I taccuini di Tarrou – 157

I. C’è un appunto di Dostoevskij su Delitto e castigo, uno dei primi, se non sbaglio, scritto nel 1865, che rivela, che illumina il senso più profondo dell’opera, della vicenda di Raskol’nikov, di Sonja e della vita dello stesso Dostoevskij:

Non c’è felicità nel confort, la felicità si acquista con la sofferenza. L’uomo non nasce per la felicità. L’uomo si guadagna la sua felicità, e sempre con la sofferenza.

Delitto e castigo si configura così come una rappresentazione a tinte forti dell’esistenza umana e, in particolar modo, di quella del suo autore, che, nonostante le innumerevoli catastrofi (l’epilessia, l’arresto, la prigionia, la condanna a morte, l’esecuzione-farsa, i lavori forzati, l’esilio, la malattia del gioco, i lutti, ovvero le premature scomparse della prima moglie, dell’amato fratello Michail e della primogenita, la piccola Sonja, chiamata così proprio in onore del personaggio femminile di Delitto e castigo), non smette mai di inseguire la felicità.

II. Dostoevskij ci ha regalato innumerevoli immagini della sofferenza umana, ma nessuna di queste eguaglia forse, per intensità, per profondità quasi iconografiche, il volto di Nastas’ja Filippovna, così intimamente, così irrimediabilmente sofferente da risultare insostenibile persino per il principe Myškin, che pure della comprensione e del carico del dolore altrui fa la propria missione. Il volto addolorato di Nastas’ja Filippovna, segnato da lacrime impossibili da asciugare, eterne, è il volto universale dell’essere umano, nato per soffrire e per morire.

III. Come scrive Dostoevskij nell’appunto su Delitto e castigo (un’idea alla quale tiene moltissimo e che ribadirà quindici anni dopo, alla vigilia della morte, nei Fratelli Karamazov, attraverso lo starec Zosima), è forse davvero possibile trovare la felicità nel dolore, ma solo se l’uomo può contare sul sostegno dell’amore e della fede (anzitutto dell’amore: Raskol’nikov si salva grazie a Sonja e risorge proprio nel momento in cui scopre e accetta il suo amore per Sonja, che lo indirizza verso la fede; allo stesso modo, se Dostoevskij non avesse conosciuto Anna, la sua seconda, miracolosa moglie, sarebbe finito male, divorato da quel vuoto d’amore spalancatosi di colpo intorno e dentro di lui con le morti ravvicinate della prima consorte e del fratello). Ora, io non ho l’amore, non posso averlo, non mi è concesso, né tanto meno la fede, per quanto ammiri e ami Cristo (il Cristo uomo, naturalmente, l’unico vero): per me nel dolore c’è solo altro dolore. Non risorgerò mai, pur non avendo ucciso nessuno, neppure me stesso.

Dostoevskij in una xilografia di Vallotton
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