Soliloquio del dolore – 16

Nel mio permanente stato di guerra contro il mondo e suoi organismi assimilatori, ho concepito un grandioso, universale sogno d’amore che, demolito a poco a poco dai continui fallimenti, in un ultimo, disperato tentativo di realizzazione, si era concentrato tutto in Lei. Ma Lei ora non c’è più e il mio sogno è andato distrutto per sempre. Anche per questo motivo la fine del nostro rapporto mi ha sconvolto tanto, come nessun altro evento nella mia vita. Se ripenso agli ultimi tre mesi, mi sembra di aver vissuto in un perenne stato d’incoscienza, completamente staccato dalla realtà, naufrago del mio dolore. Tutto ciò che ho fatto – comprese le attività più elementari per un uomo come bere, mangiare, camminare, respirare -, detto, scritto in questo periodo, è come se lo avessi fatto, detto, scritto da sonnambulo, senza rendermene conto. Un quarto dell’anno è scivolato via così, è svanito nel nulla senza che me ne accorgessi e a pensarci è spaventoso. È spaventoso come un uomo possa distruggersi e distruggere tutto ciò che gli sta intorno senza muovere un dito, senza uscire dalla propria stanza. La mia vita si è spezzata in due e il dolore, come un fiume in piena, ha rotto quegli argini che negli ultimi anni avevo eretto con tanta fatica, attraverso un impegno quotidiano, severo, travolgendo tutto. Lei mi ha minato, lettera dopo lettera, e alla fine sono imploso.
Nell’arco della giornata sono rarissimi i momenti in cui riesco a liberarmi di Lei, del suo pensiero torturante e stordente. In questi momenti trovo sollievo, ma non durano mai a lungo. Interviene sempre un ricordo, insinuatosi di soppiatto e magari insignificante, a interrompere la tregua e a ricondurmi violentemente a Lei, come se non potessi staccarmene più, oppure un’interferenza esterna che, come una maledizione, si lega subito alla sua persona e alla sua vita: il nome della sua città, pronunciato da un giornalista in televisione, un servizio sulla nazionale italiana di pallavolo, il suo sport, e via dicendo.
La mia maledetta sensibilità sovrasviluppata, che mi ha reso sempre troppo vulnerabile alla delusione e che mi ero sforzato con tutto me stesso di annientare negli ultimi anni, ha preso il sopravvento e mi ha schiacciato, annichilito, come mai prima. Ora devo ricominciare tutto daccapo, come se fossi nato oggi per la prima volta ed è anche per questo che ricorro così spesso ai miei autori prediletti, citandoli copiosamente, per ritrovare le mie certezze perdute. Ma ho una forza finora sconosciuta dalla mia parte, una nuova consapevolezza, alla quale devo aggrapparmi per resistere e non soccombere, la consapevolezza della mia fine. Ora è davvero tutto finito, ora sono davvero solo nel deserto, senza più sogni, speranze, aspirazioni, obiettivi, illusioni e su questa conclusione devo basare la mia nuova resistenza, non al mondo, al vostro mondo, ma alla vita, e intendo lottare come forse non ho mai fatto sinora, disposto a tutto e senza più niente da perdere, pronto a ricorrere alle armi più spaventose.
Per un anno e mezzo ho osservato la sua fotografia tentando di decifrarne il mistero. Ora che questo mistero mi è stato rivelato fa male. Poter associare a quella immagine una voce, un sorriso, dei gesti, delle parole è una tortura che si rinnova ogni sacrosanto giorno, anzi, una tortura che da tre mesi a questa parte, nella mia nuova dimensione atemporale, non si interrompe mai (questa notte, mentre dormivo, qualcuno mi è apparso in sogno e mi ha crudelmente sussurrato il suo nome, allora mi sono svegliato di soprassalto e non ho più ripreso sonno – immerso nelle tenebre, vedevo Lei ovunque). Ora la sua fotografia prende vita, si anima e anche se fu scattata in un momento felicissimo della nostra storia, scattata da Lei solo per me, pensando a me, come se mi fosse accanto, in ascolto delle mie parole, non posso fare a meno di associarle le sue frasi atroci di quel giorno, il giorno del nostro primo e ultimo incontro.
Dio mio, se potessi tornare indietro e riviverlo quel giorno… Mentre passeggio con Lei tenendola sottobraccio (perché, nonostante tutto, abbiamo vissuto momenti piacevoli), mi fermerei, la guarderei dritto negli occhi, le toglierei gli occhiali (non averla mai vista senza occhiali, non aver goduto del suo sguardo senza mediazioni è uno dei miei rimpianti più dolorosi) e le direi ciò che Faust, un istante prima di morire, dice all’attimo: «Fermati, dunque, tu sei tanto bella!» [132]. Magari anch’io sarei morto pronunciando quelle parole, ma che morte dolce sarebbe stata!
Negli ultimi tre mesi ho vissuto giornate infernali, funestate da una nausea continua, da un gelo profondo, attaccato alle ossa, immune al caldo asfissiante dell’estate, e da un sentimento mai provato prima, per nessuna creatura umana: la gelosia. Ho provato una gelosia così forte da rasentare l’odio, verso tutto ciò che la circonda e mi è precluso, verso chiunque abbia la fortuna di vederla, di parlare con Lei, di viverla.

Mentre mi vince gelosia crudele
non pur di questo giovane e di quello
cui lo sguardo concedi o la parola,
ma d’ogni cosa che ti sia vicina,
ma del sole, dell’aria, ma del pane,
ché di loro ti nutri e a me sei tolta;
gelosia d’ogni giorno, d’ogni istante,
che vivi, che non vivi di me solo,
che l’aria e il pane e il sole, che ogni cosa,
che il mondo intero, che la vita stessa
vorrei esser per te – ma tu l’ignori [133].

Sono stato uno sciocco a pensare di poter sovvertire il mio destino di nato-senza-amore. Lo stesso destino di Adrian Leverkühn, secondo l’ultima clausola posta dal diavolo, il più crudele dei diavoli letterari, in cambio di tempo geniale ed esaltante: «A noi tu, creatura fine e creata, sei promesso e fidanzato. A te non è lecito amare» [134]. Le forze infernali vogliono Leverkühn freddo, così freddo che le «fiamme della produzione» basteranno appena a scaldarlo, e l’amore gli è vietato proprio perché riscalda. Anche la mia attività creatrice è nata sotto l’egida del demonio, frutto amaro dell’ascolto delle Litanie di Satana (il giorno stesso in cui l’insegnante di lettere, al secondo anno di liceo, ci lesse questa poesia, mi precipitai in libreria ad acquistare I Fiori del Male, io che non avevo mai comprato un libro in vita mia, e già l’indomani mi ritrovavo curvo sulla scrivania a scribacchiare versi, da subito incapace di essere un semplice lettore – fu così che tutto ebbe inizio), ed evidentemente il diavolo deve avermi imposto la stessa condizione di Leverkühn, ma cosa ho ricevuto in cambio? Il nulla, nient’altro che il nulla, e la condanna a subire già in vita quella che il demonio di Mann definisce la «qualità più spiccata» del regno infernale, ovvero l’eterna oscillazione dei dannati «tra il gelo estremo e un ardore che potrebbe fondere il granito», con il passaggio dall’uno all’altro che «sembra continuamente un ristoro divino, ma diventa subito, e nel più infernale significato della parola, insopportabile» [135]. Mi sono sempre dibattuto tra questi due estremi, come tra il niente e il tutto, il bianco e il nero, trovando momentaneo sollievo ora nell’uno ora nell’altro, incapace di giungere a una sintesi, a quella tepidezza, a quella porzione, a quella sfumatura, a quella mediocrità insomma, che sole garantiscono un’esistenza tranquilla e ignara.
Di fatto, è come se Lei quel giorno non mi avesse riconosciuto. Paradossalmente, è stato proprio in quel momento di massima distanza spirituale, che ho sentito esplodere il mio amore per Lei, in tutta la sua mistica potenza. Mentre Lei mi diceva che il nostro rapporto non era più lo stesso, era cambiato, si era intiepidito io, dentro di me, mi dichiaravo pronto ad amarla con tutta l’abnegazione di uno schiavo, di un cane. È sempre andata così: se una donna si concede a me, di colpo non provo più interesse e interrompo il legame, mentre il rifiuto alimenta il mio amore a dismisura. Un fenomeno curioso, in cui non vedo altro che la conferma del mio destino di solitudine.
Dunque se Lei… No, vi fermo subito. Lei era colei che avevo sempre cercato e mai l’avrei allontanata da me. Lei è l’unica donna per la quale avrei messo in discussione tutto, l’unica per la quale avrei accettato di vivere e di lottare con voi, tra voi, nonostante tutto, e il cui amore mi avrebbe donato una forza e un coraggio tali da sollevare le montagne.
Ma Lei quel giorno non mi ha riconosciuto, come nessun altro del resto nella mia vita. Se lo avesse fatto, non mi avrebbe parlato in quel modo, con quel tono gelido, distaccato, da condanna a morte, e non sarebbe stata così brutalmente sincera, del tutto priva di sensibilità. L’unico responsabile sono io, che ho commesso l’errore imperdonabile di sottovalutare le circostanze e credere d’aver trovato ciò che per me non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai: il calore dell’amore.
Grazie a Lei, che è sempre stata chiara con me e non mi ha mai illuso, ho compreso che questo calore può assumere molte forme, diverse dalle consuete, e forse proprio per questo motivo mi ha addolorato tanto perderla. Consapevole, sempre, sin dalla sua prima lettera, di non poterla avere totalmente, anima e corpo, nella mia vita, come avrei voluto, il mio amore per Lei si era sviluppato verso l’alto, fino a raggiungere le vette incommensurabili dell’ideale, della fede, evolvendosi nella direzione di un autentico misticismo. Ecco perché il mio dolore è così profondo e devastante, come quello dell’anacoreta al quale Dio è apparso solamente per rivelargli la sua inesistenza.

NOTE

[132] Johann Wolfgang Goethe, Faust, atto V, Gran cortile davanti al palazzo (L’attimo).

[133] Carlo Michelstaedter, A Senia, VI, in Id., Poesie, cit.

[134] Thomas Mann, Doctor Faustus, traduzione di Ervino Pocar, Mondadori, Milano 1996, p. 287.

[135] Ivi, p. 285.

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