L’uomo è tutto. Tutto è nell’uomo. Dio e il diavolo, paradiso e inferno, l’intero universo. Tutto esiste soltanto in funzione dell’uomo, di ogni uomo, primo e ultimo. Prima e dopo di lui è il nulla. Durante è il tutto. È questa la sua assurda libertà, insostenibile per la maggior parte degli uomini, che vi rinunciano in cambio di una via tracciata, di un percorso segnato e comodo. È spaventoso guardare davanti a sé, guardare dietro di sé e non vedere niente. È spaventoso sapere che tutto ciò che esiste esiste soltanto con te, in te, e che, quando non sarai più, tutto scomparirà con te, i vivi e i morti, i crimini e i miracoli. Ciò che ogni sacrosanto giorno vediamo riflesso allo specchio è tutto, non c’è altro. Distogliere lo sguardo da noi stessi, dall’abisso e crearsi un’illusione di sensatezza serve solo a rendere la fine ancor più dolorosa. È di ognuno di noi il mondo, e dovrebbe essere cura di ognuno di noi preservarlo dall’umana ferocia, dall’umana bestialità. Io mi rifiuto di vivere in un mondo di bestie. Ognuno di noi è l’inizio e la fine del mondo. Credere in Dio significa fare di se stessi Dio (a sua immagine). Credere nei miracoli significa fare di se stessi dei santi. Basterebbe fare di se stessi degli uomini, e sforzarsi di restarlo sempre, in qualunque sventura, come scrive Dostoevskij. Ma essere un uomo significa accettare necessariamente quella libertà assurda che terrorizza, che paralizza. Tertium non datur.