La vita è dolore, insensatezza, disperazione, morte. Solamente una piena consapevolezza di ciò, ovvero del carattere irrimediabilmente tragico dell’esistenza, può condurre l’individuo alla libertà, alla serenità, alla felicità, forse. Perché se la felicità è possibile, risiede nella sofferenza, come scrive Dostoevskij in un appunto su Delitto e castigo, essendo la sofferenza la condizione necessaria dell’essere («Non c’è felicità nel confort, la felicità si acquista con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si guadagna la sua felicità, e sempre con la sofferenza»).
Non rimuovere il dolore, l’insensatezza, la disperazione, la morte, nascondendoli sotto un ridicolo manto d’illusioni e di menzogne, ma sostenerne gli sguardi terribili e il peso schiacciante è quanto di più dignitoso e coraggioso possa fare un uomo. Il che, in sostanza, significa non farsi condurre da altri sul proprio Calvario, non recarvisi inconsapevolmente, per vie traverse – perché il Calvario è la meta di ogni vita umana -, ma ascendervi con le proprie gambe, con la propria volontà salda, che nulla teme e anzi nella fine trova conforto e pace.