesi non ho resistito, e mi sono intrufolato dentro, per una fessura. Che dire? Non appena ho messo piede nel camposanto deserto, una sensazione di sollievo mi ha invaso, salutare come un acquazzone in piena estate. Ho respirato profondamente e mi sono incamminato per i piccoli sentieri segnati dai lumini, che risplendevano come tante lucciole immobili. Osservando la loro luce rossa provavo un sentimento irresistibile, misto di tentazione, voluttà, piacere e timore. Quello stesso sentimento che, anni fa, ho provato passeggiando per la prima volta nel quartiere a luci rosse di Amsterdam. Sì, la morte è per me affascinante come una bella donna nuda, che se passeggiasse tra i canali sarebbe irraggiungibile, ma esposta all’interno di una vetrina sanguigna per una cifra tutto sommato modesta è accessibile a chiunque. Camminando tra le lapidi annerite, scrutandole, pensavo allo sforzo sciocco di tutti questi morti di fuggire la morte. Dal giorno della mia nascita io procedo controcorrente. Se tutti sfuggono alla fine, io la rincorro. Ma gli altri non sanno, o meglio fanno finta e s’illudono di non sapere, che il traguardo della loro corsa stupida e della mia coincidono. Si corre su un cerchio, e taglieremo tutti lo stesso traguardo, sprofonderemo tutti in quel Nulla che ci accoglie a braccia aperte e dal quale il Caso ci ha estratto a sorte. Una voce maschile mi ha ammonito:
– Non generalizzare, filosofastro da quattro soldi. Anche in questo cimitero ci sono resti di uomini che sono stati felici di morire. Non sei stato, non sei e non sarai l’unico.
A queste parole ho sorriso e sono andato oltre la tomba che le ha proferite.
Qui sono sepolti anche i miei nonni paterni. Da bambino con i miei genitori venivo a trovarli spesso – utilizzando il loro, il vostro linguaggio -, ma da qualche anno a questa parte neanche loro ci vengono più. I morti si dimenticano, e il ricordo svanisce nella memoria dei cari ancor prima della morte.
I cimiteri sono città nelle città, ma come tutte le costruzioni umane non hanno alcun senso. Perché sottrarre spazio alla natura per conservare resti di persone di cui ci si dimentica presto, il cui ricordo precipita presto nell’oblio? Io voglio essere cremato, e questa volontà la porto sempre con me, fissata su un foglietto riposto nel portafogli. Non sia mai che il Caso voglia farmi la grazia di liberarmi anzitempo da questa tortura.
Mi trovo a mio agio nel niente, a passeggiare tra i miei veri simili.

17. Piove. Adagio, ma piove. Devo saper farmelo bastare.

18. Sotto questo cielo pesante, di un grigio sporco, malato, si sta come sepolti vivi.

19. Se non mi è concesso scrivere come Dostoevskij, che mi sia almeno concesso di avere la sua stessa barba.

20. Un uomo a pezzi scrive a pezzi.

21. Schiacciato a terra dall’umidità, che gl’impedisce di svaporare nel nulla, l’odore acre delle fritture punge le nari. Come pungeva le nari l’odore acre di sudore rappreso dei vugumbrà trascinanti sulla sabbia bollente grosse buste di plastica incollate alla pelle bruciata. Le strade strette intasate di scatole sferraglianti, sbuffanti, rotolanti in cerca di un chimerico buco nel quale ficcarsi e morire, almeno per qualche ora. E i locali strapieni come formicai, e sui marciapiedi processioni di gaudenti gibboni caricati come sgraziati carillon dal dio della philopsichìa. Di autentico resta solo il mare nel suo perpetuo e silenzioso andirivieni lamentoso, e quella mezzaluna rossastra, sanguigna, ma assai meno sanguigna degli occhi e delle lacrime del Cristo coronato di spine di Beato Angelico, che ci scruta dall’alto domandandosi come tutto ciò sia possibile. Mi interroga, ma non oso risponderle. E dopo aver passato due ore a girovagare come un affamato e assetato cane randagio scacciato a colpi di scopa, me ne torno a casa, mi rintano nella mia tana spogliandomi di questa sensazione di deficienza prima di seppellirmi sotto il lenzuolo. Tragicomico epilogo di un sabato sera abortito.

22. – Qual è il tuo sogno?
– Io non ho sogni.
– Ma dai… ogni uomo, anche quello più disgraziato, ha un sogno.
– Credi che anche Caino avesse un sogno?
– Ne sono certa.
– In ogni caso, io non sono come gli altri uomini. Io faccio umanità per conto mio.
– Ci siamo svegliati con la luna storta questa mattina… Non sogni neppure la mia esistenza?
– Io non ti ho sognata ma ti ho immaginata, è ben diverso. E poi non ti ho chiesto di comparire.
– Grazie tante. Vai a fare del bene…
– Non esistono bene e male, esiste solo il Caso.
– Ti prego, non iniziare a filosofeggiare, mi annoieresti in pochi minuti.
– Allora significa che non sei all’altezza, che qualcosa nella mia immaginazione si è inceppato, è andato storto.
– Che insolente…
– Se non ti sta bene vattene, o taci per lo meno.
– Ma vai a quel paese. Io me ne vado. Addio, ingrato.
– Addio, aborto. Meglio soli che male accompagnati.
– Imbecille.

23. Il caldo squaglia i giorni, che colano lentamente formando pozze appiccicose e maleodoranti. E anche il mio cervello si squaglia in un liquido viscoso, fangoso che ondeggia nel cranio ridotto a un barattolo d’ossa. Conserva di materia grigia andata a male, ammuffita.

24. Furenti nuvole nere si stagliano compatte all’orizzonte. Gridano e s’avanzano, lampeggiano, fremono. Un’insperata tregua al caldo torrido d’agosto? No, solo una speranza inesausta, frustrata. Perché le nuvole così spaventose laggiù, qui passano innocue, silenziose, non più tenebrose ma chiare, non più serrate ma sfilacciate, slabbrate, sbrindellate, svanendo nel Nulla senza lasciare traccia. La terra, che aveva spalancato le fauci riarse certa di dissetarsi, le richiude, delusa, rimestando tra i denti quel poco di saliva avvelenata che le è rimasta. E intanto le cicale se la cantano, incuranti, indifferenti, ignorando il drammatico destino che le attende.

25. Muoio tutte le notti. Risorgo tutte le mattine, tra le sette e trenta e le nove, variabilmente.
– Noli me tangere, – sussurro sempre al primo volto familiare, o alla prima Maddalena, che incrocio, infastidito dal quotidiano miracolo.

26. Prima di prendere il treno che mi riporti a casa, fumo una sigaretta all’ingresso della stazione Termini, tra vàgeri ustionati dal sole nero d’agosto che rovistano nella spazzatura in cerca di qualcosa da bere e da mangiare (un vecchio fortunato, che indossa un cappotto lacero neanche fosse dicembre, pesca una bottiglia di succo di frutta mezza piena e vi si attacca con crudele avidità). Mi assale improvviso il ricordo di un uomo che definire disperato è un drammatico eufemismo: in questo non-luogo illustrava, su due cartoni che portava appesi al collo, la propria merce: un rene. Se ne stava ritto e attendeva un acquirente, e io non so come i bipedi i cui occhi si posavano su quell’annuncio grottesco, assurdo, potessero restare indifferenti. Impassibili, procedevano spediti per la loro strada, senza fermarsi neppure un istante a riflettere su quell’umana tragedia.

27. Nero, nella pelle e nell’abito – una lunga tunica clericale -, affronta il feroce sole delle tredici con noncuranza, sorprendentemente agile. Mentre io, dietro di lui, bianco come un cadavere, arranco e affogo nella sua polvere. Che la fede concili l’uomo con gli elementi? Questo mio cammino nel sole finirà per essere un autodafé.

28. Passeggiavo relativamente tranquillo per via Gramsci, rasentando il mare. La mezzanotte era passata da qualche minuto e mi trovavo all’altezza dell’ingresso di Villa Borghese, quando all’improvviso mi sento afferrare con forza per una spalla. Mi volto e mi ritrovo faccia a faccia con un uomo stravolto, che riconosco subito, pur avendolo visto l’ultima volta una decina d’anni fa, alla soglia dei vent’anni.
– Perché… perché non mi hai ammazzato? Perché non hai concluso il lavoro e non hai fatto quello che doveva essere fatto, quello per cui ero nato, quello per cui tu mi avevi creato?
– Sebastiano… come sei invecchiato… – sono riuscito appena a sussurrare, annientato dalla pena che mi faceva quel mio coetaneo un tempo così bello ed energico, oggi invece così brutto e stanco.
– Io non vivo e non sono morto. Non dormo da dieci anni e tu sai bene quanto amassi il sonno… Perché… perché non mi hai ammazzato?
Sebastiano era il protagonista di un mio romanzo giovanile, che ho iniziato a scrivere ma che non ho mai concluso. E il manoscritto è andato distrutto, bruciato insieme a molte altre cartacce parecchio tempo fa. Ormai non posso spingermi oltre il rimorso di coscienza. Sono un demiurgo dimezzato.

29. Ho visto Carlo e sua madre Emma passeggiare sulla spiaggia, a braccetto. Lei osservava lui con un sorriso ineffabile, suprema manifestazione di gioia e amore. Lui invece guardava ostinatamente a terra, severo come sempre. Dopo l’ultima lettera lui non aveva più niente da dire a lei, e dopo quei due colpi di pistola niente più da aggiungere. E infatti era lei a parlare, parlare, parlare… radiosa.
– Anche Gino sarà qui a momenti, – le ho sentito dire, mentre il mio pensiero correva a mia madre, abbracciandola come, forse, non ho mai fatto realmente.

30. Questo inchiostro è colpevole come lo sperma versato al termine di una pratica autoerotica o di un rapporto sessuale protetto. Un immorale spreco della potenzialità procreatrice.

31. Ogni rapporto sessuale è un pasto antropofago. Affamati di carne umana ci divoriamo, e restiamo insaziati. Siamo perennemente in caccia, ventiquattro ore su ventiquattro, svegli e addormentati. È questa fame bestiale che muove il nostro mondo. Osservate lo sguardo di un maschio: nei suoi occhi, ogni qual volta incontrano una femmina, brilla la brama ferina e cannibalesca. Per quanto riguarda le femmine, di rado tale fame è così grossolanamente visibile ed evidente, ma dentro di loro è sempre viva e spettacolare come un vasto incendio.

32. Una lira abbandonata sugli scogli tra le rovine della villa di Nerone, il cui sguardo, seppur pietrificato, minaccia ancora il mare. Orfeo vedovo deve essere passato di qui.

33. Un banano imprigionato in un giardino di Nettuno. Come le palme a Pietroburgo.

34. Gli uomini non meritano attenzione, non meritano considerazione. Meritano di marcire nella loro maleodorante ignoranza. Ah… avessi un’eredità che mi permettesse, come Peter Kien, di isolarmi dal mondo, di concentrarmi solo su ciò che conta davvero, senza dover chiedere niente a nessuno. E invece sono costretto ogni maledetto giorno a dover fare i conti con la mia deficienza, mostruoso spettro che, se fino ad ora sono riuscito a tenere a bada, tra qualche settimana mi schiaccerà inesorabilmente. Perché per quanto io mi stia impegnando, per quanto stia studiando ed elaborando, so fin troppo bene che le possibilità di ammissione al dottorato sono ridotte al lumicino. E allora è bene iniziare ad allenare fin da ora quella indifferenza che mi sarà necessaria per ammortizzare il colpo dell’inevitabile fallimento. Il mio destino è già scritto ed è un destino amaro, di disfatta.

35. Dall’adolescenza sono vittima di una inarrestabile, inguaribile, irreversibile emorragia del mio Io. Il mio Io ha sommerso il mondo intero, e le conseguenze sono state catastrofiche: tutto è andato distrutto, tutto. L’incoscienza, la speranza, l’illusione sono state spazzate via da questa inondazione dell’interiorità, ed ora è crudelmente, spietatamente visibile ciò che queste maschere coprono, nascondono, censurano: la devastazione universale, l’insensatezza universale.

36. Io sono tutto ciò che sfuggite, censurate, esorcizzate. Io sono la Coscienza, la Consapevolezza, la Critica, l’Alterità, la Solitudine, la Voce, l’Indifferenza, il Dolore, la Persuasione, la Morte, il Nulla. Schiavi dell’apparenza, miseri a tal punto da accontentarvi di ciò che riflette l’immagine, non sapete vedere oltre questo insignificante e misero corpo, una carnosa e pelosa anfora di muco. Che se voi sapeste spingere il vostro sguardo in perenne, irreversibile stato comatoso dentro, vedreste rivelata la vostra essenza, nuda e spaventosa. Perché io sono ciò che è, mentre voi siete ciò che non-è, dunque non-siete. Il dio dell’apparenza al quale vi siete abbandonati, rende voi stessi delle apparenze. Non esistete, avete l’inconsistenza del miraggio, dell’ologramma. Io invece esisto davvero, ed esistendo davvero già in vita vivo la mia morte. Nella mia condizione non c’è più alcuna differenza tra vivere e morire, non si tratta che di una mera formalità, mentre voi nella vostra illusione di vita, ad ogni dipartita di un vostro simile inscenate grottesche farse che strapperebbero persino qualche sorriso se non provassi nei vostri confronti un odio profondo. Accompagnate l’ultimo istante con grida e lacrime convulse, sciocche e insensate. Io sarò felice come non lo sono mai stato prima.

37. Afferro la penna con forza, la stritolo, la spremo, e con la sua punta acuminata aggredisco la carta con ferocia, come il carnefice la propria vittima. Perché, in fin dei conti, la mia vittima si riduce sempre e solo a questi fogli maledetti che non mi hanno fatto niente, e la cui unica colpa è di essere capitati tra le mani dell’unico uomo sbagliato.

38. Se avessero non dico una bocca, ma anche solo uno sguardo, uno sguardo mutilato, fatto di un occhio solo, anche queste quattro pareti mi griderebbero tutta la loro angoscia.

39. Io sono il quinto Karamazov.

40. Tutto ciò che meriterebbe di essere nascosto, occultato, eliminato viene mostrato, esaltato, consacrato. Al contrario, tutto ciò che meriterebbe di essere mostrato, esaltato, consacrato viene nascosto, occultato, eliminato.

41. Il sole nero del “progresso”. Il “progresso” è direttamente proporzionale all’ignoranza, aumenta l’uno e di conseguenza aumenta l’altra. Più “progrediamo”, più precipitiamo nella barbarie.

42. Di ciò che finora ho scritto, e di ciò che scriverò, probabilmente niente ha importanza né senso. Ma non si tratta di una mia incapacità, di una mia deficienza, perché niente in fondo ha importanza né senso. E men che mai chi di avere importanza e senso è certo.

43. Dostoevskij individuava in Aci e Galatea di Lorrain l’ideale rappresentazione del mito dell’età dell’oro. Io oggi la individuo in Lusso, calma e voluttà di Matisse, per la sua coloratissima indeterminatezza. Al Pompidou avrò trascorso un’ora davanti a questo capolavoro. In esso mi sono tuffato, e ho trascinato con me, in quel regno lussurioso, tutte le donne presenti in quel momento all’interno del museo, tutte, vecchie e giovani, belle e brutte. Neppure una ha rifiutato il mio invito al viaggio. Sono tornato stremato.

44. Soutine mi ha massacrato. Servendosi del suo pennello come di un randello, mi ha ricoperto di lividi. Sono uscito dall’Orangerie pesto e sanguinante, ma eccitato, a tal punto che avrei potuto ammazzare un mio dis-simile.

45. Sul sagrato della chiesa di San Giovanni una giovane Molly Bloom mostra tutto il suo talento. E mentre la osservo, soprattutto (nel suo lungo abito viola è un enorme fiore sinuoso e seducente), e la ascolto, mi domando se esista un uomo, almeno un uomo, che meriti di vivere. Quesito sciocco, perché conferisce alla vita un valore che non può in alcun modo avere. Molly intanto ringrazia il pubblico inchinandosi ed io naufrago tra i suoi enormi seni, soffici ed accoglienti come guanciali.

46. A qualunque latitudine, in qualunque epoca e dunque in qualunque condizione sociale, economica, culturale, l’uomo resta nel profondo il Caino invidioso che ha massacrato a bastonate il proprio fratello.

47. Mezzogiorno – ma praticamente mezzanotte, tale è l’intensità accecante del crudele sole ferragostano -. All’ombra di un muro scalcinato, crepato, imbrattato da incomprensibili e sbiadite pitture rupestri di vernice, un diavolo misero, il capo canuto e il volto crivellato di rughe gravati del peso della condanna all’eternità, trangugia truculento il suo pranzo frugale: una manciata di lumache terrestri affogate in un pugno di sugo finto, sorseggiando di tanto in tanto, dal fiasco che tiene accanto, un vino nero caldo come brodo.

48. Ricordo Angie, una mia antica amante peruviana, e la sua passione barbara: avvinghiati l’uno all’altra, mi affondava nelle carni le sue unghie affilate e tirava, graffiandomi in profondità, fino a farmi sanguinare. In questa sua passione feroce e cruenta, si rivelava la sua indole atavica alla violenza del popolo Maya e, soprattutto, l’altrettanto atavica sete di vendetta verso noi sterminatori europei.

49. Nella vita di un uomo le persone sono come oggetti che si perdono. E quando per caso le ritroviamo non sono più che meri strumenti di nostalgia, dei quali liberarsi in fretta per non lasciarsi divorare dal dolore del ricordo.

50. Una sirena mi trafigge le orecchie. Mi affaccio alla finestra della mia tana: un’enorme nube di fumo sporca il cielo terso. Laggiù le fiamme seminano distruzione, alimentate e trasportate dal vento. Hecce estate. Mai che il fuoco incenerisca le città. Sempre e solo alla campagna tocca soccombere, tocca crepitare, colpevole d’innocenza.

51. La mia penna crepita sulla carta come le fiamme crepitano sulla macchia mediterranea. Sogno una catastrofe immensa, globale, e mi ritrovo invece sempre ad alimentare un misero, tragicomico e ridicolo autodafé.

52. Ieri mattina ero impegnato in ciò che so fare meglio, attendere, quando l’occhio all’improvviso mi cade sulle mie gambe. Le ho osservate con attenzione, così corte, così ricoperte di tanti, troppi peli neri, disgustosi. Ho provato un profondo ribrezzo versi i miei arti inferiori, come mai mi era capitato prima, a tal punto che ieri sera, nonostante il caldo, ho indossato un paio di jeans per sottrarmi a questo orribile spettacolo.

53. Odia il prossimo tuo come te stesso.

54. C’è un solo essere vivente con il quale vado davvero d’accordo, verso il quale provo persino affetto: Bakunin, il mio gatto. È saltato fuori dal nulla un anno fa, si è presentato a casa una notte d’estate e non se n’è più andato. È un cacciatore formidabile: cattura topi, lucertole, serpenti e persino uccelli. Neppure i volatili riescono a salvarsi dalla sua furia omicida, dalla sua fame insaziabile. Non appena si posano a terra gli salta addosso e li divora interi, senza scartare niente, neppure il becco o le zampe. Bakunin ha la straordinaria capacità di annullare la distanza tra cielo e terra, senza aver bisogno di belliche diavolerie umane, ma contando solo sulla sua forza e la sua agilità. Ma ciò che mi ha reso da subito simpatico questo spietato e implacabile felino, è il suo mutismo. Bakunin è afono, non parla, o meglio, non miagola. Apre la bocca ma non emette nessun suono. Ha imparato a comunicare con il linguaggio del corpo. Sarei curioso di sapere come si rapporta con i suoi simili, come da questi venga considerato a causa di questa sua mancanza. Mi piace pensare che per gli altri gatti della zona sia una sorta di flagello. Del resto è aggressivo anche con me, pur adorandomi. Me ne ha lasciati molti di segni addosso, di graffi, di morsi, come Angie. Ha l’anarchia nel sangue, per questo l’ho chiamato Bakunin. Ed è libero dalla dittatura dell’istinto sessuale, perché il precedente padrone lo ha fatto castrare. Anche questa innaturale ingiustizia deve averlo spinto alla fuga.

55. Stringo tra i polpastrelli del pollice e dell’indice quel che resta della muta di una cavalletta: un involucro vuoto, bianco, perfettamente intatto, bucato appena sul dorso. Le forme dell’insetto sono delineate alla perfezione, tanto da sembrare un calco. Quanti uomini non sono altro che involucri vuoti, come questa muta? Molti, moltissimi, quasi tutti. Si sono lasciati svuotare, senza protestare. Non è avvenuta alcuna metamorfosi, ma solo un’aspirazione. Hanno svenduto quel poco di buono che avevano, e per che cosa? Per l’esaltazione di quello che resta: il contenitore. Provate a infilare una mano all’interno di questo contenitore, frugate pure per ore ed ore, non troverete nulla. O meglio, troverete il nulla. Accetterei una tale involuzione se riportasse l’uomo ad uno stato primitivo – primitivo non è sinonimo di barbaro -, ma ciò ovviamente non avviene. La maggior parte dell’umanità è oggi un fenomeno grottesco, tragicomico: un’orda d’involucri sprovvisti di contenuto che si lascia trascinare qua e là nel disperato tentativo – inconscio, certo – di sfuggire a quell’ultimo evento dignitoso che è rimasto: la morte.

56. Non abbiamo importanza, per quanto dal primo dei nostri giorni tentiamo disperatamente, molto spesso comicamente, di darcela, di autoconferircela. La Storia è questo: l’inesausto tentativo dell’uomo di darsi importanza. Creiamo civiltà, società, religioni, mastodontiche costruzioni dando sfoggio della nostra presunta grandezza, quando in realtà ogni umana creazione, e in primis la pro-creazione, è l’evidente e tragicomica manifestazione della nostra insufficienza, e dell’incapacità di saperci conciliare con questa nostra atavica e irriducibile insufficienza. Dovremmo considerarci per quello che realmente siamo: esseri viventi vani e deboli come tutti gli altri, sui quali dal giorno della nascita a quello della morte pende inesorabile la lama del Caso.

57. Vado ripetendo come un pappagallo pensieri noti da secoli. Il mio chiacchiericcio si riduce ad un versaccio disarmonico di ciò che è stato pensato e scritto già molte, moltissime volte nel corso della storia dell’uomo, e in modo certamente migliore. Ma non riesco ancora a rinunciare a questo mio maledetto vizio, a incamminarmi per la suprema via del silenzio. Almeno mi circonda il profumo della resina del pino che svetta alto sopra di me: vivo, nonostante la prigione d’asfalto e di cemento nella quale è intrappolato. Un profumo femminile, che invoglia ad un amore terragno, animalesco, depurato d’elucubrazioni cerebrali, trionfante su un prato, benedetto dalle stelle.

58. Per quanto possa fare e disfare, creare e procreare, un uomo – ogni uomo – nasce per morire. Tale è l’intima contraddizione e l’estremo sarcasmo di tutta la commedia, direbbe Carlo.

59. – Ma io sono…
– Chi, quando, dove?
– Io, ora, qui.
– Tu, ora, qui?
– Sì.
– Piuttosto nì.

60. Schegge di vetro appuntite conficcate, cementificate sulla sommità di vecchi muri scrostati. Rustiche protezioni che ancora resistono, immuni all’azione devastante del tempo. Le osservo col naso all’insù e mi domando cosa ci fosse di così prezioso da proteggere in questo giardino abbandonato. In ogni caso ora proteggono la vegetazione spontanea che prolifera libera, ingovernata, anarchica. L’umana volontà oltre queste vecchie mura non è più di casa e l’aria tra queste erbacce alte, tra questi alberi trascurati, dalle chiome incolte e dai tronchi rivestiti d’edera e di muschio, deve mantenersi pura, incontaminata. Non mi stupirei se, sporgendomi al di là, vedessi uno spettro, magari lo spettro di una giovane madre che dondola suo figlio appena nato, la gioia della maternità turbata dalla consapevolezza della perdita irreversibile della spensieratezza. A stupirsi sarebbe probabilmente lei, cogliendo lo sguardo di un uomo già finito, ma impudente ancora a tal punto da profanare la sua intimità.

61. L’ostinata e volontaria sopravvivenza è un’impudenza. L’attaccamento alla vita da parte dell’uomo comune è, per quanto mi riguarda, la suprema volgarità.

62. La formica ha la straordinaria capacità di trasportare pesi dieci volte il proprio, il ragno di tessere la tela, il ghepardo di raggiungere i cento chilometri orari di velocità, l’uccello di volare. E l’uomo? L’uomo ha la straordinaria capacità di autodistruggersi.

63. Solamente a stomaco vuoto si può scrivere un capolavoro letterario. E non parlo solo di fame fisica, diciamo così, ma anche di fame cerebrale. Quella fame che ti fa divorare un romanzo di Dostoevskij o un trattato di Nietzsche, che ti fa stritolare la penna e ti fa scorrere l’inchiostro come sangue, con l’eccitazione febbrile di un omicida. Quella fame che ti fa odiare te stesso e che ti conduce sull’orlo del precipizio, laddove lanci il tuo ultimo grido prima di lanciarti nel vuoto e sparire per sempre.

64. Ogni mia parola è un grido soffocato, un grido strozzato, ricacciato dentro dall’indifferenza di questo mondo superficiale, apparente, intollerante verso ogni manifestazione di pensiero che lo costringa a riflettere, anche solo per un momento. Per tutti voi sono niente, ma per quanto possiate ignorarmi, rifiutarmi non riuscirete mai a privarmi della consapevolezza che quello che per voi non ha valore è ciò che davvero ha valore.

65. Per quanto inchiostro possa versare, possa vomitare sulla carta imbrattandola, insozzandola, non mi è possibile dare appieno forma comunicabile a tutto ciò che mi porto dentro. La mediazione della scrittura, e ancor peggio quella della voce, finisce inevitabilmente per mutilare, smorzare la mia tempesta interiore. Ne viene fuori qualcosa di urticante, forse, non di devastante, come vorrei.

66. Ieri pioveva fuliggine. Oggi invece le nuvole nere e gravide scaraventano a terra con violenza una grande quantità d’acqua. Si respira finalmente, con il fragore del tuono che ha soppiantato il monotono canto funebre delle cicale, annegate nella loro stessa indolenza. Bakunin, spaventato, si stringe alle mie gambe, mentr’io vorrei correre per la campagna e lasciarmi investire dalla tempesta, lasciarmi battere dal vento e dalla pioggia, lasciarmi radiografare dai lampi e rintronare dai tuoni, preda di una barbara allegrezza. E alla fine, sfinito, senza più fiato, rifugiarmi sotto un ulivo, pregando il Caso che un fulmine precipiti proprio qui, sulla mia testa fumante come la legna verde al sole subito dopo un temporale. Un idillio al rovescio.

67. L’autunno si avvicina, adagio, passettino per passettino, inesorabilmente. Le giornate si accorciano, il tempo si fa instabile, imprevedibile. E l’Inattuale sogghigna di soddisfazione, tra le bestemmie dei villeggianti seriali, volgarmente abbrustoliti dal sole, in fuga disordinata dalla spiaggia a causa di un temporale improvviso.

68. Dopo il matrimonio del cugino – uno dei miei più vecchi e cari amici -, oramai undici mesi fa, ho visto, o meglio, intravisto Francesca solamente una volta, lo scorso inverno. Quella volta non ebbi neppure il coraggio di salutarla. L’ho rivista questa notte, in sogno. Era sera, e avevo parcheggiato l’auto alle spalle della posta centrale. Non ho neppure il tempo di scendere, che Francesca s’infila nella macchina, cogliendomi del tutto alla sprovvista. Non avevamo un appuntamento. Io probabilmente avevo intenzione di fare una delle mie consuete passeggiate solitarie, lei mi ha visto e ha deciso di passare del tempo con me. Indossava una t-shirt rosa e un paio di shorts blu. Metto in moto l’auto e faccio per accompagnarla a casa. Sennonché, giunto alla rotonda, o meglio, in prossimità della rotonda del Santuario, mi fermo, indeciso su quale strada prendere: la strada di sinistra portava a casa di Francesca, quella di destra no. Francesca, con la sua caratteristica freschezza, talvolta vagamente offensiva, mi esorta a prendere una decisione. Giro a destra. Parcheggiamo l’auto dietro il Santuario e ce ne andiamo in spiaggia. Lei mi abbraccia e piccola com’è, la tengo senza troppa fatica. Mi bacia, e i suoi baci mi stordiscono, mi instupidiscono. Passiamo la serata in un locale su quella stessa spiaggia, un locale che non esiste, ma gestito da volti noti. Paga lei, perché io sono del tutto in balia dell’euforia per quella gioia insperata e imprevista. Mi muovo a stento, come ubriaco, balbetto, sorrido scioccamente. Ce ne andiamo. Di nuovo in macchina, questa volta la accompagno davvero a casa. Mi brucia dentro una domanda, che però non oso farle: – E ora?
Mi sveglio, guardo l’ora: è l’una e mezza. Fuori piove, per fortuna. Ho impiegato una vita a riprendere sonno, tormentato dall’apparizione di Francesca e dei suoi baci. Almeno c’era la pioggia a consolarmi.

69. L’assassino è semplicemente colui che mette in pratica ciò che la maggior parte dell’umanità si limita a pensare. Colui che non demanda la propria atavica sete di sangue e violenza al calcolo delle probabilità.

70. Mi sono capitati sotto gli occhi i quaderni della tesi di laurea magistrale. Non ho potuto fare altro che notare la differenza tra la mia grafia di allora – parliamo esattamente di un anno fa – e la mia grafia di adesso. Quella di allora rifletteva uno stato d’animo determinato, impegnato nella scrittura di un elaborato che riteneva importante, forse persino decisivo, e come tale si presenta densa, spessa, sinuosa, incisa sulla carta come un’iscrizione sacra, come una legge divina scolpita sulla pietra. La mia attuale grafia è invece sottile, anoressica, nervosa e spigolosa, si vede che odia se stessa e che l’odio è l’ultimo alimento che tiene in vita la mano e il cervello di chi la tratteggia. Quando poi erompe in uno di quei momenti di crisi acuta – quando la sopravvivenza si presenta brutalmente per quella che è: una condanna -, perde del tutto la dote della leggibilità, riducendosi ad una linea spezzata molto simile a quella tracciata da un elettrocardiogramma. In questi casi, grazie al cielo – si fa per dire -, faccio fatica anch’io a rileggermi.

71. Io fondo qui, all’ombra di quell’enorme supposta crivellata d’infissi che è il grattacielo di Nettuno, oggi, 15 agosto 2018, alle ore ventitré e quarantanove minuti e sette secondi, una nuova, l’ultima avanguardia: il Passatismo. E da fondatore, leader e unico membro del movimento, impongo una sola, sacrosanta regola: la contemporaneità non esiste.

72. È tutto così NERO, più nero del nero. Che sia giorno e risplenda alto il sole estivo, invincibili sono le tenebre nelle quali sono sprofondato. Risalire in superficie non mi è possibile. Una volta precipitati quaggiù non si può fare altro che attendere la morte, sperando che il Caso non allunghi troppo questa attesa, non la dilati a tal punto da esasperarla. Nero è il mio mondo, nero è il mio cervello e nere sono le mie parole. Così nere che talvolta provo persino vergogna rileggendole. La mia testa ridotta ad un cumulo di rovine senza valore e la mia mano scarnificata da lemure privato persino del conforto della dissoluzione nel Nulla, creano bestialità. Bestialità che vorrebbero distruggere ma che invece meriterebbero di essere distrutte. Di condannarle al rogo però – come tutto il resto di ciò che ho scritto in questi miei trent’anni di “vita” – non sono ancora capace. Dalle mie bestialità non riesco a staccarmi, in esse sono avviluppato come in un vizio. Un vizio tutt’altro che innocuo, bensì dagli effetti collaterali devastanti, come i vizi più atroci: il fumo, l’alcol, le droghe pesanti. Tutto è NERO in e intorno a me, più nero del nero. Non un solo bagliore di luce mi è concesso vedere, mi è concesso raccontare. Credetemi, di ciò che scrivo non vado affatto fiero. No, non ne vado fiero, ma non posso proprio farne a meno. Potessi almeno assuefarmi a queste tenebre, rassegnarmi ad esse, scoprire la virtù, la suprema virtù del silenzio e diventare innocuo a me stesso e a quelli che mi circondano. Perché, d’accordo la paura, in queste condizioni e con questo stato d’animo resto pur sempre un ordigno, pronto ad esplodere da un momento all’altro e a fare del male solamente a quei pochi che sono rimasti a provare affetto per me.

73. V’illudete di vivere e di fuggire la morte vivendo. Ma dal momento in cui vi svellono dal grembo materno e credete d’iniziare a sfuggire la morte, in realtà la rincorrete. E lei è lì, alla fine della vostra sciocca corsa, che vi attende a braccia aperte, pietosa, misericordiosa, consolante, giusta, indifferente alle vostre maledizioni insensate, alle vostre bestemmie, ai vostri piagnistei, alle vostre ridicole sceneggiate da quattro soldi che mi fanno venire il voltastomaco.

74. Ho deciso di iniziare un quotidiano programma di allenamento all’indifferenza, basato tutto sulla resistenza. Intendo partire dalle piccole cose, sforzandomi di eliminare qualche cattiva abitudine, qualche sgradevole debolezza: penso alla facilità con cui cedo all’impulso nervoso di strapparmi le pellicine, oppure di cedere alle lusinghe della gola. Superata questa prima fase, potrei pensare di passare ad una successiva, ben più impegnativa, tentando di rendermi immune alle dipendenze del sesso e del fumo. Dovessi riuscire in questa impresa, allora sì che potrei aspirare alla suprema indifferenza nei confronti della vita, della morte e della scrittura, alle utopie dell’ultra-nichilismo mefistofelico e del silenzio. Lo so, servirà un impegno severo, cenobitico oserei dire. E sono certo che un impiego particolarmente alienante – penso soprattutto alla tirannia annichilente della catena di montaggio – mi darebbe un’enorme mano. Prosciugando le proprie energie fisiche l’uomo prosciuga il proprio cervello.

75. Sono uno stupratore seriale. Ogni giorno violento un pezzo di carta, incapace di controllare il mio impulso barbaro e feroce alla scrittura. Spargo inchiostro come fosse sperma, senza ritegno, crogiolandomi mefistofelicamente della mia sterilità. Se la letteratura italiana fosse ancora viva mi condannerebbe, senza neppure un processo, alla pena capitale. Ma la mia tracotanza approfitta di questo vuoto di giustizia e semina terrore e distruzione esaltata dalla certezza dell’impunità. Ricoperte di muschio e di ragnatele le forche abbandonate arrugginiscono. C’è chi le adatta ad ombrelloni per ripararsi dal sole estivo e chi le traveste da spaventapasseri, proteggendo semine che non daranno mai frutto.

76. Ho offerto il mio Eros gratuitamente in pasto ad ogni donna esteticamente accettabile dai quindici ai sessantacinque anni, anche solo appena intravista. «No, grazie, sono a dieta», mi ha risposto una; «Ho appena mangiato», un’altra; «Sono vegetariana», un’altra ancora, disgustata. E così il mio Eros va a male, ammuffisce, imputridisce, gratuita e inutile creazione del Caso.

77. Ad ogni catastrofe tutti sentono il bisogno impellente di dire la loro, di prostituire la loro presunta opinione, nella stragrande maggioranza dei casi la pappagallesca ripetizione di qualcosa colto al volo qua e là, casualmente, superficialmente. E intanto ingrossa l’umana stoltezza, e intanto cade a pezzi questo maledetto paese, dove ipocrisia e rettorica regnano sovrane, incontrastate, invincibili.

78. Sono un uomo sgradevole. E oltre allo specchio, questo dato di fatto mi viene sbattuto in faccia ogni sacrosanto giorno da questi miei rifiuti cerebrali che invece di smaltire, di eliminare per sempre converto in scrittura. Il mio è un processo di raccolta differenziata nocivo, e in primis per me stesso, che impugnando la penna mi ritrovo a fare i conti con la mia sgradevole persona, come se la trista figura non bastasse, come se la trista figura non fosse così eloquente e chiara, evidente. Se riuscissi a lasciar precipitare questa spazzatura in quel buco nero del mio cervello dalla quale è stata prodotta, compirei un bel passo in avanti in quel necessario processo di indifferenza a me stesso – in primis a me stesso – e al mondo. E invece no, raccolgo e rielaboro, in uno stillicidio di parole che tormenta me e questo povero quaderno innocente.

79. Un po’ di humour nero: riesumate, riassemblate e rivestite, le spoglie dell’ingegner Riccardo Morandi sono state processate per direttissima e condannate all’ergastolo. Giustizia è fatta, e in tempi brevissimi. Grande soddisfazione in aula tra i parenti delle vittime, le vittime stesse, i politici e i preti accorsi in massa e in pompa magna dai quattro angoli del mondo. L’ANIID, associazione nazionale degli ingegneri italiani defunti, non ci sta e promette battaglia.

80. È iniziato tutto in modo molto strano. Da un mio sogno erotico sono giunto ad una notizia di cronaca vecchia di otto mesi, ma di cui non ero a conoscenza: il suicidio di una giovane pornostar canadese. Si chiamava August Ames e aveva appena ventitré anni. Era bellissima, di una bellezza grossolana, certo, plasmata da un’attività fisica quotidiana e dalla chirurgia estetica, ma comunque bellissima. Questa notizia mi ha colpito, e soprattutto perché nella classifica del più noto sito pornografico al mondo, August si trova ancora nei primissimi posti. Ciò vuol dire che ancora, otto mesi dopo la sua morte volontaria, accompagnata da una processione di polemiche per delle sue presunte posizioni omofobe, milioni di utenti ricorrono ancora ai suoi video per crogiolarsi nel loro piacere sessuale. Mi domando come sia possibile. Le mie riserve non sono certo mosse da parole vuote come rispetto o morale, ma è la portata macabra dell’intera situazione a sgomentarmi. Diamine, masturbarsi guardando il video di una donna morta, e per lo più morta suicida, è come avere un rapporto sessuale necrofilo con un cadavere. È un atto di devianza patologica. Ovviamente la morte di August mi ha portato a riconsiderare tutto, a mettere in discussione tutto. Che la pornografia sia il supremo trionfo della riduzione a merce del corpo umano? E non è forse sottilissimo il confine tra volontà e necessità? Ma oltre a questi scomodi interrogativi, il mio pensiero è rivolto costantemente a lei, August, così bella e così giovane… È stata forte e coraggiosa, una vera e propria eroina. Sacrificando se stessa, ha schiacciato in un colpo solo e condannato al rimorso perpetuo – una delle peggiori condanne – tutti coloro i quali, nel corso della sua breve vita, per un motivo o per l’altro, si sono scagliati contro di lei, arrogandosi il disumano diritto di giudicare. E uccidendosi August ha immortalato se stessa, ha eternato la sua giovinezza. La vecchiaia non potrà nulla su di lei. Non una sola ruga solcherà quel suo volto per sempre giovane. August, mia cara August, tu meriti molta più considerazione e ammirazione di tanti presunti eroi contemporanei. E dentro di me erigo un ideale cenotafio alla tua memoria.

81. La Necessità – quella Necessità che sola, come scrive Camillo, conduce i carri e suona l’ore – mi ha condotto molte, troppe volte a ricorrere alla prostituzione. Ma mai, mai ho usufruito delle grazie di una donna in vendita con noncuranza e leggerezza. Mai. Ogni sacrosanta volta è stato un dramma per entrambi, per lei e per me. Ogni sacrosanta volta è stata la Disperazione – e tutt’altro che rassegnata, ahimè, rispetto a quella del mio amico Camillo – a unirmi a queste povere donne la stragrande maggioranza delle volte costrette dalla Necessità a svendere se stesse. Non voglio giustificarmi con voi, no – me ne frego del vostro giudizio -, ma con loro, solo ed esclusivamente con loro. Ma nei loro occhi smorti, languidi, ormai prosciugati dalle lacrime, ho sempre visto la consapevolezza della mia innocenza, e l’assoluzione della mia debolezza. Di queste molte, troppe donne ne ricordo in particolar modo una, una ragazza romana poco più che ventenne, bruna, dai capelli ricci, incontrata anni fa in una stanza d’albergo vicino al teatro dell’Opera. Aveva iniziato da poco questo lavoro – sì, lavoro, perché in ogni lavoro, anche il più dignitoso, l’uomo prostituisce se stesso -, e si vedeva. Mi parlò a lungo e diffusamente di lei, mi raccontò parte della sua storia, rivelandomi persino il suo vero nome. Prima di andarmene le lasciai il mio pacchetto di sigarette, perché non ne aveva. Tornato di nuovo in strada, il mondo mi rivelò, con una chiarezza questa volta abbacinante, quanto facesse schifo. Non è possibile, o meglio, non dovrebbe essere possibile che una donna giovane, bella e in salute, sia costretta a svendere se stessa per andare avanti, per sopravvivere. Dopo quell’esperienza così triste e mortificante, mi ripromisi di non approfittare più delle disgrazie di queste povere donne. Inutile dire che il mio proposito, in quegli attimi formulato con l’ardore e l’impegno del giuramento, lo infransi pochi giorni dopo. Ma almeno non con lei, non più con lei.

82. Questo maledetto vizio di antropomorfizzare tutto, animali e persino cose, de-antropomorfizzando se stessi.

83. Leggendo Il fu Mattia Pascal colpisce, tra le altre cose, come Pirandello riesca a far sembrare facile, quasi banale, il fare letteratura. Leggendo il romanzo scrivere sembra una delle cose più semplici al mondo. È uno dei tanti modi escogitati da Pirandello per prendersi gioco di noi. Un lettore del Pascal decide di cimentarsi anche lui con la scrittura, visto che è così facile, saccheggia un’idea chissà da dove o da chi, afferra carta e penna, ma ecco che il mestiere più semplice si rivela di colpo il più complesso! E l’aspirante scrittore si trova a ricoprire di ghirigori senza senso il povero foglio di carta. Fin quando, al culmine dell’irritazione, dell’esasperazione, accartoccia questi suoi scarabocchi, spezza la penna e getta tutto nel cestino, giurando a se stesso di non versare più una sola parola.

84. Che differenza c’è tra il passare la propria vita in un paesino, vedendo ogni sacrosanto giorno gli stessi posti e le stesse facce, e il viaggiare, esplorando innumerevoli e diversi luoghi e incontrando sempre nuove persone? Nessuna. Perché ovunque l’uomo è lo stesso, uguale a te stesso. Il viaggiatore seriale, specie che odio profondamente, s’illude di vivere centinaia di esperienze originali, tutte diverse l’una dall’altra – in realtà ha ripetuto centinaia di volte la stessa.

85. Elena ieri sera: in equilibrio su vertiginosi tacchi di colore rosso. Slanciata come una vetta alpina ma dalla cima impetuosamente vulcanica, ancor più irraggiungibile. Chimera rossa sinuosa, ondeggiante, ad ogni passo un rintocco vibrante: l’ora del desiderio, ma di quel desiderio inesausto che si appaga di se stesso e della semplice vista di colei che lo ha ispirato. Sprofondo nel suo ricordo, ubriacandomi di Lei nel folle tentativo di dimenticare ciò che ieri sera è stato dopo: l’eccitazione bruta, la tensione maligna, trasportate a gran velocità, la soddisfazione insoddisfatta e infine la fuga, tormentato dai rimorsi fino alla morte del sonno. Al risveglio l’immagine di Elena e una speranza vecchia, ormai consunta e assai poco credibile, ma sempre puntualissima in questi frangenti: basta, per sempre basta. Ovvero un’automutilazione alla padre Sergij che forse dalla sfera ideale dovrebbe davvero calare in quella fisica per essere finalmente efficace. Mah. Staremo a vedere: una farsa recitata da burattini.

86. Fuori la luce abbacinante inonda la campagna, mentr’io me ne sto nel buio innaturale della mia camera, p… – diamine, m’è sfuggita la parola… la stringevo nel pugno eppure s’è volatilizzata, all’improvviso, ma eccola che ricompare – preservando una frescura che dileguerebbe all’istante se aprissi la persiana sulla quale batte a picco il sole. Il suicidio è qualcosa di molto simile a questo, mi dico senza troppa convinzione: tenere chiuse le imposte vietando alla luce del giorno d’inondare la casa, oppure, all’inverso, accendere tutte le luci mentre fuori dominano le tenebre notturne.

87. Osservo il cielo, le innumerevoli stelle che lo crivellano tutto come le bolle il corpo d’un malato di varicella, e non sento più alcuna distanza. Tutto è quello che è, niente di più e niente di meno. Degli dei ho fatto strage e ora non resto che io, demiurgo dimezzato degli altri e di me stesso.

88. Velieri immobili eternati su un segnalibro spesso di sughero – souvenir portoghese dono d’una donna perduta -. È questa l’immagine che meglio d’ogni altra racchiude il senso dei miei giorni, trascorsi chino su una scrivania a viaggiare, ma restando fermo.

89. – Dimmi, i tuoi genitori ti hanno mai fatto mancare niente?
– Sfortunatamente, no.
– Come sfortunatamente?
– Perché se tutto ciò che ho lo avessi ottenuto con il mio sudore, con le mie sole forze, oggi sarei un uomo migliore.
– Oppure peggiore.
– Ma comunque pur sempre migliore. Vedi, alla soglia dei trent’anni, conduco press’a poco la vita di un rampollo di una famiglia aristocratica (intendo: vivere gratuitamente ovvero essere campati, che equivale, in un certo senso, ad essere vissuti), ma senza esserlo. E ti assicuro che questa condizione inizia a pesarmi sul serio. Mi sento in colpa per ogni singolo euro donatomi da mia madre, mi sento in colpa per ogni singolo boccone trangugiato senza avervi minimamente contribuito. Inizio a sentire il bisogno di alienarmi. Sì, è l’alienazione che cerco dal lavoro, l’alienazione da me stesso, dalla mia famiglia e dal mondo intero. Lavorare duramente otto ore, poi bere, mangiare, leggere ma senza spingersi oltre il puro piacere della lettura – senza elucubrare inutili teorie, insomma -, dormire, dormire il più possibile, e poi ricominciare. Tutto qui. Fino al momento benedetto della morte.
– E se incontrassi una donna disposta ad amarti e lei volesse dei figli?
– Non scherziamo, anche l’alienazione ha, deve avere dei limiti. E poi io sono nato per essere solo. Mia madre me lo diceva sin da bambino: sono solitario come una bestia, non merito l’umana compagnia. Fortunatamente.

90. Io non sopporto, proprio non sopporto quando il borghese 3.0, dall’alto della sua presunta onestà, della sua presunta moralità, giudica e biasima i bassifondi, i sottosuoli della città. Ah, com’è facile giudicare e biasimare, com’è confortante! Com’è piacevole riconoscersi ed autoproclamarsi migliori rispetto alla feccia ignorante, criminale, razzista. Molto più complesso, scomodo e sgradevole riconoscere in questa umanità presuntamente minorata dei nostri simili, in tutto e per tutto eguali a noi. Non ci si deve riconoscere migliori, ci si deve riconoscere diversi, che è ben altra cosa.

91. Stride, stride maledettamente con quest’atmosfera funebre il canto armonico, melodioso del gruccione, e la sua figura slanciata dai colori sgargianti. Stride come l’illusione della felicità nei giorni neri d’angoscia e d’inquietudine, nei giorni di lutto e di sconfitta. Coerente è invece il lamento funebre delle cicale invisibili, vergognose di se stesse, così simili a me, ostinatamente celato al mondo in una modesta fessura dalla quale grido il mio sgraziato, innocuo e mortuario lamento.

92. La Letteratura è la mia donna. E si è finta morta per fuggire con me. Se volessi raccogliere tutti i miei contributi pseudocritici in un volume, lo intitolerei proprio Alla mia donna.

93. L’arte finisce con la Fontana di Duchamp. La letteratura con Finnegans Wake di Joyce.

94. Politici, poliziotti, preti: le tre funeste p che dovremmo eliminare (come Dante nel Purgatorio) se volessimo davvero migliorare questo povero mondo.

95. Meglio soli che male accompagnati. Giusto, anzi, giustissimo, come tutta la scabra saggezza popolare, del resto. Ma quando la mala compagnia è l’umanità intera compresi se stessi? O ci si spara un colpo di pistola in testa, o si sviluppa un’indifferenza suprema, cosmica.

96. Sì, anche la mancata reazione ad un’offesa arrecataci da un nostro simile è un atto di dissidenza. E non si tratta di un gesto buono, misericordioso, cristiano, da saggezza evangelica, niente affatto, ma di un fortissimo gesto di disprezzo nei confronti dell’umanità intera.

97. Questa volta, dopo l’ennesima, rovinosa, ridicola caduta nel fango, nel fango olezzante della depravazione e della debolezza, provo un disgusto forse meno feroce del consueto, meno offensivo e sgarbato, ma più solido e duraturo. Sono passate quasi settantadue ore e non mi sono messo ancora le mani addosso. Non credo sia mai successo. Tutto questo è ipocrita, lo so benissimo. Perché se avessi uno stipendio e potessi permettermi più di una povera disgraziata impalata sul ciglio della strada, scovando quel caso in cui la volontà vince davvero la necessità – saprei già a chi rivolgermi, pensate un po’ -, altro che rimorso e disgusto… proverei una gioia ebbra, febbrile, quasi barbara. Ma uno stipendio ancora non ce l’ho, e allora, nell’attesa, resistenza a me stesso o quantomeno alla mia parte più depravata e debole. Tanto per non gettare altra, ulteriore benzina sul fuoco, che non serve: l’autodafé brucia da sé che è una meraviglia.

98. Come si può biasimare l’uomo che, alla ricerca del senso della propria inutile – finora – esistenza, lo scova nell’assassinio di un suo simile che ritiene nocivo? Ancor più se la sua nozione di nocività corrisponde a quella generalmente diffusa, definiamola pure cristiana? Compiuto l’atto, le prospettive si rovesciano, certo, ma l’assassino, nella suprema felicità per aver finalmente trovato lo scopo della sua vita, non poteva in alcun modo prevederlo.

99. Lottate, lottate pure, o meglio, illudetevi di lottare: fate, disfate, create, programmate, proclamate, gridate. Io mi chiamo fuori, io non vi seguo. Perché so quanto sia del tutto inutile, gratuito, vano ogni singolo movimento, ogni singola azione, per quanto mossi da buone e oneste ragioni. Io eleggo immobilismo, inazione, indifferenza, nolontà quali pilastri del mio dissenso. Facile così, obietterà qualcuno. Me ne frego, io conosco le mie ragioni e solo questo conta.

100. La penna stride sulla carta, gratta, graffia, la scalfisce, la scava come una fresa la terra. Fatico a condurla, a domarla, a vincere l’attrito che la frena. Muta, diviene un cavallo imbizzarrito che scalcia e s’impenna, nitrisce furioso, fugge via, lontano da me, svanendo oltre la linea dell’orizzonte piatto.

101. La presunta libertà d’informazione e di conoscenza di cui godiamo, di cui dovremmo godere oggi grazie allo straordinario sviluppo tecnologico-digitale, è effimera, illusoria e, fondamentalmente, falsa, come la libertà di Mattia Pascal dopo la sua morte-non-morte.

102. Le sigarette fumate all’ingresso della facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza, osservando ogni singola studentessa di passaggio – macchie variopinte e multiformi sul bianco uniforme del marmo lavato dalla pioggia e dal sole, io una macchiolina grigiastra, cinerea -. Ho avuto decine e decine di donne, d’ogni età, d’ogni nazionalità, d’ogni forma eppure… tutte queste donne sommate non danno il risultato di una di quelle studentesse. L’amore sono capace solamente di comprarlo al mercato della disperazione. Del disinteresse e della gratuità, della sincerità del sentimento non sono all’altezza. Anche quando questo mi ha offerto in dono una sua creatura l’ho rifiutato, bramando sempre, testardamente, l’impossibile. E intanto passo i giorni nella mia solitudine che inizio a credere atavica. Io sono la mia solitudine: s’ella sparisse non sarei più io, ma qualcun altro che non conosco e che non sono nato, né mai diventerò.

103. Svariate volte mi è capitato di sognare mio figlio, quel mio figlio che non nascerà mai e che pure esiste. In un sogno – l’unico che ricordi davvero – l’ho visto allontanarsi per la campagna su una carrozza. Era voltato verso di me – non aveva più di tre, quattro anni – e mi salutava con la sua manina, sorridente. Indossava un berretto da baseball. Anch’io lo salutavo mentre s’allontanava. Provavo un sentimento misto di gioia e di dolore, d’orgoglio e di disperazione vedendolo andare via, come se lo stessi perdendo per sempre. So perfettamente chi sono le sue madri: la prima e l’ultima, le due donne che, in quanto punti estremi della mia zigzagante e frastagliata linea amorosa, ho amato di più (e non è bastato, perché io non basto mai, neppure a me stesso).

104. Io ammetto l’ignoranza, la accetto, la esalto, la invidio persino, ma solo quando è barbara, primitiva, terragna, contadina, pura, non artefatta, inautentica, ottusa, stupida, sporca che domina oggi ed è così drammaticamente nociva. È questa seconda, contemporanea ignoranza – una vera e propria epidemia, il cui batterio non s’arresta certo di fronte ad un titolo di studio, e men che meno da questo debellato, sarebbe troppo semplice – il morbo del nostro tempo, il male che, pur accrescendosi numericamente l’umanità, in realtà la estingue. Vedo la prima ignoranza in mia nonna, che ha novant’anni ed è una vera creazione della terra, plasmata dagli elementi; vedo la seconda nella generazione dei miei genitori e, soprattutto, nei più giovani.

105. Gli unici che meritano aiuto, compassione e lacrime sono i bambini. Ma anche loro, per la maggior parte, sono già rovinati, perduti. E non vorrei esagerare, ma viviamo in un tempo in cui si nasce rovinati, perduti. La mia generazione almeno è giunta incontaminata fino ai quindici anni.

106. L’astinenza sessuale… Il primo effetto che produce in me l’astinenza sessuale è una clamorosa rivalutazione estetica del genere femminile: trovo bellezza e fascino praticamente in ogni donna. Ma l’astinenza mi piazza nel centro della faccia anche uno sguardo da fiera, da fiera affamata, dimagrata e affamata, come la lupa dantesca. E allora i miei occhi spalancati dalla fame le spogliano le donne. Le desidero tutte, insaziabilmente. E nel mio cervello si restaura la monumentale certezza di essere all’altezza di un’eventuale rapporto sessuale, minata dal dispendio psico-fisico dell’autoerotismo e dell’eros dozzinale, da trivio. Che sia quella fase acuta che, se superata, conduce all’indifferenza del santo?

107. Qualcuno si domanderà perché, perché l’astinenza forzata, la castità imposta. Perché so che l’inizio della caduta, il ricorso al corpo di qualche povera disgraziata dileggiata dalla società e dal Caso, malata di disperazione, sta proprio nel più innocente atto d’autoerotismo. Parte tutto da lì, per quanto mi riguarda. È quello l’inizio del precipizio nel fango. Agire alla radice dunque è il mio obiettivo, ché intervenire dopo, durante la caduta, è pressoché impossibile. L’uomo che non vuole ricorrere alla prostituzione non si mette mai in macchina decidendo poi, sulla strada, di tornare indietro – non esce di casa.

108. Ricordate il mio programma d’allenamento quotidiano all’indifferenza? Ho bruciato le tappe, e sono giunto direttamente al sesso. Ovviamente la conseguenza di ciò, ovvero della mancata progressione da un primo livello base ad uno più complesso, è che ho le dita devastate, con macchie di sangue rappreso che contornano le unghie a causa dei brandelli di pelle strappati con violenza e con rabbia.

109. Lo so benissimo, lo so benissimo, credetemi, che la diversità della quale mi fregio con tanto ardore, con tanta convinzione, con tanto orgoglio, non è che un’illusione. Che tra me e tutti voi, sostanzialmente, a conti fatti, non c’è differenza. Ma là dove domina l’insensatezza, l’illusione può avere la validità inconfutabile di una regola matematica. E di questo rido, credetemi, rido come un pazzo… spezzato in due dalle risate fragorose e irrefrenabili, che scuotono i muri come un terremoto e li abbattono, che scuotono la Storia e la polverizzano. E lasciatemi divertire!

110. Nel locale in cui mi reco di consueto a bere una birra, lavora una certa Valeria. La sua è una figura espressionista. Nel colore scuro della pelle, nei tratti del viso duri, marcati, nell’essenzialità del suo corpo, magro ma teso. Potrei osservarla lavorare per ore ed ore: sembra una xilografia di Schmidt-Rottluff in movimento. So che è bisessuale, ma con una decisa predisposizione per il genere femminile. Sono certo che con lei si viva un’esperienza sessuale primitiva, intensamente primitiva, fatta di gesti e piaceri decisi, autentici, necessari, senza riguardi, senza finzioni, senza impressioni.

111. Per quanto possa illudersi del contrario, l’uomo a letto non sarà mai all’altezza della donna. Perché l’uomo ha una fine, si esaurisce, come una sigaretta, la donna no. Il fuoco della donna è eterno.

112. L’una di notte: me ne vado, in silenzio, come sono venuto, senza clamore, senza calore, trascinandomi dietro la mia squallida storia come un sacco pieno di sporcizia – di quei sacchi neri che i camerieri trascinano fuori in strada dopo la chiusura dei ristoranti -, il capo saturo d’alcol e fumo, tra un colpo di tosse e l’altro per le troppe sigarette. Svanisco lentamente nella notte, ma solo agli occhi degli altri, mai ai miei, almeno fino alla consolazione del sonno, la consolazione della morte temporanea, della mezza-morte. Scaraventandomi senza troppi complimenti sul letto, il lenzuolo-sudario tirato fin sopra la testa cartavetrata perdo a poco a poco i sensi, cullato dal canto di una civetta vicina. Prego lei prima di naufragare nel Nulla, la prego di voltarsi verso di me, di rivolgere a me il suo canto assassino, affinché questa breve notte divenga eterna.

113. Quel che resta della sigaretta Valeria lo sfascia, lo frantuma in pezzi che si perdono nella strada. Le sue dita lunghe e affilate, perfettamente naturali, distruggono il mozzicone con la forza della vendetta, insoddisfatte di se stesse, forse. Mentr’io le immagino affondare nella mia carne bianca, cadaverica, con la veemenza predatoria della fiera affamata e implacabile. Ignara delle mie fantasie, delle mie riflessioni su di lei, Valeria fa quel che deve fare: se sapesse, mi seppellirebbe in una risata.

114. Abbiamo l’irrilevanza della polvere sollevata e dispersa dal vento.

115. So di non essermi mai innamorato della donna in quanto creatura di carne e sangue, ma dell’idea della donna concepita dal mio cervello così drammaticamente incline all’astrazione e all’idealizzazione. Per questo motivo tutti i miei amori sono naufragati nel fallimento, nella sconfitta. L’amore in me ha l’inefficacia della polvere da sparo bagnata.

116. Ne ho amate tante, o meglio, le ho amate tutte le donne dei più grandi romanzi della storia della letteratura universale. Ma l’intensità del mio sentimento per Augusta Malfenti, forse non è eguagliabile da nessun’altra donna (la Sonja di Delitto e castigo le si avvicina molto, sino a sfiorarla). L’amore salva, d’accordo, ma l’essere amati e non l’amare.

117. Io ODIO tutti gli uomini, TUTTI, d’ogni razza, d’ogni colore – bianchi, neri, grigi, gialli, rossi, blu, verdi -, d’ogni nazionalità e d’ogni continente, d’ogni ceto, d’ogni titolo di studio. Ma soprattutto ODIO i loro governanti, che su questi poveri disgraziati indistintamente senz’avvenire – complici, ma pur sempre poveri disgraziati -, fondano il loro successo, la loro fama, la loro ricchezza. Una sola consolazione: che la Morte, guidata dal Caso, li possa cogliere, distruggere, annientare da un momento all’altro.

118. Ieri sera, dopo aver accompagnato mia nonna a casa, mi sono fermato nell’unico bar di Cretarossa aperto di notte per comprare le sigarette. Mentre attendevo in fila il mio turno, soppesando le monete tintinnanti strette nel pugno, lo sguardo mi è caduto sugli unici due uomini al bancone. In piedi, entrambe le braccia poggiate sul marmo bianco lucido, sorseggiavano grappa barricata. Il più alto e grosso aveva una folta capigliatura grigio-fulva e il volto crivellato dal vaiolo, come il Tarmito di Viani. Quello che gli stava accanto era molto più basso e fino, sottile come un chiodo, calvo, con una barbetta rada, parlava a mezza bocca e sembrava avere una metà del corpo addormentata: un sifilitico, come il Regolo di Campana. Parlava solo quest’ultimo, raccontando al maestoso compagno la sua ultima scoperta: una cinesina piccola, ancora acerba, che con i suoi modi docili e remissivi era riuscita a far sentire dio persino un verme come lui – egli stesso si definiva così, un verme, e sembrava provasse un piacere tutto particolare nell’umiliarsi -. Dovevano avere entrambi sui quarantacinque anni e io, all’improvviso, come mi avessero reciso le palpebre con un taglio netto, mentre osservavo e ascoltavo, ho visto nel sifilitico me stesso tra quindici anni. La tristezza e lo sconforto mi hanno afferrato al collo come due poderose mani, iniziando a stringere con tutta la loro forza. Sono fuggito dal bar a gambe levate, senza neppure comprare le sigarette, perdendomi per strada pure qualche spicciolo.

119. So fin troppo bene che tra qualche settimana mi ritroverò a rimpiangere questi giorni squallidi, dozzinali, immobili, tutti uguali. Questi giorni che mi sembreranno paradisiaci, ideali al confronto di quelli che mi attendono, incerti e alienanti. Eppure di questi giorni, nonostante la consapevolezza dell’orrore dell’avvenire, non mi è dato goderne. Triste condanna.

120. Eppure, eppure… in tanta devastazione, in tanta sofferenza, è esistito un tempo in cui sono stato spensierato e lieto: il sacro tempo dell’infanzia. Ne conservo il ricordo come si conservano le ceneri dei propri cari.

121. Attendo la prova d’ingresso del dottorato con l’angoscia dell’imputato che attende la sentenza del proprio processo, consapevole dell’esito scontato: la condanna a morte.

122. Subisco – osservo – passivo, ma il capo gravato dal peso schiacciante dell’Angoscia, l’ininterrotto stillicidio di giorni grigi ovvero senza colore, infami ovvero senza voce, che picchiettano monotoni come gocce del lavandino che perde e spreca così acqua irrecuperabile, per sempre perduta – quell’acqua che si prega risorga nella siccità -. Giorni che lasciano niente in mano o meglio il Niente. In attesa della fine, ma ancor prima delle innumerevoli, inevitabili, incontrastabili, piccole disgrazie che la precedono. Tutta qui la mia sopravvivenza.

123. – Se dici di adorare tanto le mie canzoni perché non le ascolti mai, lasciandomi morire davvero?
– Perché le tue parole mi schiacciano, credimi, mi rendono insostenibile il peso dell’angoscia che trascino ogni giorno con drammatica parsimonia.
– E allora pensa a me, che sentivo riecheggiare nella mente quelle parole di continuo e dovevo pure cantarle di fronte a migliaia di persone entusiaste.
– Ma io non sono te.
– Fortunatamente per te.
– Punti di vista, Faber.

124. Ma perché, PERCHÉ, Dio mio, non posso consumare la mia inutile esistenza rinchiuso tra le quattro pareti della mia camera, circondato da ciò che solo amo, i miei libri? Perché sono costretto invece a uscire – strappato per la seconda volta contro la mia volontà, o meglio, nolontà da un grembo – e integrarmi nell’umano consorzio? Sono una bestia rara catturata e intrappolata in uno zoo o peggio in un circo per l’altrui sollazzo. Ho io, così minuto, così dimagrato la forza di resistere a tanto? di elevarmi al di sopra di tutto questo?

125. Questa mattina ho fatto ciò che non facevo da tempo: scrivere e consegnare un biglietto ad una sconosciuta. Mi trovavo nella sala Umanistica della Biblioteca Nazionale. Non so esattamente per quale motivo, ma una giovane donna mi ha catturato: alta più o meno come me, magra, i capelli dal taglio medio, all’altezza del collo, ricci e scuri, una leggerissima peluria, come l’erba che risorge dopo un paio di temporali estivi sui colli brulli, sulle braccia interamente nude. Indossava infatti una canottiera, lunghi pantaloni chiari e dei sandali, le unghie delle dita dei piedi verniciate di rosso. Ho avuto la sensazione che in mezzo a tanta bigiotteria dozzinale e di scarso valore, lei fosse l’unico, vero gioiello, l’unica, vera pietra preziosa. Studiava china su dei grossi volumi di storia, mi dava le spalle, ma l’ho vista più volte camminare avanti e indietro per la sala, e il mio sguardo non poteva lasciarla, una volta ricopertala non poteva spogliarla. Mentre era seduta, indugiavo in particolar modo sul suo calcagno arrossato: lo avrei divorato. Insomma, la sua visione mi ha ispirato le seguenti parole, impresse – tentando, almeno nelle intenzioni, di alterare la mia calligrafia, conferendole un respiro ampio che non le appartiene, per renderla più comprensibile – sul retro della ricevuta del prestito dell’Unico e la sua proprietà di Stirner:
«Imparare a riconoscere il suono del tuo passo… è questo l’esercizio a cui mi sono dedicato in queste ore; è questo il motivo per cui non sono andato via prima, pur dovendo farlo.
Averti vista: è bastato questo per rendere straordinaria una giornata iniziata come tutte le altre, una giornata che non sospettavo neppure potesse riservarmi una tale sorpresa.
L.
P.S. Non mi accadeva dall’adolescenza – più o meno – di lasciare un biglietto ad una sconosciuta. Ma non ho saputo resistere, tale è l’ammirazione che hai suscitato in me. È imbarazzante, lo so, ma non potevo fare altrimenti. Perdonami. Ti lascio il mio numero di telefono, qualora volessi manifestarmi tutte le tue comprensibilissime rimostranze».
E ora come consegnarle il biglietto? Questa annosa domanda mi ha impegnato per parecchi minuti. Pensavo: lascio il biglietto sul banco e fuggo via; aspetto che lei si alzi, deposito il biglietto al suo posto e mi rimetto al mio, osservando la sua reazione; assumo un messo e lascio che sia lui a consegnarle il biglietto. Alla fine non è accaduto niente di tutto questo. Perché lei all’improvviso si alza, raccoglie le sue cose e se ne va: mi sento perduto. Ma scatto anch’io e mi lancio al suo inseguimento. Mentre la rincorro piego il biglietto, la raggiungo, la affianco, le rivolgo la parola, il cuore in gola come il paracadutista al suo primo lancio.
– Scusami, ti è caduto questo, – le dico porgendole il pezzo di carta che lei afferra ringraziandomi persino!
Riprende a camminare, apre il biglietto, lo legge e… io sparisco nel bagno degli uomini, dove resto chiuso per un quarto d’ora per avere la certezza di non rivederla. Tutto questo vi sembrerà infantile, miseramente infantile, e concordo con voi, ma in quei momenti io mi sono sentito vivo, come non mi accadeva da tanto, troppo tempo.
Non mi contatterà mai, lo so bene. A questo suo scontato silenzio – se dovesse accadere il contrario so per certo che una cospicua parte del mondo sprofonderebbe all’istante -, mi consolo elaborando lusinghiere spiegazioni: per un maledetto lapsus ho scritto sul biglietto il mio vecchio numero di telefono; mi ha preso alla lettera e, non avendo nessuna rimostranza da fare, non ha avuto bisogno di contattarmi; è fidanzata, ma le parole di questo misterioso e poetico e romantico L. l’hanno comunque lusingata, a tal punto che questa notte, facendo l’amore con il ragazzo, sussurrerà impercettibilmente il mio nome.

126. Tutte queste mie riflessioni compongono un vero e proprio manuale, ma al rovescio. Se volete davvero vivere e non semplicemente sopravvivere, fate e pensate l’esatto contrario di ciò che faccio e penso io.

127. D’accordo, d’accordo, potrei pure essere tutto ciò che dite voi, ma alle vostre definizioni prefabbricate fatemi il favore di anteporre sempre l’avverbio di negazione non, magari legato alla parola da un trattino. Perché io non-sono già più.

128. Ho notato questo pregevole, adorabile dettaglio osservando i piedi delle passanti che indossano calzature aperte: il contrasto di colori tra il piede abbronzato e la suola. Ecco i risultati della lettura della Coscienza di Zeno.

129. A proposito della Coscienza e della storia del biglietto alla sconosciuta, queste parole di Zeno mi aggrediscono come una folla inferocita che brama la mia testa: «La carta scritta per le donne ha troppo poca importanza». Deve avermi giudicato un vigliacco, gentile, forse, romantico persino, ma pur sempre un vigliacco. Del resto, è quello che sono.

130. Se il Caso non mi avesse condannato ad essere un uomo postumo, ma se fossi nato nel mio tempo, quando dovevo nascere, mi sarei gettato a capofitto nella guerra, sarei corso in prima fila durante il primo assalto alla trincea nemica. Sarebbe stata una splendida giustificazione alla mia morte prematura, volontaria.

131. Starsene tranquilli nella propria angoscia, lontano da tutto e da tutti, e dover improvvisamente intervenire a separare due bestie – un uomo e una donna – che se ne dicono di tutti i colori, che si sputano addosso e che si graffiano, impedendo che ad uno dei due venga in mente la brillante idea di afferrare un coltellaccio da cucina e scannare l’altro. Afferrarli, spingerli, allontanarli con la forza, gridare loro di smettere, odiandoli, odiandoli molto più di quanto si odino loro in realtà, perché con le loro urla isteriche, con le loro bestemmie e i loro insulti hanno turbato la mia quiete. Con quale stramaledetto diritto?! Se non fosse stato per mia madre e per mia sorelle queste due insulse bestioline le avrei lasciate annientarsi. Il mondo non avrebbe perso niente, non più di due pidocchi con i nervi a fior di pelle, per i quali ogni singolo giorno di vita è una grazia.

132. La coscienza di Zeno è gradevole come il tepore casalingo in inverno, quel tepore che ci avvolge e distende i muscoli quando rincasiamo dopo aver trascorso molte ore fuori. Perché Zeno è un uomo amabilissimo, piacevolissimo, arguto e intelligentemente autoironico, e poi perché sua moglie è Augusta Malfenti. Se il personaggio di Svevo avesse sposato un’altra donna, il romanzo sarebbe stato completamente diverso e la sua lettura avrebbe tormentato anziché rasserenato.

133. Incredibile ma vero! La sconosciuta mi ha contattato! Con qualche giorno di ritardo perché attanagliata dai dubbi, come lei stessa mi ha spiegato. Non solo, abbiamo persino fissato un appuntamento! Domattina ci prenderemo un caffè e poi insieme a studiare in biblioteca! Il dubbio più grande riguardava la mancanza di certezza che quelle parole così «emozionanti» – questa la sua definizione – fossero davvero indirizzate a lei: non ne era sicura! Ma ora devo andare, perché voglio riscrivere quei pensieri scritti su questo quaderno a proposito di quella incredibile esperienza, per fargliene dono. Visto che adora tanto la mia calligrafia (anche questo mi ha detto!)! Ah, ancora una cosa: si chiama Margherita, ha venticinque anni ed è proprio una studentessa di storia, come immaginavo! Ma non posso più perdere tempo, devo andare! Lasciatemi andare!

Eh-eh-eh, ci siete cascati con tutte le scarpe, non è vero? Mica mi ha contattato la sconosciuta, mi sono inventato tutto per burlarmi di voi. E ridendo di voi, per un istante sono riuscito a ridere di me stesso. Grazie! Ah, un consiglio: diffidate dalle righe farcite di tanti punti esclamativi. La loro abbondanza rivela tutta la falsità del sentimento che dovrebbe ispirarli. Piuttosto rovesciatene il senso, leggete in ogni punto esclamativo un punto interrogativo, e il gioco è fatto.

134. Sono sempre raffreddato, che ci siano cinque o quarantacinque gradi, che nevichi o che bruci. Ogni giorno produco una cospicua quantità di muco: sono una straordinaria fabbrica di muco, giallo e appiccicoso. Potessi venderlo… Secondo mia madre devo essere allergico a qualcosa. Ne sono certo anch’io, e non ho bisogno di sottopormi a costose analisi mediche per scoprire a cosa sono allergico, perché lo so fin troppo bene: io sono allergico alla vita.

135. Tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre: il crepuscolo dell’estate. Momento dolcissimo per colui che l’estate la odia, e che per questo suo odio ha passato gli ultimi tre mesi sotto assedio. Ma l’imminenza della fine mitiga l’ostilità, e il nemico dell’estate si china sulla stagione agonizzante rendendole omaggio e augurandole una morte serena e indolore.

136. Delle disgrazie che martoriano il mondo il nichilista sorride malignamente, mefistofelicamente. Perché il Caso finisce sempre per dargli ragione, smascherando le grossolane menzogne di tutti quelli che non la pensano come lui e lo condannano, lo biasimano, lo scherniscono. Non si tratta di cattiveria gratuita, né della soddisfazione per una malriposta sete di vendetta, no, ma di una sottile e affilata ironia frutto di una superiore, disillusa e rassegnata consapevolezza dell’umana vanità e dell’umana debolezza, esposta di continuo a qualche catastrofe pronta a coglierla di sorpresa, senza lasciarle neppure il tempo di gridare aiuto.

137. Viviamo in un tempo in cui l’unica forma pura di critica, di dissidenza, di resistenza è la rassegnazione, l’indifferenza, l’immobilismo, il silenzio. L’auto-esclusione e l’auto-esilio, insomma. Perché qualunque azione finisce matematicamente nella complicità, nel favoreggiamento, nella collusione, nella contaminazione – a tal punto la rettorica ha perfezionato il suo regno: ogni manifestazione, anche quella apparentemente contraria, magari intenzionalmente protestataria e sovversiva, rientra nei suoi ranghi -. Si varca la soglia di uno studio televisivo per gridare tutto il proprio sdegno contro governanti ignoranti e approfittatori? Immediatamente si diviene complici, mostrando una dose di vanità che rivaleggia con quella dei presunti nemici. Si ricorre ai social networks per veicolare un messaggio di protesta? Si dimostra di accettare il sistema e le sue regole. Ma basta anche meno; basta anche solo rivolgere la propria attenzione alla becera attualità per divenire complici, parlandone silenziosamente tra sé e sé. Ciò che ignoro non esiste: deve essere questo il comandamento dell’uomo – lui sì davvero uomo – che rifiuta questo tempo maledetto, che vi si oppone, che resiste alla sua spinta omologante e spersonalizzante. Deliri d’onnipotenza, commenterà sdegnosamente qualcuno di voi. Ma quale onnipotenza… Delirio sì, forse, ma d’impotenza.

Precedente Spazzatura. I rifiuti cerebrali di un uomo (suo malgrado) - Luglio Successivo Spazzatura. I rifiuti cerebrali di un uomo (suo malgrado) - Settembre