Cristina mi ha spiegato, durante il nostro ultimo incontro, che ciò che le pesa di più, del suo maledetto lavoro, non è vendere il proprio corpo, ma vendere il proprio tempo, dunque la propria vita. Deve essere reperibile dalla mattina alla sera, Cristina, per poter guadagnare il più possibile, e quando è a lavoro non riesce a concentrarsi su nient’altro, neanche durante le lunghe attese. È come se precipitasse in una sorta di oblio che la assorbe completamente, succhiandole il tempo e la vita.
Cristina scriveva, ma ha smesso da quando è in Italia e ha iniziato a fare questo lavoro. Non ce la fa a scrivere, in queste condizioni. Non ce la fa a fare niente. Per questo motivo non comprende e non accetta che una donna possa fare questo mestiere per anni, come se fosse un mestiere qualunque. È ancora viva, Cristina. Le sue parole lo dimostrano. Ma io temo che a lungo andare possa inaridirsi e cedere a questa non-vita. Appare sicura di sé, determinata, ma che ne sarà di lei tra sei mesi, tra un anno? Un cambiamento in lei, da quando l’ho vista la prima volta, oramai sei mesi fa, c’è già stato, e non è un cambiamento positivo, anche se non saprei descriverlo. È come se, in fondo, senza esserne pienamente consapevole, si fosse adattata a questa condizione, e il passo successivo all’adattamento è la rassegnazione.
Mi piacerebbe incontrarla fuori da quella stanzetta illuminata di rosa per parlare con lei di queste cose. Mi piacerebbe che mi raccontasse la sua storia, per poterla scrivere. Ma anche così, una traccia di Cristina resterà comunque, ed è forse questo l’unico merito dei miei taccuini, altrimenti perfettamente inutili, come tutto ciò che ho scritto, e detto, e fatto nella mia vita.