Spazzatura. I rifiuti cerebrali di un uomo (suo malgrado) – Settembre

1. Brucia tutto. Le fiamme alte distruggono ettari ed ettari di vegetazione, lambendo ormai anche il bosco. Dalla terra affiorano rovine di cui tutti ignoravano l’esistenza, rovine di templi romani, divorate anch’esse dalle fiamme alte. Il fumo oscura il sole, lo cancella. Mi ritrovo davanti agli occhi l’inferno così come si è imposto nell’immaginario collettivo. Anche la strada brucia e non posso tornare a casa. Scendo dall’auto, eccitato dalla catastrofe, arrivano i vigili del fuoco, con colpevole ritardo. Ormai tutto è perduto.
Mi sveglio di colpo e getto uno sguardo all’orologio: sono le quattro e trenta. Fuori piove. Lampi e tuoni si rincorrono. Lieta sorpresa. Che non cancella però quel senso sgradevole di precario equilibrio lasciato dall’incubo.
Le quattro e trenta. Penso a chi rincasa ora sorpreso dal temporale dopo una serata di baldoria, e a chi ora si strappa controvoglia dal letto per andare a lavoro maledicendo la propria vita, mentre lotto con me stesso per ritrovare il sonno perduto.

2. L’inizio del tuono è uno strappo del cielo come fosse di carta. Affacciandomi alla finestra ho l’impressione di vederlo ridotto a brandelli, come una vecchia scenografia teatrale abbandonata. Pirandello, certo. Il fu Mattia Pascal, certo. Anselmo Paleari, certo. Ma al di là di tutto questo un’espressione pura, incontaminata, automatica nata dal dormiveglia illuminato a intermittenza dalla luce dei lampi.

3. È facile, facile e soprattutto ingiusto, e falso, una giustificazione misera e infantile, addossare le colpe delle sofferenze e dei fallimenti alla vita, come se essa fosse guidata da una volontà superiore o da un destino. Complesso, molto più complesso e giusto e vero prendersela con chi ha davvero colpa e responsabilità: noi stessi, nessun altro. Noi stessi siamo i colpevoli dei nostri dolori, dei nostri fallimenti, delle nostre sconfitte, delle nostre delusioni. Noi stessi ci prendiamo a schiaffi fino a rivoluzionarci i connotati, noi stessi ci infliggiamo ferite così profonde da non rimarginarsi mai e scomparire solamente con la nostra putrefazione. Di noi stessi non abbiamo rispetto ed è vile e assurdo autocompatirci, autocommiserarci. Così come di noi stessi non abbiamo mai avuto cura, di noi stessi non dobbiamo avere pietà. E scoprendoci insufficienti di noi stessi dobbiamo avere disgusto e disprezzo. Se Cristo potesse vedere cosa è diventato il mondo dopo e grazie ai suoi insegnamenti – manipolati, certo -, deciderebbe di farsi uomo una seconda volta per potersi suicidare condannandosi all’inferno.

4. Ah… cosa darei per saper scrivere un libro maleducato e insolente, che afferri il lettore per il bavero e lo schiaffeggi fino a fargli sputare sangue! Scrivere per rasserenare i cervelli degli uomini è nocivo e disonesto come l’azione della politica e della chiesa. La scrittura deve scuotere e picchiare e umiliare ovvero risvegliare le coscienze!

5. Bakunin divora i resti del coniglio alla cacciatora con la stessa avidità con la quale io divorerei il corpo d’una donna, senza tralasciare neppure un pezzetto di carne, neppure il più nascosto. Ma questa mia fame è destinata a restare insaziata chissà per quanto tempo ancora, e so già che quando il momento tanto atteso verrà – se mai verrà – la foga m’impedirà di godere del pasto intero, con lo stomaco chiuso subito dopo i primi, veementi, disgustosi morsi, in preda alla nausea. La fame furiosa m’impedirà di mangiare come si deve, adagio, ingerendo e masticando accuratamente piccole dosi, costringendomi invece a rigurgitare grossi bocconi appena smozzicati. E la triste e macabra ironia è che la consapevolezza di tutto ciò non mi salverà dalla delusione.

6. M’abbandono alla fantasia che sia io quell’uomo fatto come tutti gli altri, ma degli altri più malato, che ruberà l’«esplosivo incomparabile» – di cui parla profeticamente Svevo in conclusione della Coscienza – e s’arrampicherà fino al centro della terra per collocarlo nel punto in cui il suo effetto sarà massimo, causando quella silenziosa esplosione che riporterà la terra alla forma di nebulosa, errante «nei cieli priva di parassiti e di malattie». Mi sembra di tenerlo stretto nel pugno questo straordinario esplosivo, e godo di poter mettere davvero in pratica il mio anelito alla distruzione assoluta, totale, irreversibile. Ma un’ideuccia maligna si fa largo sghignazzando nel mio cervelletto: rifiutare all’umanità un tale favore, lasciarla vivere e dunque soffrire [questa parola è stata scritta con così tanta forza da strappare il foglio, n.d.r.] ancora per secoli, godendo io solo del vantaggio offerto da quest’arma incomparabile, staccando un pezzettino dell’esplosivo, la quantità necessaria all’annientamento d’un singolo individuo – io. E prima di distruggermi seppellirei questo mondo infame con una risata eccezionale, la risata delle risate.

7. Ieri sera ho raccontato ai miei amici della mia avventura con la sconosciuta in biblioteca. Sorpresi della mia intraprendenza, con i loro sorrisi beffardi si sono compiaciuti di farmi notare che allora in me è ancora viva la speranza, nonostante tutto, che non sono poi così tanto indifferente e rassegnato come mi autoritraggo. Non li ho contraddetti. Sono dunque ancora malato di speranza? E se così fosse, sarebbe poi tanto grave? La speranza… Io credo che si tratti di molto meno, di un semplice rigurgito di quella giovinezza che mi ha abbandonato prematuramente e che, di tanto in tanto, tenta di risarcirmi della sua fuga. La presenza di una donna non cambierebbe la sostanza delle cose, ma sarebbe solo un edulcorante nella sopportazione e nell’attesa della fine. Ecco tutto.

8. La critica letteraria è una sottile forma di parassitismo, un modo per infiltrarsi secondariamente in quel mondo, la letteratura, dal quale siamo stati respinti in qualità di autori. Non sapendoci rassegnare all’esclusione ci appiccichiamo come parassiti speculando su quella grandezza alla quale non abbiamo saputo contribuire con la scrittura creativa. Ma oggi la morte della letteratura italiana conferisce maggiore dignità al critico: da parassita egli diviene custode, custode di quel grande passato che senza il suo impegno andrebbe per sempre perduto, sommerso dalla contemporanea piena di stupidità e ignoranza.

9. L’atto della scrittura rappresenta una regressione nel processo evolutivo dell’uomo. Perché per scrivere si deve chinare la testa, ci si deve piegare, ingobbire, deformare, e lo scrittore torna così ad uno stato evolutivo precedente all’homo erectus. Nel far assumere allo scrittore una posizione primitiva e oramai innaturale, controcorrente e regressiva, la scrittura rivela tutto il suo carattere tutt’altro che lusinghiero e piacevole, conciliante e pacifico, ma contrastante, inquietante, spossante, fondamentalmente nocivo. Come ogni altra attività umana anche la scrittura si riduce a vizio o abitudine, ma forse più d’ogni altra attività umana la scrittura ha numerosi aspetti in comune con la malattia: una malattia subdola, infida e deformante, inevitabilmente mortale, proprio come la vita. Derivazione sveviana questa, certo, ma non posso essere d’accordo con Svevo quando dichiara che nella penna sta la salvezza. Nella penna sta la condanna, e una condanna ancor più atroce e feroce d’ogni altra perché auto-inflitta. Il corpo dello scrittore è quello deformato, alterato, devastato di Giacomo Leopardi, e seppure queste deformazioni, queste gobbe non appaiono all’esterno, esse certamente sfigurano all’interno, nel cervello febbrile come una piazza invasa da una massa di dimostranti, di antagonisti, del demiurgo che con la punta acuminata della sua penna scalfisce la carta come Mosè la pietra, con la stessa invasata intensità, creando non tavole della legge ma tavole eslege, frastagliate e spigolose come il panorama carsico, sanguinanti parole coronate di spine e gridanti possibilità esistenziali alternative ridotte oramai a vicoli inospitali e bui dove neppure durante il giorno giunge la luce salutare, rifugi di tutto ciò che è stato dimenticato, abbandonato, rifiutato, cancellato: l’uomo nella sua forma più autentica, sincera, barbara, nudo perché spogliato di quel manto d’ipocrisia e innaturalezza con il quale oggi viene avvolto subito dopo essere stato strappato malgrado se stesso dal ventre materno. Non so neppure io cosa stia scrivendo, o se stia scrivendo davvero o stia solo fantasticando. La Stia: Mattia Pascal? Eppure il pensiero è stato mosso da un’idea, ma presto dispersa dalla pioggia feroce di parole una volta tanto lasciate cadere liberamente senza la mediazione della ragione. È tutto sommato confortante sapere che si potrebbero riempire così, in questo modo barbaro pagine e pagine, scrivere un intero libro lasciando che la penna faccia ciò che voglia, erri vagabonda sulla carta come Campana nel mondo. MA… Per scrivere bisogna pur sempre chinare la testa, ci si deve sempre piegare: farsi schiavi, dunque.

10. Se l’intera umanità fosse come me, il mondo sarebbe di certo un posto migliore. Non ci sarebbero più violenze, né guerre, né ingiustizie, né furti, né raggiri, né truffe. Ognuno penserebbe solo ed esclusivamente a se stesso fregandosene dell’altro. L’umanità non progredirebbe né arretrerebbe; si esaurirebbe nel giro di poche generazioni, certo, ma sarebbe l’unica fine dignitosa. Io sono Cristo al rovescio. Cristo a capofitto.

11. Quest’oggi ho lottato per tutto il giorno con una tentazione maligna: distruggere questi fogli, strapparli, bruciarli. Mi sveglio, mi alzo dal letto, lo sguardo mi cade su questi rifiuti e provo subito una profonda avversione nei loro confronti. Tento di non farci caso, ma l’avversione aumenta, ogni ora di più, e diviene feroce oltreché profonda. Afferro il quaderno, lo stringo con forza, lo tiro quasi saggiandone la resistenza… mi fermo. Non ho distrutto un solo foglio. Nel momento di massima tensione rabbiosa, mi ha trattenuto la consapevolezza del rimpianto che avrei provato domani se avessi strappato e bruciato i miei rifiuti. Sono tutto quello che resta del mio passaggio su questa povera terra, ma, soprattutto, uno scrittore solo in casi limite decide di ammazzare i propri figli: o quando è sull’orlo della pazzia, o quando ha deciso di ammazzare, oltre ai suoi figli, anche se stesso. Un’altra possibilità è rappresentata dalla certezza di avere un salvagente, ovvero un’altra opera cui dedicarsi dopo la distruzione della precedente, tornando a celebrare la vita – la malattia della vita – dopo aver celebrato la morte – la cura della morte -. Ma io, ahimè, non sto per impazzire – sarò maledettamente ben presente e me stesso fino all’ultimissimo istante – né per morire, e non sono che un demiurgo castrato, dimezzato, precocemente pensionato, privato dunque del suo genio creatore. Questi fogli miseri e senza avvenire sono tutto ciò che mi resta, l’ultimo legame con una possibilità d’esistenza che mi è stata negata, e dietro alla quale non corro più, non mi affanno più, rassegnato alla mia insufficienza, alla mia mediocrità.

12. La penna, in apparenza un oggetto innocuo, oramai persino superato, obsoleto, soppiantato dalla tastiera – gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera, scrisse Carlo nel 1910 profetizzando l’avvento del regno del silenzio -. In realtà, negli scrittori migliori, nei Grandi, la penna ha la potenza di una trivella, che scava nella profondità dell’uomo, dunque del mondo – perché fin quando il mondo sarà abitato anche da un solo uomo le due cose coincideranno -, fino a raggiungere il fondo. Un fondo buio e umido, regno del brutto, dell’incubo, dell’ingiusto. Lo scrittore scava come un minatore dentro se stesso e dentro i suoi simili, scoprendovi tutte quelle brutalità e tutte quelle miserie che costituiscono le fondamenta dell’uomo, di ogni uomo, per quanto ci si possa illudere del contrario indossando abiti splendidi e fasulli, sovrastrutture positive che un giorno o l’altro collasseranno su se stesse. Perché le fondamenta umane, fatte di brutalità e di miseria, possono sostenere davvero solo ciò che da esse direttamente deriva: il Male, in una sola, semplice parola. È il demonio il nostro vero dio, l’altro, quello benevolo e misericordioso, ma comunque pur sempre vendicativo e cattivo, com’egli stesso si definisce, non è che un inconsistente sogno, un desiderio e niente di più. Ogni attenzione riservata al prossimo non è che una goffa ipocrisia, il maldestro tentativo di rinnegare la nostra vera, autentica, profonda essenza. Possiamo illuderci d’essere Cristi impegnati nel loro Calvario, trascinanti croci enormi e pesanti simboli di redenzione, ma in fondo resteremo sempre Caini divorati dall’angoscia che sfogano le loro frustrazioni sui loro fratelli, massacrandoli con ferocia fino ad ammazzarli. L’infantile corredo di favolette ricamato nel corso dei secoli non ci salverà dal nostro destino segnato: l’estinzione.

13. Desidero la morte di un uomo che odio nel profondo, ma non ho il coraggio di ucciderlo, di sporcarmi le mani e pagare, trasformando questo desiderio in realtà – e basterebbe così poco! -. Me ne sto comunque tranquillo, perché so che in qualche parte del mondo un assassino, in questo preciso momento, sta ammazzando anche per me. Grazie.

14. Ogni pagina di questo manoscritto è un salasso, perché l’inchiostro è il mio sangue. Inchiostro nero mi scorre nelle vene. Me le squarcio con un taglio netto, in verticale, rigorosamente. Ne escono fuori queste pagine.

15. A volte ho davvero il sospetto che il mio unico posto in questo mondo sia il carcere. Vi fornisco io stesso il capo d’imputazione: trent’anni di latitanza dal lavoro come voi lo intendete, ovvero insensato rapporto di produttivismo e consumismo. Sono stato perfettamente inutile per tutti voi in questi miei primi trent’anni di vita: la mia più grande soddisfazione.

16. Non ha affatto importanza la proposta o meno di un’alternativa. Una sola cosa conta davvero: opporsi al mondo, dichiarargli guerra e non tornare mai indietro, non cedere mai ai compromessi. Mai. Ognuno poi è libero di scegliere l’arma che più gli si confà: l’indifferenza o la bomba.

17. Vi guardo negli occhi, uno ad uno, e vi domando: chi di voi ha il coraggio, o meglio, la sfacciataggine di definirsi libero? La libertà non è altro che una menzogna, un’illusione, una favoletta. Non appena viene strappato dal grembo materno, sempre contro la propria volontà, l’uomo viene costretto, compresso, intrappolato in una camicia di forza che lo accompagnerà fino all’ultimo dei suoi giorni, e che contribuirà a condurlo all’ultimo dei suoi giorni. Perché è duplice la forza che rende schiavo il neonato e che poi si protrarrà per tutta la sua vita: non solo il mondo, con le sue leggi e le sue costituzioni, con i suoi doveri che non valgono un solo diritto, con le sue convenzioni sociali, i suoi obblighi ipocriti e via dicendo, ma anche la natura e tutti gli innumerevoli fastidi che si trascina dietro. Siete voi liberi, dunque? Solo un essere può definirsi libero senza passare per uno stolto: il pazzo. Il pazzo è il vero libero, non il multimilionario; il pazzo è il vero libero, non il vagabondo che ha rifiutato i beni e si è messo sulla strada. E solo il pazzo ha la vera salute.

18. L’Italia non esiste. L’Italia non è che un’astratta invenzione politica, una narrazione. Una terra desolata frantumata da innumerevoli particolarismi, in cui si è stranieri all’interno delle proprie città, da un quartiere all’altro. Parlare di integrazione in un contesto simile è una gigantesca scemenza.

19. Come l’uomo primitivo, nudo, spaesato, puro per paura della natura si rifugiava in se stesso, così io mi rifugio in me stesso al cospetto di un mondo che degli uomini divora lo spirito e la coscienza, riducendoli a meri contenitori di necessità fasulle, superflue, apparenti. E dello spirito e della coscienza mi faccio vagabondo, sulla strada tortuosa e impervia del sapere, strada abbandonata, segnata da pietre miliari che giacciono ai bordi come lapidi abbandonate, aggredite dalla vegetazione e crepate. Durante il mio cammino ad ognuna di queste pietre miliari dedico attenzione e cura, ripulendole, riscoprendole, custodendo le loro verità eterne, eternamente valide nonostante l’abbandono e il dominio incontrastato dell’ignoranza. Mi dedico loro secondo quanto permesso dalle mie modeste possibilità, resistendo nel loro nome a quella incessante forza di omologazione, di svalutazione, di minorizzazione che ormai muove il mondo e i suoi ridicoli bipedi non più vivi, ma vissuti.

20. Il vero scrittore non è quello che afferra la penna con garbo e delicatezza, ma quello che la afferra con forza e con odio, come un martello, e come un fabbro con il martello aggredisce l’incudine egli aggredisce la carta. La scrittura è un mestiere fisico ed energico, che non si fa sorridendo ma schiumando rabbia, come tutti i veri mestieri, fatti per costrizione e non per piacere. L’attività che provoca piacere non è un mestiere, ma un frivolo passatempo. Per questo a volte mi ferisce nel profondo che il mio lavoro non venga non dico apprezzato – me ne frego degli apprezzamenti, anzi, io non voglio essere apprezzato -, ma riconosciuto, considerato come tale. Devo fermarmi, perché mi fa male la mano, talmente forte ho battuto la penna su questo povero pezzo di carta. Ma io neppure scrivo, io le mie parole le incido sulla carta. E oltreché sulla carta s’incidono sul legno della scrivania, sfregiata come una vecchia panchina di periferia.

21. Nei vostri limitati cervelletti di plastica non immaginate quante volte sia molto più dignitoso dare alla donna della puttana piuttosto che della massaia. Se ne avete il coraggio, una sera, passando per una strada costellata di puttane, impalate ai cigli come se ne fossero contente, come se lo volessero, fermatevi, fatene salire una in macchina, pagatela e appartatevi, ma solo per parlare dieci minuti con lei, per farvi raccontare la sua storia. Solo allora potrete comprendermi. Non prima.

22. Questa mattina mi sono svegliato con un’immagine nella testa, che mi ha accompagnato per l’intera giornata: l’immagine dell’imponente, petrosa, spigolosa, carsica Madonna di Fontana conservata nei Musei Vaticani. Una delle opere più incredibili che io abbia mai ammirato dal vivo. Ricordo che ad avermi colpito è stata la sua carica barbarica. Da quella maestosa e sgraziata statua trasuda un fascino primordiale, e osservandola viene voglia di scalarla come la parete di una montagna. Ma la sua consistenza è inospitale come il volto brullo, scabro, scarno, sterile dell’Etna. Entrambe conservano all’interno forze ingestibili e distruttive: la forza della natura il vulcano, la forza del genio creativo la statua. Eppure il visitatore medio dei Musei Vaticani, diretto alle Stanze di Raffaello e alla Cappella Sistina, la degna appena di uno sguardo indifferente, procedendo spedito oltre. Come il visitatore medio dell’Orangerie dedica tutte le proprie attenzioni alle inutili Ninfee di Monet e trascura la sala dedicata a Soutine. Del resto le prime sono carezze, la seconda è una coltellata in pieno ventre. Le Ninfee non generano parole, perché non trasmettono niente, superficiali come sono – il trionfo della superficialità nell’arte! -, mentre le tele di Soutine strappano bestemmie. E l’ultima sala dell’Orangerie trema ancora del mio grido blasfemo. Impressionismo vs Espressionismo del resto, sonno vs rivolta, modernità vs preistoria, voi tutti vs me stesso.

23. Continuare a chinare la testa, sì, ma non su un foglio, bensì su un campo, donando tutto me stesso alla terra, la mia forza, la mia energia, il mio sudore, il mio sangue: a volte non desidero altro. La fatica contadina, l’incomparabile fatica contadina – perché niente è più basso della terra -, lo prosciuga un uomo, lo esaurisce ogni giorno, e io ho bisogno di prosciugarmi, di esaurirmi, arrivando al punto di rinunciare alla scrittura perché privo della forza di stringere persino una penna. Orto uomo morto recita un antico proverbio, e non è questo che desidero? Attraverso la fatica all’indifferenza e alla rassegnazione.

24. Un uomo, magari più grosso di voi, vi minaccia, vi aggredisce verbalmente e sembra ormai intenzionato ad aggredirvi anche fisicamente, si avvicina, cerca il contatto. Voi stringete le labbra, serrate i pugni, vi preparate alla lotta – a meno che tra di voi, certo, non ci sia un genio così vigliacco da darsi alla fuga -. È tutto pronto, il vostro nemico alza le mani, voi vi preparate a reagire… Anch’io, tempo fa, avrei commesso il vostro stesso errore, avrei reagito, combattuto. Da ragazzo ho inseguito un mio aggressore per centinaia e centinaia di metri per ricambiargli un pugno. Un energumeno vi minaccia, vi insulta? Restate impassibili. La vostra indifferenza lo riscalda, lo esaspera, si avvicina… voi ridetegli in faccia! Lo farete sentire ridicolo come mai nella sua inutile esistenza. Lui è disperato e vi colpisce con un pugno ben assestato in pieno volto. Barcollate, sanguinate… e ridete ancora più forte! Con il fragore delle vostre risate soffocate il dolore fisico. E anche se vi dovessero massacrare, ridurre in fin di vita, non smettete mai di ridere! Il mio Controdolore.

25. Se avete un contrasto aspro con un vostro simile, per avere una soddisfazione piena e riportare una grande, indiscutibile vittoria, non cercate mai il confronto fisico, per nessun motivo. Nella lotta, ciò che fa la differenza, più che la stazza, è la quantità di veleno che si ha in corpo, e non potete sapere, non potete avere la certezza di essere più avvelenati del vostro avversario – a meno che davanti a voi non abbiate lo stupratore o l’assassino di vostra figlia, naturalmente -. Non dovete aggredire il suo corpo, ma i suoi beni, dovete farvi ladro e teppista, rubargli quanto più denaro possibile o bruciargli l’auto. Ovviamente tutti questi suggerimenti vanno a farsi fottere se siete un pugile.

26. Mi strappo con violenza, fregandomene di lasciare sulle catene arrugginite brandelli di carne, dalla prigione della contingenza. Evado! Spalanco le braccia dimagrate dalla prigionia, Cristo precocemente calvo, e schizzo lontano, lontano da me stesso e dalla mia insufficienza – mi volto, la vedo dimenarsi come un verme schiacciato -. Un nome m’illumina: il nome d’una mitica donatrice d’amore – me lo tengo per me, non lo prostituisco -. Il corpo sinuoso, il volto nascosto da un mazzo di fiori di campo. Dura un attimo. Mi ritrovo nella cella, di nuovo incatenato, di nuovo nello stomaco il verme solitario dell’insufficienza che divora, senza saziarsene mai, le ambizioni offese. Di nuovo in apnea, respirando a fatica e pregando il Caso che ponga fine presto a questa agonia, il capo chino, spezzato, reciso dal corpo spigoloso, scarabocchio d’un disegnatore senza talento.

27. Sono certo che uno dei più ardenti desideri della stragrande maggioranza degli uomini che, come me, non arrivano al metro e settanta, sia quello di avere almeno dieci centimetri in più. Venderebbero l’anima al diavolo per questi dieci centimetri. E confesso che anch’io spesso mi sono ritrovato a desiderare questi dieci centimetri, nella convinzione che con questi dieci centimetri in più avrei potuto conquistare il mondo. Ma, ancora più spesso, mi sono crucciato di non essere affetto da nanismo. Qualcuno penserà che io mi stia prendendo gioco di voi, ma sono sincero, ve l’assicuro. Magari fossi nato nano, magari con una bella gobba per giunta! Nessuno si sarebbe aspettato niente da me, mi avrebbero lasciato sopravvivere in santa pace. E poi un nano non ha bisogno di versare inutili parole, il suo aspetto dice già tutto.

28. Io ho distrutto tutto. Ho fatto tabula rasa di tutti gli dei e di tutte le leggi, ovvero di tutte le superstizioni e di tutti i luoghi comuni. Ho reso deserti i cieli e tutte le terre del mondo, sterminando l’intera umanità in un grandioso autodafé. Sono rimasto solo, solo tra le macerie. Non ho risparmiato niente e nessuno. Ai miei occhi la terra non è che un cumulo di rovine e di cenere. Ho liberato l’universo della nostra presenza infestante e olezzante. E ho fatto tutto questo restando fermo, senza muovere neppure un dito. La consapevolezza concede certi vantaggi. Qualcuno ha abbozzato una resistenza, ma ha dovuto cedere presto al mio sguardo implacabile, freddo, specchio di quel Nulla nel nome del quale perpetravo la mia distruzione. Ora posso riposarmi e attendere serenamente la fine, in cui scomparirà con me anche quel poco che resta, per non ricomparire mai più. Io sono l’ultimo.

29. Basterebbe così poco… e mi trastullo con questa semplicità come un bambino con il suo giocattolo preferito, ridendo di me stesso. La possibilità di uccidermi qui e ora, mi consegna ad uno stato di mezza-morte simile all’ebbrezza e all’orgasmo. Ho nelle mani il potere di annientare me stesso dunque tutto quello che mi circonda, il mondo intero e i suoi miliardi d’inutili abitanti. Provo una sensazione soddisfacente e insieme maligna. Potrei, se solo lo volessi… qui e ora… ma preferisco prendermi gioco di me stesso, umiliare me stesso, provare a vincere me stesso. M’incammino verso l’indifferenza e la rassegnazione cosmiche, e quando arriverò alla meta tutto verrà cancellato, anche questa viltà che mi costringe ad uno stato mezzo superiore a quello della stragrande maggioranza degli uomini, certo, ma inferiore alla mia consapevolezza. Ma sono in cammino, e per quante fatiche, sofferenze, malesseri mi costerà, io raggiungerò la meta, l’ultimo, supremo stadio umano, laddove il Nulla si fa miracolosamente tangibile e non esiste più alcuna differenza tra vivere e morire. Là il mio nichilismo diverrà ultra-nichilismo e io sarò davvero Uno, Solo, Sufficiente, Morto.

30. La dittatura della maggioranza non è una patologia della democrazia, ma l’essenza della democrazia. Un governo democratico imporrà sempre se stesso su almeno un individuo in disaccordo, e, fin quando esisterà quest’unico individuo in disaccordo, il governo democratico sarà una dittatura della maggioranza.

31. Solo chi è morto ha ragione.

32. – Tu critichi tutto, tu polemizzi sempre su tutto, ma cosa proponi in alternativa?
– La sola cosa che conta è opporsi, non ciò nel nome di cui ci si oppone. Del resto, io mi oppongo nel nome di nessuno e per niente, senza porre un ideale alternativo sul piedistallo. Io non ho ideali, io sono l’anti-idealista, io sono impolitico. Io sono solo io e so di quel Nulla che è il termine primo e ultimo d’ogni umana esistenza.
– Allora ti opponi in nome di questo fantomatico Nulla?
Sono io il mio per chi. Dell’umanità m’interessa come del campionato italiano di bocce o di tamburello: Nulla. L’umanità potrebbe strapparmi un briciolo d’interesse solo se riuscisse a sterminarsi senza coinvolgermi.

33. Rifletteteci per un istante. Per un istante nella vostra vita soffermatevi a riflettere – noi tutti abbiamo un cervello, che diamine -. Come può essere definita se non assurda una forma di governo che dà ragione alla maggioranza? Per quale misterioso motivo il parere o la volontà della maggioranza dovrebbero essere meno nocivi del parere o della volontà della minoranza o del singolo? Ogni forma di governo è una dittatura: dittatura dell’uno sui molti, dittatura dei molti sull’uno e via dicendo. Governo e dittatura sono una cosa sola: liberandoci dell’uno ci libereremo dell’altra. Ma in fondo non m’interessa, finché la dittatura democratica non mi ostacola. Fate pure ciò che volete, ma non danneggiate me: ecco tutto.

34. Ieri sera, dopo diverso tempo, ho rivisto Lei: Elena. Per la prima volta ho provato angoscia. Devo combattere con me stesso per staccarle lo sguardo di dosso. Eppure il mio sguardo non è come quello di tutti gli altri uomini che la incontrano: uno sguardo lascivo, sporco, che la spoglia di quegli abiti eleganti con motivi floreali che sempre indossa. Il mio è piuttosto uno sguardo implorante, lo sguardo del fedele rivolto ad una statua della Madonna mentre la prega di donargli una grazia. E anch’io ad Elena chiedo in dono una grazia: la grazia di apparirmi sempre quelle rare volte che varco la soglia del portone di casa per bere una birra con gli amici. A differenza dei miei simili io non bramo il suo corpo, ma solo la sua presenza, dopo aver scoperto la sua miracolosa esistenza. Ogni volta che la vedo, prego sempre che sia io ad andare via prima di Lei: per non precipitare in quel vuoto che immediatamente si spalanca sotto di me dopo la sua sparizione. Spesso mi domando cosa sarei disposto a fare per Lei. Mi rifiuto di dare una risposta, scacciando via a pedate queste sciocchezze e sforzandomi di gioire della sola consapevolezza della sua esistenza. Dentro di me ho eretto a Lei il più bel tempio che sia mai stato costruito da un uomo: maestoso, molto più maestoso di me, immenso, ad ogni parete un suo grande ritratto. Ritratti per i quali ho scomodato i più grandi pittori della storia dell’Arte, li ho resuscitati, convincendoli a rinunciare ad un solo istante del riposo eterno mostrando loro la sua immagine che ho fissato nella mia memoria: ancor più perfetta di quanto Lei sia. Io ho salvato Elena, l’ho privata della fragile condizione umana nella quale era imprigionata e consegnata all’Immortalità divina. Io ho eternato Elena, grazie a me non è più solo una donna, ma un’Idea, la suprema Idea di Bellezza e Amore. E il fatto che Lei ignori tutto questo, che non possa neanche lontanamente immaginare tutto questo – perché se anche dovesse notarmi, la mia figura modesta non potrebbe trasmetterle neppure una piccola, piccolissima parte di tutto questo -, rende tutto questo immune alla ferocia della realtà. Rido rileggendo queste righe, rido di me stesso e voi, se potete, ridete ancora più forte! Seppellitemi sotto le vostre risate, seppellite un uomo ridicolo che nel niente s’appiglia a sciocchi vaneggiamenti ch’egli stesso, in fondo, disprezza.

35. Quest’oggi, proprio quest’oggi, nell’aula di archeologia della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma La Sapienza, si è deciso parte del mio destino. Non voglio dire nulla, perché, è vero, sono troppo istruito per essere superstizioso, ma sono superstizioso, citando l’uomo-topo, mio odiato fratello. Mi limito solo ad annotare come io, proprio io, e nessun altro, abbia deciso il destino di molti, anzi, di tutti i candidati, perché il Caso ha scelto me come mezzo, ed io ne sono stato onorato. Io ho scelto la busta con le tracce da svolgere, la numero due delle tre, semplicemente perché tra questi numeri il due è quello che ho indossato più volte nella mia carriera calcistica. Chissà quante maledizioni mi sono piovute addosso alla lettura delle tracce contenute nelle altre due buste! Ne ho goduto, quale braccio armato del Caso mi sono sentito invincibile e, aspetto nient’affatto secondario, non ho maledetto me stesso. Si prova un piacere tutto particolare facendo del male ai propri simili – in questo caso pure concorrenti! – senza sporcarsi le mani, restando innocenti come bambini.

36. La poesia è giovinezza. E solamente colui che riesce a mantenere viva la fiamma della propria giovinezza può continuare a scrivere versi scampando alla dittatura del tempo dunque della prosa. Ma io sono vittima di un invecchiamento precoce. Ho smesso di scrivere versacci molto tempo fa. Di tanto in tanto provo a riadottare la forma poetica, ma la mia mano stanca, vecchia, decrepita, da novantenne, finisce sempre per dilungarsi, adagiarsi, rilassarsi, sdraiarsi sull’intera riga, spaventata dai salti improvvisi, mortali previsti dalla versificazione. Eppure ho avuto a che fare con autori che, distrutta la loro giovinezza, si sforzano di scrivere poesia: sono ridicoli come quel vecchio-falso-giovane che Aschenbach incontra sul battello per Venezia. Ridicoli e disgustosi.

37. Questa notte ho sognato di scrivere un romanzo dal titolo: Come pesci fuor d’acqua. Lo scrivevo e al tempo stesso lo vivevo. Ricordo con particolare chiarezza la relazione del protagonista – più giovane di me, poco più che ventenne – con una donna: due esclusi, due esiliati che s’incontrano e condividono le loro solitudini.

38. Un capolavoro artistico-letterario dovrebbe essere considerato come la giustificazione della nostra esistenza: il genio che lo ha creato giustifica la vita di chi si imbatte in esso, di chi lo studia, ma anche semplicemente di chi lo ammira, di chi lo ascolta, di chi lo legge. Il creatore d’arte nobilita il genere umano, lo rende meno misero, meno inutile. Ma il genere umano merita i suoi creatori d’arte?

39. Il nichilista è colui che, consapevole dell’insensatezza della vita e dunque della vanità del tutto, sviluppa dentro di sé quel sentimento tipicamente medievale di contemptus mundi, ovvero disprezzo del mondo, ma svincolato ovviamente da quella componente ultraterrena e trascendentale caratteristica del Medioevo. Il nichilista si trova dunque in una condizione terribile, in cui di fatto ogni giorno è un compromesso, che può divenire in alcuni casi insostenibile e quindi portare all’autodistruzione, al suicidio. L’ultra-nichilista compie un ulteriore passo in avanti, l’ultimo passo, quello definitivo, oltre il quale è quel Nulla che egli sa e vede con spaventosa chiarezza: al disprezzo sostituisce l’indifferenza. Un’indifferenza ideale, cosmica, incomprensibile, inconcepibile per la stragrande maggioranza dell’umanità. Ecco che tutto collassa, tutto si distrugge. Non esiste più niente. Tra vivere e morire non c’è più alcuna differenza.

40. Ieri sera, proprio un istante prima di prendere sonno, ha visitato la mia mente arresa, in balia delle più assurde bestialità, un’ideuccia ridicola, che provo quasi vergogna incidendola sulla carta: fare dono ad Elena, in forma del tutto anonima ovviamente, di un piccolo omaggio floreale, facendoglielo recapitare a lavoro, accompagnato da poche parole: «Cara Francesca, questo modesto omaggio solo per informarti dell’esistenza di un uomo che, catturato dalla tua incomparabile bellezza, dentro di sé ti ha innalzato un tempio come mai se ne sono visti nella storia del genere umano, capace di vincere le sette meraviglie del mondo antico e moderno. Scoprirti è stata una delle poche, pochissime gioie della mia vita, ed ogni giorno rendo grazie al Caso per avermi fatto dono di questa fortuna. Spero che il mio anonimato contribuisca a convincerti della sincerità delle mie parole, sciocche, lo so, insignificanti al cospetto dell’ineguagliabile grandezza della donna che le ha ispirate». Sarebbe un modo per avere a che fare con Lei fisicamente, materialmente, creando inoltre nel suo cuore, forse, il mito di un uomo d’altri tempi, che non esiste e che non conoscerà mai. Intanto mi limito a giocherellare con la possibilità di mettere in pratica quest’ideuccia ridicola. Perché in fondo la consapevolezza mi ha reso un uomo delle possibilità, che sa accontentarsi di ciò che potrebbe fare, ma che non fa.

41. Iacopone da Todi ma senza la fede: è qualcosa di molto simile a questo il nichilista, disprezzatore di se stesso e del mondo. Il goethiano Mefistofele è invece l’emblema dell’ultra-nichilista, e il fatto che si tratti di un personaggio letterario e non storico, la dice lunga sulla difficoltà dell’approdo all’ultra-nichilismo. Io potrò essere il primo.

42. Penso ad Elena e mi dico che, in fondo, va bene così, anzi, non potrebbe andare meglio di così. Perché so che se avessi la possibilità di parlare con Lei dieci minuti resterei deluso, scoprendo in Elena nient’altro che una donna come tutte le altre. La soddisfazione di un desiderio non può mai essere davvero soddisfacente. Niente può essere come lo abbiamo immaginato. Il nostro desiderio ha creato una nuova realtà, che non esiste.

43. E scrivo, scrivo, scrivo… rigurgito litri e litri d’inchiostro… Sto solamente tentando di seppellirmi sotto un cumulo di parole.

44. Non siamo che oggetti l’uno per l’altro. Ci utilizziamo e poi, quando non ci serviamo più, ci gettiamo via. La vita è prostituzione.

45. Dileggiare e sminuire ciò che non si conosce e non si comprende è il più evidente sintomo d’ignoranza. Dell’ignoranza più becera e nociva, più disgustosa.

46. Il mio pensiero, o meglio, non-pensiero, dunque io stesso, è/sono il frutto della vittoria del Male sul Bene, come li ha fissati Dostoevskij, perché è dalle opere di Dostoevskij che nasco: Raskol’nikov non viene redento da Sonja e non confessa il duplice omicidio, i demòni continuano a spargere il terrore, Ivan Karamazov schiaccia Zosima e ammalia Aleksej. Fëdor, mio caro Fëdor, nella tua vita hai sempre rischiato, sempre. Con me hai perso.

47. Quando un uomo arriva a disprezzare se stesso a tal punto da non ritenersi all’altezza neppure di una prostituta, beh, allora significa che in quest’uomo sta accadendo qualcosa di davvero straordinario: sta per ricevere le stimmate.

48. Prima di attentare al mondo bisogna attentare a se stessi, piazzare gli ordigni rudimentali nel proprio cervello per far saltare in aria tutte le sovrastrutture, per far sì che la rivoluzione – ovvero la distruzione di un ordine nel nome di un nuovo ordine – divenga ribellione – ovvero la distruzione di un ordine nel nome del niente -.

49. La scorsa settimana un uomo di trentadue anni – l’età dell’uomo senza qualità – si è tolto la vita impiccandosi nel bosco di Foglino, a poche centinaia di metri da casa mia. Sebbene dubiti fortemente ch’egli abbia conferito all’estremo gesto il suo giusto, esatto peso filosofico e morale, provo comunque una grande ammirazione nei suoi confronti. Lui ha trovato quella forza e quel coraggio che non ho mai trovato in me stesso. Ovviamente si spiega il suicidio di quest’uomo ricorrendo al salvagente della depressione: possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo. Ho sentito persino qualcuno esclamare: – meglio così, s’è ammazzato senza toccare la moglie e il figlio. Mi domando con quale diritto la “stampa” diffonda pubblicamente la notizia di simili scelte, così intime, così private. Si tratta della più vomitevole forma di pettegolezzo, quel pettegolezzo al quale Pavese dedica il suo ultimo pensiero. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di sparlare di quest’uomo, di giudicare la sua decisione di togliersi la vita. Lui è stato più forte e più coraggioso di tutti noi, che sopravviviamo insensatamente biasimando chi di questa inutile e sciocca sopravvivenza ne ha abbastanza. Il figlio dovrà essere orgoglioso di suo padre, migliore di noi tutti. In pochi istanti e in pochi gesti ci ha smascherati e svergognati, tutti.

50. Io sento ancora addosso tutto il peso insostenibile di questa malattia mortale che è la vita. Ma ho deciso di incamminarmi verso la leggerezza, ovvero l’indifferenza, verso quella salute apparente che oltre all’ultra-nichilista solo il pazzo conosce. Arriverò alla meta? Raggiungerò l’ambito traguardo? Sarò davvero il primo uomo? Ma il primo passo consiste proprio nell’eliminare tutte le domande, nell’uccidere i punti interrogativi: arriverò alla meta, raggiungerò l’ambito traguardo, sarò davvero il primo uomo. Quando poi il futuro diverrà presente, allora sarò davvero giunto. Immune alle contingenze, sarò niente.

51. Un cumulo di macerie: questo è il mondo per l’uomo consapevole dell’insensatezza della vita, il nichilista. Un’immensa, sterminata fossa comune l’umanità inconsapevole. Perché nel momento stesso in cui il nichilista diviene completamente tale, un terremoto devastante sconquassa la terra, la rivolta, e un’epidemia incurabile stermina il genere umano. Egli si ritrova solo, unico nella devastazione ch’egli stesso ha generato. Ma non è finita qui, perché egli inizia ora a concentrarsi esclusivamente su se stesso, a lavorare su se stesso, animato da un profondo auto-disprezzo. Allora diverse vie trova aperte dinanzi a sé: la via della ricostruzione, ed ecco che egli non è più un nichilista, la via della morte – il suicidio -, perché per lui non resta più niente da fare – come il nostro Dio si sarebbe ucciso dopo la creazione se fosse davvero esistito -, la via della rassegnazione e dell’indifferenza, ovvero dell’ultra-nichilismo, dove tra vivere e morire non esiste più alcuna differenza.

52. Ho uno sguardo randagio e affamato come il protagonista di Fame di Hamsun. E come l’affamato hamsuniano non riesce a rigurgitare neppure quella poca carne cruda attaccata all’osso elemosinato per il suo fantomatico cane, vomitandola subito, il mio sguardo non riesce a rigurgitare ciò su cui si posa. Il mondo è altro da me. Io sono precipitato in un altrove in cui lo sguardo non serve perché tutto è niente. Ovunque piovono le tenebre dal sole nero, centro d’una galassia abortita idea incompleta d’un dio evirato. Calano le tenebre come vernice e mi ricoprono, mi avvolgono, mi assimilano, mi fagocitano. Oh misericordiosa madama Morte strappami da questa condizione di mezza-morte in un ultimo amplesso d’odio che trascini con sé nel Nulla imperituro tutto ciò che gli uomini s’illudono sia tutto ma che non è che un fuoco di paglia effimero, insensato, inutile, ridicolo.

53. Come posso interessarmi del mondo e degli uomini se ho distrutto il mondo e sterminato tutti gli uomini? Io m’interesso solo di quel poco scampato alla devastazione: pochi libri la cui esistenza vale più dell’esistenza di tutto il genere umano. Non chiedetemi altro perché non so fare altro. E molto probabilmente non so fare neanche questo. Molto probabilmente non sono che un inutile disperato, che s’illude d’essere ciò che in realtà non è e non sarà mai.

54. Un uomo nasce, sopravvive per qualche anno, trascinandosi la sua inutile carcassa ogni giorno con maggiore fatica, e infine muore. È tutto, non c’è altro. Eppure l’uomo nella sua storia non ha fatto altro che arricchire e abbellire questo quadro meschino. Ma solo quando si rassegnerà alla propria miseria, alla propria insignificanza forse l’uomo conoscerà un briciolo di gioia autentica. Sarebbe il preludio all’estinzione, certo, ma non conosco altra fine dignitosa e indolore.

55. Al cospetto di un professore o di uno scienziato, non mi sentirò mai così ignorante come al cospetto di un contadino. La sapienza terragna è la sapienza suprema. La mia Minerva non impugna una lancia ma una zappa.

56. Tempo di vendemmia: piovono moscerini. Insetti dall’esistenza effimera, che s’esaurisce nel giro di poche ore. Non più effimera della nostra d’esistenza, ben più lunga ma non per questo meno inutile ed insensata. Alla sera s’accalcano attorno alle poche luci superstiti, s’ustionano, precipitano, rantolano, muoiono. Alla mattina la veranda è una distesa di cadaveri: faremo la stessa fine. E sorrido al pensiero che tra questi moscerini deceduti e spazzati via con un colpo di scopa e i cosiddetti potenti e ricchi non c’è alcuna differenza. In questo sorriso appena accennato, quasi un ghigno, sta tutta la mia modesta vendetta. Per la salvezza d’un uomo non farei di più di ciò che faccio per la salvezza di questi insetti: niente. Intanto Bakunin implacabile sgranocchia anch’essi.

57. A pensarci fa spavento quanto questo benedetto paese sia culturalmente precipitato in basso. E precipita sempre più giù, ogni giorno di più. La classe politica italiana, e soprattutto gli attuali governanti, è/sono la vivida manifestazione di questo sfacelo culturale: ogni paese ha il governo che si merita. Un letterato di ventinove anni non può che essere disperato in un paese governato da S. e D.M. (non voglio dare loro neppure la soddisfazione di sentirsi chiamare per nome). Perché, d’accordo, io li ho ammazzati da tempo, li ho trucidati e ho trucidato con loro tutti i loro elettori, ma poi si è costretti a fare i conti con la realtà ed ecco che la tentazione di scomparire raggiunge picchi d’intensità eccezionali. Avanzo una proposta: visto che dei nostri beni culturali non ce ne curiamo come dovremmo (potremmo compare tutti di rendita grazie ad essi, altro che reddito di cittadinanza), perché non abbandonarli del tutto? Perché non lasciare che il tempo faccia il suo corso e consegnare ai posteri un’immagine, un panorama degno della nostra epoca, un cumulo di macerie?

58. Ogni singola frase dell’Unico di Stirner è un’offesa, uno schiaffo. Il libro più violento e distruttivo dell’intera storia del genere umano, modello per tutti coloro i quali rifiutano il mondo così come gli viene consegnato alla nascita e fanno della ribellione la loro ragione di vita, partigiani di se stessi nella dittatura dell’omologazione e della spersonalizzazione. Oggi più di ieri.

59. Solitamente un uomo salta fuori dal Nulla e, con la morte, torna nel Nulla. A me è successo di peggio: non solo sono saltato fuori dal Nulla e tornerò nel Nulla, ma addirittura lo vivo il Nulla! Quale onore!

60. Questa notte con le mie labbra ho percorso l’intero, lungo corpo di Elena, dalla testa ai piedi. Mi sono cibato delle sue carni lievemente abbronzate ed i suoi gemiti discreti hanno composto una sinfonia di piacere capace di rivaleggiare con la Nona di Beethoven. Con i miei baci ed i miei morsi delicati l’ho irretita, fatta mia, come un ragno fa sua la preda caduta fatalmente nella trappola della ragnatela, e che importa – che importa! – se ciò sia accaduto solo in sogno e non nella realtà? Nel sogno tutto è andato come doveva andare, come sogno che vada, mentre nella realtà, a prescindere dal fatto che un tale miracolo non potrebbe mai accadere, qualcosa finirebbe per andare storto, e ci ritroveremmo delusi, entrambi, Elena ed io, il suo amante cosmico: l’amante che ha sempre sognato e che non conoscerà mai, prigioniero della sua triste figura. Intanto sono riuscito a scovare un paio di sue fotografie, che porto sempre con me, insieme ai ritratti di Dostoevskij e di Baudelaire. In questi pochi scatti rubati è tutta la mia vita: un’aspirazione inesausta.

61. Fatico a comprendere lo stupore dell’uomo alla scoperta dell’attualità, diciamo così, di uomini vissuti migliaia e migliaia d’anni addietro. Perché l’uomo è lo stesso, sempre lo stesso, in ogni tempo e in ogni luogo: egualmente misero e limitatamente umano, ovvero superstizioso, violento, lupo per i suoi simili. L’archeologia non fa che confermare questa regola. L’evoluzione è terminata nel momento stesso in cui l’uomo è divenuto completamente tale, da allora in poi è sempre la stessa storia, sempre la stessa ridicola e dozzinale farsa.

62. Mia nonna: – Basta parlare del passato, il passato non esiste.
Suo figlio, ovvero mio zio: – Mamma, il passato è la nostra vita.
Ancora mia nonna: – Ma dov’è?

63. È il mondo a non essere alla mia altezza, non il contrario.

64. Piove sangue. Dalle nuvole nere che stritolano il cielo piove sangue, grossi grumi di sangue rappreso come se lassù avessero appeso e animato il Cristo coronato di spine di Beato Angelico. Ogni istante un tonfo e schizzi vermigli che imbrattano la campagna. Sangue, sangue ovunque. Una strage premeditata – ma da chi? Anche se lo sapessi non ve lo direi. Appesantiti dal sangue gli uccelli faticano a volare, sbandano, si schiantano, contro i muri scalcinati, contro i tronchi dei fichi spogliati: altro sangue. Ma bianche restano le corde penzolanti sui rami scarnificati dei suicidi, il sangue le colpisce ma non attacca, scivola a terra: pozze vermiglie. Tornerà il sole e allora solidificherà, rapprenderà tutto questo sangue colorandolo di nero. Allora torneremo fuori e cammineremo incerti, equilibristi inesperti su questo sangue rappreso, duro, come il ghiaccio, certi di cadere e di sprofondare nel sangue. Per non risorgere mai più.

65. Come Kirillov, l’unico ingegnere che io stimi davvero, percorro chilometri e chilometri nella mia stanza affumicata. E non perché io vi fumi – non mi è permesso -, ma perché quelle tre o quattro idee superstiti nel mio cervello non trovano altro di meglio da fare che darsi fuoco.

66. Solo se immune al virus mortale della ricostruzione, la distruzione può essere davvero utile. Solo se disinteressata dunque, gratuita, completamente fine a se stessa. Distruggere per distruggere, nient’altro. E per me stesso, e per nessun altro.

67. Afferro la lampada e la dirigo verso questa ridicola luna piena che cancella la notte. Il calore la scioglie e cola sul cielo nero come vernice sporca. Buio, finalmente. Finalmente tacciono le cicale. Perché d’autunnale in questo lembo di terra desolata, disgraziata c’è ancora solamente la mia tentazione di scomparire.

68. Questa notte sono stato padre. E ricordo vividamente l’infinita tenerezza con la quale abbracciavo la madre di mio figlio, che portava in grembo. Se non ricordo male si chiamava Marina, una donna mai vista prima, piccolina, più bassa di me, dai lunghi capelli neri. Mi chiedo da dove sia saltata fuori, secondo quali criteri la mia psiche l’abbia creata.

69. Il pensiero di Marina mi ha accompagnato per tutta la giornata. Il sogno mi ha insegnato che in quel modo infinitamente tenero si può abbracciare solamente la donna che porta in grembo nostro figlio. E anche la bellezza, la suprema bellezza, quella ideale impallidisce al cospetto di colei che eleggiamo madre.

70. Quest’oggi si decide il mio destino. Ed è arrivato il freddo, quel primo freddo violento che ti aggredisce alle spalle, di sorpresa, e per quanto tu possa coprirti, ti ferisce nel profondo, ti offende quasi. Il primo freddo, il più temuto e odiato dai vagabondi, che ghigliottina senza pietà l’ultimo, dolce ricordo dell’estate e scaraventa nell’incubo dell’inverno. Vagabondo, dello spirito, d’accordo, ma pur sempre vagabondo, sento addosso tutta la gravità della catastrofe, inevitabile, pur avendola desiderata per mesi e mesi, ininterrottamente, nel buio innaturale della mia camera, rinserrato in essa come se fuori nevicasse, mentre fuori il sole devastava la campagna, bruciandola in un incendio inestinguibile. Le sei del mattino: è ancora notte. Ma il cielo s’inizia a lacerare di giallo, un minuto dopo l’altro sempre più chiaramente. Il treno sovraccarico arranca, faticosamente. Di quanti di questi individui si decide oggi il destino? Ma che parola sciocca, ridicola destino… Non esiste il destino, esiste solo l’inevitabile ed io lo so qual è il mio inevitabile: il fallimento. L’ennesimo, il supremo. E prima ancora che l’inevitabile si concretizzi, si materializzi dinanzi ai miei occhi, già inizio a godere di quel piacere velenoso, nocivo, mortale in definitiva, che si cela dietro ogni sconfitta, soprattutto se rovinosa, caporettiana. Il cielo si strappa del tutto e lo inonda il chiarore del mattino, mentre il treno si sovraccarica di più ad ogni fermata. Tutti condannati a morte e non ne hanno coscienza, o fanno finta di non averne. Potesse sprofondare ora questo treno goffamente sferragliante e scomparire nel nulla! Pagherei di tasca mia ma ho pochi spiccioli in tasca, da buon vagabondo. E invece procede il treno, procede puntuale, diretto all’inevitabile. Per qualche ora ancora sarò impegnato in ciò che mi riesce meglio, o meglio, in ciò che solamente mi riesce: attendere. E anche questa volta attenderò come sempre: senza speranza, senza pretese né aspettative, rassegnato e indifferente all’inevitabile.

71. È andato tutto come previsto: ho fallito. E sorrido della mia ennesima disfatta – riderei a squarciagola se non mi tormentasse il dispiacere dei miei familiari. Un tormento fastidioso come un sasso nelle scarpe. E ora? Non m’interessa. Che avvenga quel che deve avvenire, che il Caso si trastulli con me – io resterò impassibile. Per due giorni non ho toccato libri e ho lasciato in pace questi fogli. I libri mi guardavano con ostilità, non hai alcun diritto tu, mi gridavano dritto in faccia. Distoglievo lo sguardo e me n’andavo, umiliato. Ma stiamo lavorando per un accordo, per far sì che io mi limiti a ciò per cui sono stati creati: la lettura. Riusciranno a strapparmi la promessa di non versare neanche più una stilla d’inchiostro su di loro. E anche questi fogli ormai non hanno più alcun motivo d’esistere, di crescere – ma non lo avevano neanche prima, direte voi, e a ragione. Rassegnazione, indifferenza, silenzio: è tutto ciò che m’attende. Ma sto pensando di togliermi un’ultima, ridicola soddisfazione: inviare quel mazzo di fiori ad Elena, estorcendomi a forza un ultimo sorriso di compiacimento, perché quello per la disfatta sta ormai svanendo. L’ho fatto. Elena ha il suo omaggio. Ora può davvero illudersi dell’esistenza d’un uomo mai nato, ora io posso davvero dire a me stesso di averla fatta mia, di possedere l’ideale. Fantasticherà a lungo su di me, farà l’amore con me. Ho fatto irruzione nella sua vita e insieme nel suo cervello e nel suo corpo. E non devo temere un’altra delusione. Tutto, questa volta, è andato bene.

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