Soliloquio del dolore – 17

In un mondo d’ipocriti la coerenza si paga a caro prezzo: il prezzo del sacrificio e della maledizione a livello individuale, il prezzo dell’incomprensione, della paura e dello scherno a livello collettivo. Un uomo coerente è un uomo ridicolo e un pazzo, un uomo depresso quando si toglie la vita.
In un mondo d’interessati la generosità e le sue nobili armi, la pietà, il rispetto dell’altrui libertà, la gentilezza, non sono mai capite dunque ripagate, e al generoso non resta altro da fare che svuotarsi, desertificarsi oppure uccidersi – il che, in un certo senso, è la stessa cosa -, martire di se stesso, della sua natura inattuale, fuori luogo.
In fin dei conti, dalla fine dell’infanzia, la mia vita è storia di una sopravvivenza, e se finora mi sono mantenuto in vita è stato solamente per generosità. Cosa ci ho guadagnato, oltre alla mia sapienza nera? Avrei dovuto uccidermi molto tempo fa.
In un mondo di deboli e porci lussuriosi (l’effimero possesso sessuale è il rifugio prediletto della debolezza e dell’insicurezza, come l’esaltazione dell’apparenza ovvero l’esibizionismo), l’amore non è altro che uno spettro di cui si conosce il nome, ma non la sostanza: «Molte sciocchezze di breve durata – questo da voi si chiama amore» [136]. Perché fermarsi, gettare l’ancora alla prima, superficiale e puramente carnale corrispondenza? L’amore è ricerca e la ricerca richiede solitudine, ma voi soli non sapete stare e allora vi accoppiate casualmente, come animali, accorgendovi troppo tardi del danno fatto, magari dopo aver messo al mondo nuove vittime. L’amore è una fiamma potente che illumina e riscalda come il sole, mentre le vostre misere relazioni sono fuochi fatui. L’uomo accoppiato che per resistere alla tentazione bestiale di possedere un’altra donna deve mozzarsi un dito, come padre Sergij, non ha amore. Per resistere alla tentazione, il monaco di Tolstoj afferra la scure e si taglia un dito perché non ha fede [137]. L’amore è fede e uccide il nostro io bestiale, inaugurando il regno millenario del nostro io spirituale. L’amore è fede nell’altro e in se stessi, forse persino nell’intero genere umano. Non idealizzo, non estremizzo, semplicemente chiamo le cose con il proprio nome, e se l’amore non è questo, allora non esiste: tutto o niente.
Perché, vedendola, non le sono corso dietro afferrandola per un braccio? Perché, abbracciandola, non le ho detto quanto fosse importante per me quel momento? Perché, prendendole la mano e intrecciandola alla mia, non le ho rivelato quante volte nell’ultimo anno e mezzo avessi sognato quell’istante, come il prigioniero l’istante della liberazione? Perché ho accettato la rottura senza rimproverarle nulla, neppure il silenzio, anzi, augurandole il meglio, pacifico e conciliante? Per non metterla in difficoltà, per non imbarazzarla, per non spaventarla, dunque per coerenza, generosità e amore, ancora una volta, un amore autentico, profondo, mistico come quello di un eremita nel deserto per il suo Dio. Ma Lei non lo ha capito. Lei non lo ha visto, perché non mi ha visto. Ai suoi occhi distratti e distaccati ero il passato, io che credevo di essere per Lei ancora presente. Ai suoi occhi ero uno dei tanti, io che credevo di essere ancora e di restare per Lei un punto di riferimento, fortezza e rifugio. Senza vedermi, come avrebbe potuto riconoscermi? Io, che la riconobbi da lontano, di spalle, al primo sguardo, sentendola, intuendola nel mio amore sconfinato, per Lei non ero che un rapporto scaduto da regolare in fretta, prima del ritorno a casa, alla vita consueta, alle responsabilità quotidiane. Quella Lei che è stata e che a me solo si è rivelata, per qualche momento si è ribellata a questa nuova Lei, ma la sua forza è ormai prossima allo zero.
Quel giorno rappresenta e rappresenterà per sempre l’ultimo, definitivo, estremo fallimento di ciò che sono e dunque l’ultima, definitiva, estrema conferma della mia incompatibilità con la vita e la realtà in generale, in particolare con questo mondo d’ipocriti, d’interessati, di deboli e di porci lussuriosi la cui massima ispirazione è giacere accanto a una donna [138], e che forse ha finito per fagocitare e assorbire anche Lei. In fondo cos’ero io per Lei, se non la voce della coscienza? Con me ha riscoperto una parte sepolta di se stessa e, terminato questo processo di recupero interiore, mi ha liquidato come un conoscente qualunque (un collega) che abbia commesso l’imprudenza d’innamorarsi di Lei, moglie e madre – come se il mio amore volesse strapparla alla sua famiglia.
Tutto è andato distrutto quel giorno, non solo il nostro rapporto, e anche una parte di Lei (quella stessa parte recuperata), lo so, lo sento, di cui forse un giorno rimpiangerà la perdita. Forse io allora non sarò più di questo mondo che mi respinge e al tempo stesso tenta di assorbirmi, questo mondo popolato d’individui mezzi-uomini e mezzi-animali, perché dell’umano e dell’animale mancano loro le due qualità principali, la coscienza e l’innocenza.
Per le nature estreme, eternamente sospese tra il tutto e il niente, tra il bianco e il nero, tra il caldo e il freddo, l’amore disperso, irriconosciuto e non corrisposto, dunque fine a se stesso, è una condanna alla negazione assoluta, alla distruzione, come mostra Dostoevskij, il più grande esploratore e conoscitore del mistero uomo, attraverso la figura di Ivan Karamazov: «Il dramma d’Ivan […] nasce dall’esservi troppo amore senza oggetto» [139]. Il «più grande e intimo desiderio» di colui che per Dostoevskij incarna l’esito più radicale del nichilismo è, come rivela il suo diavolo, credere, e credere con tutto l’ardore della propria natura estrema, ritirandosi nel deserto, facendo penitenza e cibandosi di cavallette, insieme ai padri eremiti. Ma per Ivan, spirito euclideo, che deve vedere, toccare, sentire, Dio non c’è, non può corrispondere, premiare il suo sconfinato amore e allora egli si getta nell’estremo opposto, la negazione assoluta, il rifiuto categorico del mondo creato da questo fantomatico Dio, quanto di più grave e distruttivo nella prospettiva di Dostoevskij.
Anche l’anarchica e nichilistica logica del «tutto è permesso» d’Ivan nasce da un grandioso sogno d’amore deluso, confutato con spietatezza dalla storia universale, di cui egli è maestro, ovvero dalla «consolidata stupidità del genere umano»:

Una volta che tutta l’umanità avrà rinunciato a Dio (e io credo che questa era, come le diverse ere geologiche, un giorno arriverà), tutte le vecchie concezioni crolleranno da sé, senza bisogno di antropofagia, e per prima crollerà la vecchia morale, e tutto si rinnoverà. Gli uomini si raggrupperanno per appropriarsi di tutto quello che la vita può offrire, ma avendo come unico fine la gioia e la felicità di questo mondo. L’uomo si celebrerà in un orgoglio divino, titanico, e nascerà l’uomo-dio. Trionfando sempre e in ogni campo sulla natura, grazie alla sua volontà e alla sua scienza, l’uomo prenderà a godere in ogni istante di un piacere così sublime che sostituirà tutte le antiche speranze di ricompense ultraterrene. Tutti saranno consapevoli di essere definitivamente mortali, senza possibilità di resurrezione, e andranno incontro alla morte con sereno coraggio, come degli dèi. Per fierezza capiranno di non doversi lamentare perché la vita è breve, e ameranno il loro prossimo senza niente in cambio. L’amore nutrirà solo l’attimo della vita terrena, ma proprio la consapevolezza di questa sua fugacità ne raddoppierà l’ardore, mentre prima si diluiva nelle speranze di un amore oltre la morte e l’infinito [140].

Ma la «consolidata stupidità del genere umano» rivela l’inattuabilità del sogno d’amore d’Ivan, lo distrugge ed egli si getta a capofitto nel suo opposto, ovvero nella logica omicida del «tutto è permesso», che il malato – nel senso sveviano del termine – Smerdjakov, vera anima nera dei Karamazov, mette in pratica.
Insomma, nelle nature estreme dall’amore disperso scaturisce un odio furioso, cieco, che, rivolto anzitutto contro se stessi, finisce per travolgere e annientare l’intero genere umano. Io stesso ho vissuto questa esperienza terribile e dall’amore immenso per l’uomo (concentrato in un sogno di felicità non molto dissimile da quello d’Ivan) sono passato a un suo odio feroce, a una misantropia cupa. Ora per me è giunto il momento di passare oltre questi due estremi (o almeno provarci), di trascendere la condizione umana ed emanciparmi dalla vita, ovvero fare del mio sguardo lo sguardo gelido, impassibile e implacabile del nulla.

NOTE

[136] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 267.

[137] «”Adesso vengo da voi,” proferì, e aperta la porta, senza guardare verso di lei, passandole accanto andò nel vestibolo, dove di solito spaccava la legna, trovò a tastoni il ceppo su cui spaccava la legna, e la scure, appoggiata alla parete.
“Adesso,” disse, e presa la scure nella mano destra, mise l’indice della mano sinistra sul ceppo, sollevò la scure e lo colpì sotto la seconda falange. Il dito saltò via più facilmente di quanto non avvenisse con legni di quello stesso spessore, si rigirò in aria e cadde, con un suono molle, prima sull’orlo del ceppo e poi a terra» (Lev Tolstoj, Padre Sergij, a cura di Igor Sibaldi, Feltrinelli, Milano 2015, p. 52).

[138] «E guardate questi uomini: il loro occhio lo dice – non conoscono nulla di meglio sulla terra che giacere accanto a una donna.
Fango è sul fondo della loro anima; e guai se il loro fango ha ancora spirito!» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 258).

[139] Albert Camus, L’uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano 2020, p. 23.

[140] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 632.

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