I taccuini di Tarrou – 155

So benissimo che nella mia condizione di vuoto, di dolore assoluto, di solitudine, di disperazione, di morte-in-vita l’atteggiamento più coerente sarebbe quello del silenzio. Nell’uomo perfettamente, interamente consapevole dell’insensatezza della vita, l’insensatezza si manifesta con maggiore evidenza e ferocia, come un’autentica verità, ed egli dovrebbe restarsene fermo in una stanza ad attendere la fine, sostenendo il peso del nulla, del dolore, della solitudine, della disperazione e nient’altro. A meno che non lo soccorra la passione dell’assurdo, passione che non ho mai conosciuto né vagamente intuito in me. Dunque dovrei tacere, deporre la penna per sempre, lasciar andare i pensieri, le impressioni, le poche esperienze che ancora mi concedo e attendere la fine, nient’altro. Ma ancora non ne sono capace, la scrittura è un vizio che non riesco ancora a debellare. Almeno non c’è compiacimento nella mia scrittura, che sanguina, nasce e muore per se stessa, senza dover scendere a patti con un pubblico. Io non mi sono mai compiaciuto di ciò che ho scritto, anzi, ho sempre maledetto il mio bisogno istintivo di versare inchiostro. La scrittura non mi ha mai regalato una soddisfazione, ha soltanto approfondito, aggravato la mia tragedia e nient’altro. Tutto ciò che ho inutilmente creato in questi anni è solamente una testimonianza di un dramma individuale senza alcuna importanza, un’insignificante goccia d’amarezza in quell’immenso mare di lacrime che è la storia del genere umano.

Odilon Redon, Ragno piangente
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