Soliloquio del dolore – 2

Il dolore è l’unica, vera forza costitutiva dell’esistenza umana. Ci accompagna dal primo all’ultimo istante delle nostre misere vite e per quanto vi sforziate di fuggirlo, di evitarlo, di reprimerlo disperdendovi in migliaia di piccole occupazioni quotidiane e inseguendo piaceri vani, effimeri, illusori, il dolore resta, resiste nel fondo di ognuno di voi, ricchi o poveri, felici o tristi, amati o soli, ubriachi o sobri, belli o brutti, come un male incurabile sempre pronto a sgretolarvi dalle fondamenta non appena commettiate l’imprudenza di rallentare, di tacere, di riflettere e tendere l’orecchio verso la sua voce terribile che mai ammutolisce.
L’uomo vittima di una delusione cocente, sconsolato, avvilito, prostrato vi costringe a fare i conti non solo con il suo dolore (sarebbe ben poca cosa, vista l’emorragia di empatia dei nostri tempi), ma anche e soprattutto con il vostro, e voi, incapaci di affrontarlo, di sostenerlo, terrorizzati come bambini dalla sua potenza distruttiva e rivelatrice, vi affrettate a nasconderlo, a seppellirlo sotto un cumulo di frasi fatte sempre pronte all’uso. Se l’uomo deluso è come voi, legato alla logica semplicistica del comunque vivere e al solo lato luminoso dell’esistenza, ignaro della propria miseria, accoglierà le vostre parole con gratitudine, ne farà il suo punto d’appoggio, dopo che il trauma gli ha scavato il vuoto sotto i piedi, distoglierà lo sguardo da se stesso, dal suo dolore, lo reprimerà e con esso il funesto ricordo, e tirerà avanti, riprendendo il suo posto nella catena di montaggio della vita, identico a com’era prima. Ma se egli è altro, se egli vede e sa, resterà inconsolabile, intrappolato nella propria sofferenza come in una prigione inespugnabile, alla quale dovrà imparare ad adattarsi, e delle vostre parole, dei vostri grossolani consigli riderà di un riso amaro, affilato, sarcastico, proprio di chi sa che non c’è niente da ridere.
In questi mesi mi hanno consigliato di distrarmi, di voltare pagina e andare avanti, di lasciare che il tempo passi e guarisca le ferite ecc. ecc. (A Lei sono grato per tanti motivi, ultimo quello di avermi risparmiato simili frasi di circostanza dicendomi addio.)
Distrarmi… ma io non conosco distrazione. Io non so distrarmi, non so distogliere lo sguardo, rivolgerlo altrove, oppure chiudere gli occhi, perché ho le palpebre recise e delle cose che mi circondano sono condannato a vedere sempre, senza un istante di tregua, tutta l’insensatezza, la vanità, la drammaticità, la brutalità o la stupidità.
Io non so divertirmi, non più, ed è proprio nelle occasioni di euforia collettiva, nei sabato sera, nelle feste di compleanno, nei matrimoni che il mio atavico e inguaribile sentimento di esclusione, di emarginazione si rafforza a tal punto da fagocitarmi. Vi osservo, così gioiosi e spensierati, così leggeri, ridenti e mi dico: dunque avete risolto tutti i problemi esistenziali e siete giunti alla conclusione che vale la pena vivere; non solo, che la vita merita di essere celebrata ogni volta che se ne presenta l’occasione. Mi congratulo con voi, gaudenti saggi! Sarei davvero curioso di sapere, o meglio, di apprendere quali decisivi, luminosi e a me completamente ignoti argomenti vi abbiano condotto a una simile festosa conclusione. Naturalmente sono sarcastico… Voi non vi siete mai posti certe domande (in realtà ne basterebbe una sola, semplicissima e terribile: perché?) ed è proprio per questo motivo che sapete distrarvi e divertirvi (da che cosa dobbiate distrarvi, da che cosa dobbiate evadere, nella vostra incoscienza, resterà sempre un mistero per me, e non venite a parlarmi dei vostri sciocchi problemi quotidiani, che non contano niente al di fuori di voi stessi). Non ve ne faccio una colpa, sia chiaro (un tempo, lo confesso, provavo persino invidia per voi, oggi invece non invidio che i morti, come Tristano-Leopardi [8]), semplicemente apparteniamo a mondi diversi e inconciliabili, dotati ognuno di una propria lingua e di una propria cultura, dunque incomprensibili per l’altro. Io non posso passare più di un paio d’ore con i miei amici a chiacchierare del più e del meno, a ridere e scherzare, perché l’insensatezza non mi dà tregua, perché il nulla finisce sempre per risucchiarmi nel suo gorgo infernale, perché, consapevole di non avere molto tempo a disposizione, il fiato della morte sul collo, dopo più di due ore senza riflettere, senza fare i conti con me stesso, con le mie verità negative (mie perché il resto dell’umanità oggi sembra ignorarle), con il mio mondo in macerie, buio, gelido, desertico, provo uno sgradevole senso di colpa e la sensazione torturante di tradirmi. Allora devo scappare, isolarmi e riprendere il filo della riflessione, rispondere alle domande, tentando di penetrare l’essenza delle cose e giungere all’assoluto. Sì, per quanto possa sembrarvi strano, per quanto possa risultarvi incomprensibile, nell’epoca del culto dell’apparenza, dell’esteriorità, dell’immagine, del dominio incontrastato della superficialità, dell’incoscienza, del disinteresse, dell’indifferenza esiste ancora un uomo interessato all’assoluto! Credo che questo semplice dato basti a spiegare tutta la mia vita, ammesso e non concesso che la mia vita richieda e autorizzi una spiegazione. Ai vostri occhi velati, splendidi talvolta, non lo nego, ma sempre e comunque velati, appaio immobile, ma nel mio apparente immobilismo ho vissuto bruciando dieci vite per volta ed è questo il motivo del mio precoce esaurimento. La carta d’identità segna trentadue anni, ma in realtà, spiritualmente, ne ho centinaia, come un personaggio veterotestamentario. Non pensate che mi stia autocelebrando, non è nella mia natura modesta e sfuggente, direi quasi evanescente. La sostanza non cambia: non sono meno misero e meschino di voi, anzi, lo sono molto più di voi, e proprio perché consapevole di esserlo.
Voltare pagina e andare avanti… ma verso dove? La morte, la distruzione, il nulla sono le nostre uniche mete, e mentre credete di progredire ogni giorno di più nelle vostre vite, diretti verso un avvenire che immaginate migliore del presente, in realtà vi affievolite, vi spegnete ogni giorno di più, come candele. No, scusate, io preferisco farmi da parte e cedervi il passo. Io mi fermo qui, perché per me non ha alcun senso questa vostra marcia verso il niente.
Lasciare che il tempo passi… ma io non ho più tempo, non so più che cosa significhi questa vostra parola. Io sono morto mesi fa, il giorno in cui ho perduto il mio unico bene, morto per sempre, e resto, permango in un eterno presente che è quello degli animali, delle piante, dei minerali. Non ho più bisogno di niente e di nessuno ormai, sono giunto alla mia conclusione e non c’è più alcuna differenza tra me e la cicala frivola che canta a squarciagola nella notte calda, o il platano che mormora accarezzato dal vento.
(Sì, da quando l’ho lasciata alla stazione Termini – la nostra separazione poteva forse avvenire in un luogo più emblematico? – il tempo si è come cristallizzato. Le lancette degli orologi hanno smesso di correre, i pendolari, pietrificati, hanno smesso di camminare e i treni di andare e venire, tranne il suo naturalmente. Da quel giorno vivo in una dimensione atemporale.)
Infine, per quanto riguarda le ferite, beh, non ho mai creduto alle guarigioni miracolose e, l’unica volta che ho ceduto alla tentazione del miracolo, questo sciocco bisogno tutto umano, sono stato ripagato con la più grande e cocente delusione della mia vita.
Come scrive Michelstaedter, il dolore per una perdita è il «terrore per la rivelazione della impotenza della propria illusione», è il «mistero che apre la porta della tranquilla stanza chiara e riscaldata a sufficienza per la determinata speranza, e ghigna: “ora vengo io, da te che ti credevi sicuro, e tu non sei niente”» [9]. Io sono sempre stato consapevole di essere niente, ma, lo confesso, grazie a Lei mi ero illuso di essere qualcosa.

NOTE

[8] «Oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei» (Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, Operette morali, in Id., Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emanuele Trevi, Newton Compton editori, Roma 2016, p. 606).

[9] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982, pp. 61-62.

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