Come lascia intendere Tolstoj nel memorabile incipit di Anna Karenina, non c’è niente di interessante nella felicità. La felicità è anti-letteraria, e la sua rappresentazione migliore è il silenzio. Un uomo è felice? Va bene, ma non bisogna aggiungere altro, altrimenti si scade nella banalità, nella ridondanza, nella rettorica. Il principale alimento della letteratura è la sofferenza, al contrario della felicità mai banale, mai ridondante, mai rettorica, noiosa e stomachevole. La felicità nausea, la sofferenza nutre.
Confrontiamo le pagine del Meister in cui Goethe descrive la gioia di Wilhelm ispirata al suo amore per Mariane e quelle dedicate invece al suo dolore e alla sua disperazione dopo la scoperta del – presunto – tradimento dell’amata. Non c’è paragone.
La gioia:
«Disteso sotto le stelle amiche l’esistenza gli sembrava un sogno dorato. “Anche lei ode questi flauti,” diceva nel suo cuore “sente di chi è il ricordo, di chi l’amore che rende melodiosa la notte; anche distanti, noi siamo uniti da questa armonia, come lo siamo – a ogni separazione – dall’impalpabile accordo dell’amore. Ah, due cuori amanti sono concordi come due bussole”».
Il dolore:
«Seguirono giorni di dolore violento, sempre ripetuto e volontariamente rinnovato […]. In quelle ore Wilhelm non aveva ancora perduto del tutto l’amata; i suoi dolori erano tentativi instancabilmente rinnovati di trattenere la felicità che gli sfuggiva dall’anima, di riaffermare la possibilità nell’immaginazione, di procurare alle sue gioie per sempre svanite una breve sopravvivenza».
Come sono melense, scialbe, noiose le prime righe. Le seconde invece spiccano per intensità ed efficacia. È così ordinaria la felicità, spesso persino dozzinale; è prodotta in serie e si mostra sempre uguale, mentre non esiste una sofferenza che sia uguale all’altra. Il dolore è sempre unico e irripetibile, originale e offre ogni volta spunti diversi e utili. Il passo del Meister dedicato alla gioia di Wilhelm non rivela nulla, mentre il secondo rivela come sia il disperato e folle tentativo di mantenere in vita ciò che è morto per sempre, ad alimentare a dismisura il dolore causato dalla perdita, dall’abbandono. Non c’è felicità che risulti sapiente e istruttiva tanto quanto una sofferenza.