Per me, in sostanza, non esiste una letteratura italiana, una letteratura russa, una letteratura tedesca, una letteratura francese, una letteratura inglese ecc., ma una sola letteratura, unica e universale. Perché possono cambiare le condizioni esteriori, il contesto storico e la latitudine, la cultura, la lingua, ma la sostanza dell’uomo non cambia. Se un’opera non riesce a oltrepassare i propri confini geografici e storici, se si esaurisce all’interno di essi, allora non è una grande opera, ma soltanto una testimonianza trascurabile che finirà, prima o poi, per svanire nel nulla (oggi, in Italia, non abbiamo più neppure questo, delle testimonianze trascurabili, ma soltanto prodotti, nel senso economico del termine, del tutto privi di valore artistico, filosofico, morale, ragion per cui parlare di letteratura italiana non è possibile – se una letteratura italiana ancora esiste, e resiste, è completamente sommersa, irriconosciuta, ignota).
La grande opera si impone ben al di là delle circostanze contingenti, il suo valore non ha confini spazio-temporali, è universale. La grande opera è portatrice di una verità umana universalmente valida. Prendiamo Dubliners di Joyce, per esempio. L’identità irlandese è fortissima, fondante, eppure in quei quindici racconti c’è ognuno di noi. È questo che rende grande un’opera letteraria.