I taccuini di Tarrou – 236

Ogni individuo dovrebbe dipendere solo ed esclusivamente da se stesso, costruirsi da sé la propria vita, primo e ultimo, unico, scegliersi da sé il proprio destino, il proprio sviluppo e il proprio epilogo, il proprio cammino e la propria meta. Invece, dal momento in cui viene messo al mondo, l’individuo è intrappolato in una rete di relazioni con gli altri che ne condizionano terribilmente l’esistenza, privandolo della libertà.

Quando sono solo con me stesso e non ho nessuno intorno sono tranquillo, perfettamente rassegnato al mio destino, non ho dubbi, non provo amarezze né angosce. È la presenza degli altri, di coloro i quali si aspettano ancora qualcosa da me e immaginano una vita come tutte le altre per me a inquietarmi, ad alimentare la mia tentazione di scomparire. I legami familiari agiscono in una duplice forma su di me: se da una parte mi tengono legato alla vita, dall’altra, con le loro pressioni, con le loro pretese, me ne allontanano, e io resto intrappolato tra queste due tensioni opposte che mi straziano senza tregua. Il problema, la mia debolezza, dal punto di vista sociale, e al tempo stesso la mia forza, dal punto di vista individuale, è che non ho mai saputo piegarmi alla volontà degli altri. Nella mia condizione di uomo consapevole è funesta l’esistenza che mi spetta, inusuale, solitaria, dolorosa, disperata, incomprensibile per tutti. Qualunque altra esistenza decreterebbe immediatamente la mia fine. Perché non lo capiscono? In altre condizioni, in completa e quotidiana dipendenza dagli altri morirei in pochi giorni, mi spegnerei molto più in fretta di quanto stia avvenendo ora, come un fiore strappato alla propria pianta e messo in vaso.

Spero che queste mie parole non vengano fraintese: io non resisto e non rinuncio per preservarmi, per salvare la mia vita, ma per uniformarla al mio pensiero. Io perseguo la coerenza, questa parola sconosciuta, e non mi piego all’insensatezza e alla brutalità dell’attività umana. Io non voglio diventare uno schiavo abbrutito, un rimasuglio d’umanità, un cadavere. Io voglio restare fino all’ultimo dei miei giorni un uomo libero, fisicamente in trappola, certo, ma almeno spiritualmente libero.

Sto tornando alle riflessioni che hanno inaugurato questi taccuini e che forse avevo messo da parte con lo scoppio della guerra in Ucraina. Sono forse rientrato nella mia dimensione individuale e non perché mi sia abituato all’orrore oppure rassegnato ad esso, no, ma perché ora, dopo un mese e mezzo dall’inizio del conflitto, vedo le cose per quello che davvero sono: ciò che dovrebbe essere il principale interesse di tutti, ovvero la cura delle vittime, in particolar modo dei bambini, non importa a nessuno, e ogni parola, ogni gesto scivolano infine nel nulla, si perdono nell’orrore della Storia, in cui è impossibile distinguere tra bene e male perché tutto è male. Non esiste un governo che faccia il bene del proprio popolo, in nessun caso: ogni governo fa il proprio bene, anche se questo significa provocare la morte di migliaia di persone. Io non voglio più dare cittadinanza ai carnefici, almeno nei miei taccuini. Se conoscessi i nomi delle vittime, riempirei le mie pagine di questi.

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