Soliloquio del dolore – 1

Conoscerai un grande dolore e nel tuo dolore sarai felice. Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità.

Fëdor Dostoevskij, «I fratelli Karamazov», a guisa d’augurio

Tutti i miei testi sono nati dal tentativo di trasformare il «fango in oro», come scrive Nietzsche [1]. La scrittura è sempre stata l’unico mezzo a mia disposizione per non perdermi, per non soccombere al dolore, per reagire, farmene carico e non permettere che mi schiacciasse, che non risultasse vano, non del tutto almeno. Al di là dell’ambizione, fantasma morto, sepolto e putrefatto da tempo, la scrittura finora mi ha consentito di metabolizzare fallimenti e delusioni, di analizzare la mia sofferenza, di comprenderla, di darle voce e di riportarla all’interno di un determinato contesto filosofico, all’interno di quella fortezza del pensiero, divenuta presto una prigione, in cui mi sono sempre rifugiato e ho trovato conforto.
Ma questa volta è complicato, molto più di quanto immaginassi. Ricorrendo ancora a Nietzsche, «quest’ultimo boccone di vita è stato per me finora il più duro da masticare ed è pur sempre possibile ch’io ne rimanga soffocato» [2]. Sono giunto al fondo del mio dolore ed è difficile trovare le parole, razionalizzare, analizzare, verbalizzare, speculare. Da mesi ormai sono intrappolato in una cella angusta, stretta, soffocante, buia, gelida in cui ho a malapena lo spazio per girarmi su me stesso e le cui pareti, come specchi, riflettono incessantemente, giorno e notte, nella veglia e nel sonno, la sua immagine, bellissima e terribile. Non devo sforzarmi per vederla, è ovunque attorno a me, dentro e fuori di me, con i suoi lunghi capelli neri, con i suoi grandi occhi marroni protetti dagli occhiali, con la sua pelle bianchissima. Tutti i miei tentativi di evasione sono falliti e non mi resta altro da fare che provare ad adattarmi. Non so se ne sarò capace, se ne avrò la forza. Qualcosa si è spezzato per sempre e niente sarà più come prima.
Mangio e non mi sazio, bevo e non mi disseto, dormo e non riposo, respiro e soffoco. Perché di mangiare, di bere, di dormire, di respirare non ho più bisogno. Non ho più bisogno di niente ormai, sono perfettamente vuoto.
Sono esausto, come la Pentesilea di Kleist, come Kleist stesso alla fine dei suoi giorni. Anche la mia anima è «spossata a morte» [3], anche per me è giunto il momento di comprendere e accettare la sconfitta: «Il massimo che può la forza umana io l’ho fatto – ho tentato l’impossibile -, tutta me stessa ho gettato, come ai dadi; il dado che decide si è fermato, è lì: bisogna che lo capisca… e che capisca che ho perduto» [4]. Da quando Lei non c’è più ho perso almeno due chili, un’enormità per me, per il mio fisico scabro, e non sono mai stato così leggero. Mi guardo allo specchio e mi faccio spavento. Le vene non sono mai state così chiaramente visibili, così spesse sulle braccia, quasi si offrissero alla tentazione di sparire. Le costole non sono mai state così in rilievo, quasi volessero strappare il sottile velo di pelle che le ricopre ed erompere fuori. Il mio corpo sta divorando se stesso e tra poco di me non resterà che un mucchietto di polvere, disperso nel nulla dal primo soffio di vento. Sarebbe bello… sparire senza dover muovere un dito, senza usare violenza, al termine di una lenta, ma inesorabile, puntuale dissolvenza. Se mi concentro sul mio corpo, se lo ascolto, mi sembra questa la sua fine più naturale.
Ho sempre parlato di disperazione e di solitudine, le ho sempre considerate componenti essenziali della mia vita, ma solamente ora le conosco davvero, in tutto il loro indescrivibile orrore e non trovo conforto, neppure nella ragione, perché la fine della nostra storia, e non solo la fine in sé, ma il modo in cui è avvenuta e il fatto che sia stata Lei a decretarla, è l’ultima, definitiva, spietata conferma dell’esattezza delle mie convinzioni e della coerenza delle mie scelte. Ancora non so godere della ragione, ancora non so riderne. Chissà se ci riuscirò mai.
Ora so come si sentì Orfeo dopo aver perduto per sempre Euridice, fiore della sua vita e del suo canto, come Lei lo fu della mia vita e della mia scrittura. Ora capisco come un uomo possa lasciarsi morire per amore: perduta la persona amata, tutto ciò che lo circonda, lo riguarda, la sua vita, lui stesso precipitano di colpo nell’insignificanza e gli diventano estranei; tutto impallidisce, perde colore, lucentezza, vitalità, come avvolto da una notte nera, senza luna, e ci si ritrova improvvisamente soli con se stessi, con il proprio dolore, con la propria insufficienza, con la propria impotenza. In questo stato è inevitabile, naturale pensare alla morte, che si presenta come l’unica via d’uscita.
Questa condizione di vuoto, di distacco dalla vita successiva alla perdita della persona amata, è stata descritta innumerevoli volte, e in modo senza dubbio migliore rispetto a quanto fatto dal sottoscritto. Tra le tante possibilità, scelgo questi versi di Michelstaedter, che inoltre si adattano alla perfezione alla mia specifica situazione:

che giova, se del tutto io t’ho perduta
quando mia tu non fosti il giorno stesso
che c’incontrammo? […]
se tua vita
crear non so della mia vita stessa,
che più giova sperar, che più volere,
che mi giova la vita e il mio dolore
e questo amor lontano e disperato?
[…] vivo ad ogni istante
nella tua indifferenza la mia morte.
Né più mi giova mendicare i giorni
né chieder altro più dal dio nemico,
se non che faccia mia morte finita [5].

In questi versi c’è tutto. Tutta la sofferenza, tutta la disperazione, tutta la prostrazione causate da una separazione sancita in modo unilaterale dalla persona che mai avremmo voluto perdere, e senza la quale niente ha più senso.
Io l’ho perduta nel giorno stesso in cui finalmente c’incontrammo, quel giorno che avrebbe dovuto rappresentare il trionfo del nostro legame e che invece ne ha decretato la fine. È stato terribile. Sono passati mesi, ma il ricordo di quel momento ancora mi tormenta, ancora mi toglie il sonno. Finalmente Lei era lì, al mio fianco, dopo una corrispondenza lunga un anno e mezzo… ma basta, mi è troppo doloroso ricordare.
Il mio «dio nemico» è il caso, che me l’ha fatta incontrare troppo tardi, Lei, la donna che ho cercato sempre e ovunque, in ogni strada, in ogni locale, in ogni treno, in ogni libreria, in ogni biblioteca, in ogni aula universitaria. Il caso beffardo si prende gioco di ognuno di noi, che siamo i suoi zimbelli, le sue marionette, ma con me è stato particolarmente crudele. Il giorno in cui lo maledicemmo insieme fu uno dei più emozionanti della mia vita. Ora potrei trovare un motivo per uscire di casa dopo mesi di clausura, solamente nella possibilità di essere vittima di un incidente mortale, che mi strappi nel fisico da questa vita che, nello spirito, già non mi appartiene più.
Sono sempre stato il mio critico più severo e in questi mesi mi sono dato del ridicolo molte volte. Come può un uomo come me, con un pensiero così radicale e disperante, consapevole da sempre dell’insensatezza della vita e della vanità di ogni singola azione umana, struggersi per un amore impossibile? È stupido e, appunto, ridicolo. Ma sapere che la stessa cosa è accaduta a pensatori intransigenti ed estremi come Nietzsche, Michelstaedter e Cioran, vittime di drammi sentimentali che contraddicono in modo macroscopico le loro filosofie forti e coraggiose, legittima il mio dolore e allevia l’imbarazzo.
Tra l’uomo e l’autore, soprattutto nel caso di autori severi e radicali, esiste sempre uno scarto, una distanza incolmabile. Attraverso i suoi testi l’autore intransigente restituisce al lettore un’immagine di sé parziale e volontaria. L’opera rappresenta una sorta di maschera che nasconde la parte più debole e umana. Quando Nietzsche, in Al di là del bene e del male, scrive che «il grande statista, il conquistatore, l’inventore si mascherano con le loro creazioni fino ad essere irriconoscibili», che l’opera dell’artista e del filosofo «inventa per prima cosa chi l’ha creata, chi deve averla creata» [6], sottolinea proprio questo aspetto, riferendosi anche a se stesso. Ciò che Nietzsche scrive con delicato disprezzo di Byron, De Musset, Poe, Lopardi, Kleist e Gogol’ riguarda anche lui, perché riguarda ogni artista, ogni pensatore, ogni creatore: anche Nietzsche fu un uomo mutevole, entusiasta, sensuale, infantile, irresponsabile, improvviso nella sfiducia e nella fiducia, con un’anima nella quale è «celata una qualche frattura»; un uomo che nelle sue opere spesso si vendica di una «contaminazione interiore», che spesso, nelle sue ascese, cerca «l’oblio di una memoria troppo fedele», spesso smarrito nel fango e di esso quasi innamorato, fino a diventare simile a un fuoco fatuo che vaga nelle paludi e che si finge una stella, spesso «lottando con un continuo disgusto, con un ricorrente fantasma d’incredulità» che lo rende gelido e lo costringe ad «anelare alla gloria» e a divorare la fede in se stesso dalle «mani di ebbri adulatori» [7].
L’opera, l’immagine dell’autore che essa veicola, è un autoritratto parziale dell’artista, del filosofo radicale, in realtà molto più umano dunque vulnerabile e misero di quanto voglia far credere. Non a caso Nietzsche, al termine della sua vertiginosa parabola esistenziale, sprofonda nella follia. Conosco un solo uomo che ha saputo rinunciare davvero all’amore e all’umana felicità, Kierkegaard, sorretto da una fede profonda, incrollabile, estranea ai pensatori intransigenti ed estremi.
Con Lei ho perduto tutto ciò che, grazie a Lei, avevo miracolosamente ritrovato: la fiducia in me stesso, nelle mie capacità, nella parola, nella scrittura, nei rapporti umani, nella possibilità di una comunicazione, di una comprensione, di una corrispondenza autentiche e totali con l’altro. Per questo motivo mi è così difficile scrivere, trasformare il «fango in oro» e sono costretto a ricorrere ad altri autori, come un convalescente ricorre alle stampelle per riprendere a camminare. Ma devo farlo, per superare anche questa delusione estrema, per mandare giù quest’ultimo, amarissimo «boccone di vita» e trarne del bene per me stesso, esclusivamente per me stesso, perché ormai attorno a me è davvero il deserto.
In tal senso, uno dei fenomeni più interessanti verificatosi in questi ultimi mesi, dopo la nostra separazione, è il distacco improvviso da tutte le persone che mi circondano, o meglio, mi circondavano. Ora sono davvero solo, come mai prima. L’affetto è svanito di colpo e dei miei familiari, ma soprattutto dei miei cosiddetti amici, non vedo che le storture, le brutture, le distanze irreparabili che mi separano da loro. Non provo più affetto per nessuno. Non so trovare una spiegazione a questo curioso fenomeno, se non nel fatto che la perdita della persona alla quale mi sentivo maggiormente legato, mi ha svuotato del tutto. Ora mi guardo dentro e attorno con occhi gelidi e vedo il niente, e non ho davvero più aspettative, obiettivi, ambizioni, speranze, sogni. Sono giunto alla mia fine e, visto che è sempre stato l’affetto a tenermi in vita, potrei scomparire in questo stesso istante, se solo ne valesse la pena.

NOTE

[1] Lettera a Overbeck del dicembre 1882, citata da Aldo Venturelli, Cronologia della vita e delle opere, in Friedrich Nietzsche, Opere 1882/1895, Newton Compton editori, Roma 2008, p. 15.

[2] Ibidem.

[3] Heinrich von Kleist, Pentesilea, traduzione di Enrico Filippini, in Id., Opere, a cura di Anna Maria Carpi, Mondadori, Milano 2011, p. 327.

[4] Ivi, p. 330.

[5] Carlo Michelstaedter, A Senia, VII, in Id., Poesie, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1987.

[6] Friderich Nietzsche, Al di là del bene e del male, traduzione di Silvia Bartoli Cappelletto, in Id., Opere 1882/1895, cit., p. 551.

[7] Ibidem.

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