Memorie dal nulla – Seconda parte. La tentazione di vivere – X

Come in tutti i matrimoni il pranzo era stato non solo abbondante, ma eccessivo, scandalosamente eccessivo (trovo scandalosa e immorale qualunque manifestazione di opulenza), e né io né Veronica avevamo fame. La guidai per il centro di Nettuno, legando quasi a ogni luogo un ricordo personale.
– Qui è dove, una quindicina di anni fa, diedi il primo bacio a una ragazza, – dissi fermandomi di fronte al Santuario di Nostra Signora delle Grazie e di Santa Maria Goretti.
– Chi fu la fortunata?
– Ti sembrerà strano, ma non ricordo il suo nome, e neppure il suo aspetto. Forse si chiamava Benedetta… Ricordo solo che la baciai qui, dopo averla conosciuta a una festa, e che andava al liceo classico.
– Immagino che non vi siate rivisti dopo questo primo bacio, altrimenti la ricorderesti.
– Esatto. Delle donne con le quali ho avuto delle storie, chiamiamole così, ricordo tutto, di lei no. Forse perché quel bacio non fu del tutto voluto, ma imposto. Era arrivato il momento e mi era capitata lei, nient’altro, nessun trasporto emotivo, sentimentale.
– In fondo è solo una questione di numeri. In un bacio, come in ogni altra cosa, la vera prima volta può coincidere con la millesima.
– È vero, considerare la prima volta come la vera prima volta è pura convenzione, un luogo comune. Può anche capitare che ci siano tante volte, migliaia di volte, ma mai una prima volta.
Le domandai come avrebbe illuminato il Santuario, quali luci avrebbe scelto e dove le avrebbe posizionate, e Veronica abbozzò rapidamente un progetto. Si accalorò presto e io compresi quanto amasse il suo lavoro.
– Sì, sono stata fortunata, – disse Veronica, quasi non imbarazzo, arrossendo, di certo a causa della mia sfortuna, quando le feci notare come dalle sue parole emergesse tutta la passione per il lavoro che svolgeva.
– Non è questione di fortuna, ma di meriti, – puntualizzai. – Ognuno ha ciò che si merita, sempre. Tu meriti la tua vita, la tua famiglia, la tua bambina, il tuo lavoro.
Veronica mi guardò in modo strano, vidi passare un’ombra sul suo volto, ma fu solo un attimo. Non volli approfondire e decisi di non dire più una sola parola sulla sua famiglia. Ero stato imprudente, forse persino inopportuno, come sempre.
Dopo aver visitato Nettuno, ci spostammo ad Anzio. Parcheggiai a Villa Adele, passeggiammo lungo il porto e la riviera di ponente, giungendo infine alle grotte di Nerone. Qui ci sedemmo su una panchina, proprio sotto la statua di Nerone, ma dandole le spalle e osservando il mare. Era una notte tiepida, più estiva che autunnale. In cielo non c’era una nuvola e la luna, quasi piena, dominava indisturbata, specchiandosi sull’acqua. Sopra di noi la luce del faro squarciava la notte e il suono delle onde in perpetuo divenire era una nenia dolcissima, quasi un lamento di piacere. Veronica poggiò la testa sulla mia spalla e io le cinsi la vita con il braccio.
– A pensarci è incredibile, – sussurrai baciandole i capelli.
– Cosa?
– Che tu sia qui, accanto a me. La tua esistenza e la tua presenza sono incredibili, persino miracolose, come ti ho detto prima. Ti ho attesa per tutta la vita, proprio qui, in questo posto, su questa panchina, davanti a questo mare, sotto questa luna, e mi sei apparsa proprio nel momento in cui avevo smesso di sperare di incontrarti e stavo per andare via.
– Nessuno mi ha mai detto delle parole così belle. Coccoli il mio ego e rischi di farmi sentire davvero importante, persino indispensabile.
Se Veronica si fosse voltata verso di me l’avrei baciata, davvero, ma il suo sguardo era rivolto al mare.
– Sei sempre stata indispensabile, ancor prima che ti incontrassi, e non solo per me, ma per il mondo intero. Se tu potessi avvolgerlo come un manto e fecondarlo…
– Ho anch’io i miei lati oscuri, come tutti. Sono una persona come tante altre.
– No, Veronica, tutto in te è luce. Tu sei tutto ciò di cui avrei bisogno e l’ho capito subito, da quando Pietro mi ha parlato di te per la prima volta. In questi trent’anni ho vissuto in uno stato di solitudine feroce, in un’assenza permanente, immerso nelle tenebre. Per la prima volta nella mia vita non mi sento solo, non sento il vuoto intorno a me. Per la prima volta sono riuscito a evadere da me stesso, dal buio, dal nulla. Al tuo fianco provo una sensazione di pienezza, di completezza mai provata prima e il mondo mi appare un posto meno inospitale, meno spigoloso e doloroso. Non so se riesci a comprendermi. Accanto a te mi sento libero, leggero, spensierato e giovane, sì, giovane. Mi infondi vitalità e coraggio, quella vitalità e quel coraggio che ho perduto con l’infanzia. La tua persona mi conferisce consistenza e non mi sento più un uomo astratto, libresco, ma un uomo vero, in carne e ossa, come te. Sei mille volte migliore di me, Veronica. Tutto ciò che pensi, tutto ciò che dici, tutto ciò che sei è frutto dell’esperienza e del dolore, mentre io non sono altro che un cialtrone. Nella nostra corrispondenza le parole più importanti, davvero necessarie, le hai scritte tu. Le tue parole sono vive, hanno un corpo e un’anima, nelle tue mail scorre il sangue, pulsano di vita, sono… terragne, mentre le mie sono vuote, artificiose, frutto di un pensiero che rifiuta la vita.
– Perdona la franchezza, Giosuè, ma ogni volta che ti sminuisci in questo modo mi fai davvero incazzare. Se tu potessi vederti come io ti vedo, non diresti queste cose. La tua coerenza merita rispetto e ammirazione, sei stato coraggioso restando fedele a te stesso sempre, senza cedere ai compromessi. Te lo scrissi nella prima mail, ricordi?
– Come potrei dimenticarlo? Quella tua prima mail ha segnato la mia vita per sempre. L’ho incorniciata e appesa nella mia camera, proprio davanti la mia scrivania. Credo che lo farò con tutte le tue mail. Voglio fare della mia stanza una sorta di piccolo tempio dedicato a te.
Veronica finalmente si voltò verso di me e ci guardammo negli occhi, ma non la baciai, contraddicendomi ancora una volta, l’ennesima in quella giornata lunghissima, che sembrava non finire mai. Il fatto è che non avevo più il desiderio impellente di baciarla, perché stavo benissimo così, seduto accanto a lei, di fronte al mare. Il mio disperato bisogno di compagnia e amore era appagato e mi sentivo perfettamente a mio agio, come se fossi nella mia camera chino su un libro di Dostoevskij. Il bacio non era più essenziale, ma qualcosa di accessorio e mi sentivo al riparo da ogni minaccia. Ero tranquillo, appagato, soddisfatto, al sicuro da me stesso e non avrei potuto rovinare niente. La soddisfazione carnale è sempre stata superflua per me, persino quando sono costretto ad approfittare della disperazione di una donna obbligata a svendere il proprio corpo per tirare avanti, figuriamoci accanto a Veronica.
– Sai cosa vedo con i miei occhi? – domandò Veronica guardandomi intensamente.
– Cosa?
– Vedo un uomo nobile, giusto, generoso, coraggioso, sensibile, che vorrebbe cambiare il genere umano, il mondo e soffre per l’impossibilità di farlo. Un uomo che soffre profondamente per il destino di dolore dei suoi cari, mettendo la loro serenità davanti a tutto. Un uomo capace di amare come nessun altro, con tutto se stesso, in modo incondizionato, capace di sacrificarsi nel nome di questo amore. Un uomo che ha consacrato la propria vita alla cultura pur sapendo di non ricavarne nulla. Un uomo disinteressato e autentico, impegnato nella ricerca di ciò che non si vede, di ciò che si trova in profondità, sepolto sotto l’apparenza, dell’universale. Vedo un uomo libero dai pregiudizi, dai luoghi comuni, dalle catene del superfluo, aperto e comprensivo. Un uomo che si sente responsabile dei peccati degli altri e vorrebbe riscattarli. Un uomo rispettoso, capace di reprimere i propri desideri più intensi, di soffocarli, di schiacciarli per non correre il rischio di offendere le persone che ama. Vedo un uomo di talento, per il quale la scrittura è un’attività di elezione, uno dei pochi, pochissimi scrittori di valore in quest’epoca di scribacchini, di imbrattacarte e che un giorno, più o meno lontano, verrà riconosciuto come tale e apprezzato, amato. Sì, ti ameranno in tanti, Giosuè, in tanti troveranno conforto nelle tue parole, si riconosceranno in esse e le faranno proprie. In tanti ti citeranno, come sto facendo io. È questo ciò che vedo con i miei occhi e che vorrei vedessi anche tu, almeno per un momento. Se ci riuscissi capiresti di valere molto, capiresti che vale la pena vivere, e che varrebbe la pena rinascere se ci fosse la possibilità di farlo.
– Sì, Veronica, – sussurrai con commozione, – sei uno specchio che riflette la mia parte migliore. Credevo che non esistesse più, che fosse morta per sempre, ma aspettava solo te. Ora ti appartiene, è tua. Senza di te non avrebbe alcun senso e quando il nostro rapporto si interromperà non mi riguarderà più. L’ho donata a te, in questi mesi l’ho trasfusa in te, custodiscila e… trasmettila ad Elisabetta. A proposito di doni, mi sono permesso di farti un piccolo regalo. Tieni.
Tirai fuori dalla tasca interna della giacca una piccola scatola e la porsi a Veronica. Conteneva un punto luce, che avevo acquistato, con i miei pochi risparmi, il giorno precedente.
– Non dovevi, – disse Veronica aprendo la scatola e osservando il piccolo oggetto.
– Non ha un grande valore economico, anzi, praticamente non ha nessun valore economico, ma ha un grande valore simbolico. Rappresenta ciò che sei, un punto luminosissimo in un mondo immerso nelle tenebre, e in fondo rappresenta anche il mio amore per te. Sei l’unica fonte di luce vivente che io abbia mai conosciuto. Forse ti sembrerà infantile, o forse inopportuno, o persino sciocco, ma volevo che avessi qualcosa di materiale, di tangibile che ti ricordasse me e il nostro rapporto. Se potessi ti regalerei tutto ciò che desideri, per te e per la tua bambina.
Veronica mi gettò le braccia al collo. Iniziavo a percepire l’amarezza del distacco, della rottura definitiva, irrevocabile, di un’assenza rinnovata e permanente d’ora in avanti. Sospirai.
– Perché questo sospiro adesso? – domandò Veronica staccandosi da me. Ora eravamo seduti l’uno di fronte l’altra, io a cavalcioni sulla panchina, lei con le gambe incrociate.
– Perché tra poco dovremo separarci e non ci vedremo né sentiremo più, – dissi con un leggero sorriso, piuttosto forzato. Volevo che il momento dell’addio fosse pacifico, sereno, leggero per entrambi.
– Non è mica un obbligo, non te lo ordina nessuno.
– Me lo ordina la mia coscienza. Forse ci siamo incontrati solamente perché ti perfezionassi, ti completassi recuperando la Veronica di un tempo, assorbendola. Questo processo è completato, il passato non è più oscuro, doloroso e possiamo, anzi, dobbiamo voltare pagina, entrambi. Per me sarebbe troppo penoso, troppo faticoso dover tornare a una semplice corrispondenza dopo aver goduto per un giorno intero della tua presenza.
Le afferrai la mano sinistra e baciai la lunga cicatrice. Tenni la sua mano stretta tra le mie, quasi a volerla sequestrare.
– Ti capisco, Giosuè, davvero. È naturale che tu non possa più accontentarti di un rapporto epistolare, come me.
– Le nostre esistenze sono troppo differenti perché possano procedere ancora insieme. Io devo tornare nel nulla e nella disperazione. Devo, Veronica, è una questione morale per me. Non si tratta della mia solita, autodistruttiva e malata scelta tra il tutto e il niente, ma di un bisogno quasi fisiologico. Hai detto tu stessa di trovare naturale la mia impossibilità di accontentarmi ed è proprio così. Dopo aver passato un’intera giornata con te ho la necessità impellente, in queste condizioni, di dirti addio per sempre. Cosa potrei scriverti sapendo di non rivederti più? Non avrebbe senso fondare la nostra corrispondenza su un’assenza definitiva, permanente, sul vuoto. Ci faremmo solamente del male.
– Nonostante tu mi tenga la mano sei diventato freddo, distaccato. Mi stringi la mano come stringi la sigaretta tra le dita, – disse Veronica con dispiacere, abbassando lo sguardo.
– Come potrebbe essere altrimenti? Ti sto dicendo addio… – tentai di difendermi.
– Non credere che io non soffra per questo.
– Lo so, Veronica, lo so, non c’è bisogno che tu me lo dica, ma… – mi fermai, temendo di offenderla, e chinai il capo.
Avrei voluto dirle che le nostre situazioni non erano paragonabili, che lei aveva un lavoro, un marito, una figlia, una vita faticosa, sì, impegnativa, ma agiata e soddisfacente, mentre io non avevo niente. Che lei aveva trovato un’antologia di scrittori russi nella casa dei nonni e che grazie a questa antologia, a dieci anni, aveva scoperto Dostoevskij, mentre io nella casa dei miei nonni avevo trovato solo attrezzi da lavoro, zappe, falci, picconi e avevo dovuto lottare, con me stesso e lo scetticismo generale, per studiare, ma che questa lotta non mi aveva portato da nessuna parte, o meglio, mi aveva condotto in un vicolo cieco dal quale mi era impossibile fuggire.
– Ma? – domandò Veronica.
– Niente, sciocchezze, – e mi scusai come se le avessi dette quelle parole, baciandole la mano.
Veronica non mi toglieva lo sguardo di dosso e alla fine mi sentii in imbarazzo. Mi alzai dalla panchina, raggiunsi la balaustra e vi poggiai i gomiti, dandole le spalle. Mi imbarazzava la mia miseria, la mia bruttezza e sapere che Veronica non potesse provare altro che compassione per me, come tutte le altre donne che avevo amato inutilmente. Per la prima volta in quella lunghissima giornata, desiderai di essere lontano da lei, di rintanarmi nella mia stanza, distante da tutto e da tutti, solo nella mia disperazione.
– Mi hai sempre detto di non avere più sogni, di essere completamente vuoto, finito, disperato, ma io non ci credo, – disse Veronica alzandosi dalla panchina e raggiungendomi. – Se così fosse non scriveresti più e non saresti neppure qui, – aggiunse.
– Mi stai provocando?
– Forse sì, forse no. Forse vorrei solamente farti capire che esistono ancora delle possibilità per te, che non tutto è perduto e dovresti solamente metterti in gioco.
– Ti prego, Veronica, risparmiami. So che mi esorti a vivere perché ti sei affezionata a me, perché credi che io valga qualcosa, ma non me ne parlare, non serve a niente. Se tu potessi entrare nella mia testa e vedere la devastazione che ho dentro, non diresti queste parole, te lo assicuro, – dissi con una certa indolenza, strascicando le parole come un uomo stanco strascica le gambe. Sì, iniziavo a essere stanco di quella giornata.
– Perché non hai ancora provato a baciarmi? – domandò Veronica a bruciapelo. Mi guardava sempre, con testardaggine, non distoglieva lo sguardo da me neppure per un istante, come se volesse intuire in anticipo le mie risposte, e mi sentivo braccato. Non capivo se con questo suo atteggiamento volesse torturarmi oppure solo provocarmi. In ogni caso, trovavo crudele quel suo sguardo ostinato.
– Lo sai perché. Perché non posso dimenticare neppure per un istante la tua situazione e che la vita ti impedisce di innamorarti di me. Lo confesso, ma tanto tu già lo saprai, oggi ho avuto più di una volta il desiderio di baciarti, ma sono riuscito a reprimerlo e ora mi basta essere al tuo fianco, non chiedo altro. Se cedessi a questo impulso e ti baciassi, cosa cambierebbe? Niente. Proverei certamente le sensazioni più incredibili della mia vita, questo momento si imporrebbe di diritto come il più significativo e memorabile della mia vita, rispetto anche al futuro e non solo al passato, ma non cambierebbe niente. Rischierei solamente di offenderti.
– Ma se io volessi cambiare le cose? Se volessi mettere in discussione tutto, ricominciare da zero, avere te al mio fianco e al fianco di Elisabetta? Cosa faresti in questo caso?
– Perché me lo chiedi? – domandai in tono supplichevole, implorandola di smettere. Volevo sfuggire il suo sguardo, ma non ci riuscivo. I suoi occhi verdi, glaciali, mi attiravano come una calamita.
– Perché, per quanto non me lo potessi permettere, mi sono innamorata di te, – rispose Veronica d’un fiato, e come sciogliendosi.
– No, non è possibile, – sussurrai, inebetito da quella dichiarazione assurda.
– Eppure io ti amo, – ribadì Veronica, seria e preoccupata.
Non sapevo cosa dire, cosa fare, da dove cominciare. Non provavo gioia, ma angoscia e paura, quella stessa paura istintiva, animalesca che avevo provato nel momento in cui l’avevo vista apparire in chiesa.
– Non dici niente? – domandò Veronica guardandomi con stupore e tristezza, – non sei felice?
Finalmente la baciai, ma solamente per non doverle rispondere. Fu un bacio lungo e disperato, disperato come il grido di Cristo sulla croce.
– Io non ho scelto, Giosuè, – disse Veronica quando le nostre labbra si separarono, aggrappandosi con entrambe le mani alla mia giacca, come se avesse paura di perdere l’equilibrio e cadere. – Se potessi tornare indietro farei altre scelte, cercherei di essere più coraggiosa e indipendente, ma non è possibile.
– Non devi spiegarmi niente, Veronica, non devi giustificarti. Non devi temere giudizi da parte mia, lo sai. Sei al sicuro con me.
– Lo so, ma non si tratta di questo. Non voglio parlare del passato, ma del futuro, del nostro futuro, Giosuè.
– Nostro? – domandai perplesso e spaventato, sempre più spaventato.
– Non ci siamo incontrati troppo tardi, come hai scritto tante volte in questi mesi. Abbiamo ancora tanto tempo davanti a noi e la possibilità di iniziare una nuova vita, insieme. Voglio te, te e nessun altro al mio fianco, e al fianco della mia bambina, Giosuè. Voglio amarti, completamente, ed essere amata da te. Voglio viverti tutti i giorni…
Veronica era sicura, decisa, la sua voce non tremava, ma era ferma, implacabile.
– Io… non me l’aspettavo, – balbettai scaraventando lo sguardo a terra.
– Basta che tu dica , – disse Veronica, speranzosa, ma nella sua voce questa volta vibrò una nota di terrore. Si stava giocando tutto, ma proprio tutto, la sua intera vita fino a quel giorno, e temeva che questo azzardo risultasse vano.
Davanti a me si apriva la possibilità di una nuova esistenza, al fianco della donna che avevo sempre sognato. Avevo l’opportunità di risorgere, ma risorgere davvero. Bastava pronunciare una piccola e semplicissima parola, che dalla dialettica mi avrebbe catapultato alla vita, dai libri alla realtà, dal niente al tutto. Ebbi la tentazione bruciante, persino irrefrenabile di pronunciarla quella parolina e di iniziare a vivere finalmente, dopo trent’anni di nulla, con e per Veronica, con e per Elisabetta. Veronica era pronta a sacrificare tutto per me, a mettere in discussione tutto, ad affrontare conseguenze che, con ogni probabilità, non sarebbero state piacevoli, a fronteggiare e sconfiggere i giudizi severi della famiglia (quel disperato «Io non ho scelto» rivelava tutta la severità dell’educazione cattolica cui era stata sottoposta Veronica sin da bambina, come mi aveva accennato una volta Pietro). Il punto era questo: meritavo un simile sacrificio? No. Nessuno lo meritava. Non esisteva un solo uomo sulla faccia della terra all’altezza di questo sacrificio e Veronica, prima o poi, se ne sarebbe accorta.
– Non posso dirti sì, – sussurrai infine. Veronica mi gettò le braccia al collo e scoppiò a piangere.
– Perdonami, ti prego, – le sussurravo all’orecchio accarezzandole i capelli.
– Io lo sapevo che mi avresti detto no, lo sapevo, ne ero certa, ma se non te lo avessi chiesto non avrei saputo convivere con questo rimpianto. Ma almeno spiegami perché, – disse Veronica staccandosi da me, asciugandosi gli occhi e sedendosi sulla panchina.
– Perché non merito il tuo sacrificio, nessuno lo merita. Perché sarebbe troppo rischioso rivoluzionare la propria esistenza per un uomo con il quale hai scambiato solamente delle mail, un uomo che non hai vissuto quotidianamente. Il tuo amore potrebbe essere un errore…
– Un errore? – domandò Veronica agitandosi, puntando le mani sulla panchina e protendendosi in avanti. – Io so cosa provo.
– D’accordo, d’accordo, – approvai con imbarazzo, sforzandomi di non contrariarla, di non offenderla, quando ormai il danno era fatto, – ammettiamo che il tuo amore non sia un errore… e in effetti il problema non sei tu, sono io… Sono troppo vecchio e troppo stanco per iniziare a vivere ora, inoltre, se ti dicessi di sì mi sentirei per sempre in colpa con te e con Elisabetta, la cui presenza mi ricorderebbe in ogni istante la tua vita precedente, il tuo matrimonio. Il tuo passato sarebbe un peso che prima o poi finirebbe per schiacciarmi, per annientarmi. Non posso separare Elisabetta da suo padre, non voglio, e poi… e poi… cosa posso offrirvi? Non ho niente, Veronica, io sono niente, – conclusi allargando le braccia e osservandola di sottecchi.
Veronica mi ascoltava, ma non mi guardava e scuoteva la testa. Non sembrava offesa oppure infastidita, anche perché il pianto l’aveva completamente svuotata, solamente non mi credeva.
– Tu hai paura di vivere, Giosuè, una paura fottuta di vivere, me ne rendo conto solo ora, – disse alzandosi dalla panchina e incamminandosi verso la macchina. La nostra storia finiva nel peggiore dei modi e le sue parole mi ferirono, mi fecero male. Veronica mi dava del vigliacco e non potevo contraddirla, non sarebbe servito a nulla.
Nel tragitto dalle grotte di Nerone all’albergo non ci scambiammo una parola.
– Tu non hai capito e non capirai mai quanto sei stato importante per me in questi mesi, – disse Veronica davanti alla porta dell’albergo.
– Lo so, purtroppo, – risposi senza trovare il coraggio di guardarla negli occhi.
– Sei la persona più coraggiosa che abbia mai conosciuto, – aggiunsi.
– Non immagini quanto mi addolori non poter dire la stessa cosa di te, – disse Veronica con un tono di voce e un’espressione del volto terribili, che esprimevano tutta la sua delusione e persino una punta di disprezzo.
Veronica svanì nell’albergo senza dirmi altro e io tornai alla macchina, sfinito. Avevo voglia di dormire, dormire e ancora dormire, di dissolvermi in un sonno eterno e senza sogni.
Forse Veronica ha ragione, forse ho avuto solamente paura di vivere, ma dicendole di no, resistendo alla tentazione di vivere, io ho sconfitto la vita e il dolore, mi sono vendicato della vita, per sempre. Paradossalmente, ora potrei iniziare davvero a vivere. Dopo aver detto no a Veronica, potrei subire qualunque attentato del caso senza battere ciglio: ormai sono immune alla vita e al dolore.
Non ho mentito, né a Veronica né a voi né a me stesso: se l’avessi incontrata in altre circostanze avrei messo in discussione tutto per lei. A queste condizioni no. Non potevo essere la ragione della separazione di Veronica dal marito, di Elisabetta dal padre, non potevo essere la ragione di lotte familiari che avrebbero travolto e distrutto anche me. Se avessi detto sì a Veronica, il senso di colpa avrebbe finito per schiacciarmi e io sarei fuggito da lei. Come avrei potuto guardare Elisabetta negli occhi? Elisabetta avrebbe rappresentato una sorta di rimprovero vivente per me e ogni suo accenno al padre mi avrebbe ferito nel profondo come una coltellata inferta per uccidere. Avrei sentito gravarmi addosso il peso del passato di Veronica e avrei provato una gelosia folle. No, non potevo comportarmi diversamente. Nella vita di Veronica sono stato solamente un intruso, un parassita ed è giusto che sia tornato nella mia tana senza trascinarla con me. Le avrei rovinato la vita, ne sono certo. Ma che importanza ha? Ciò che è stato è stato, tutto si perde nell’insignificanza e nell’insensatezza, tranne la morte.
Perché non siete felici di morire? Perché non andate incontro alla morte, la nostra liberatrice, con il sorriso, lieti e concilianti? Perché siete così attaccati alla vita, come l’ostrica allo scoglio? Perché inorridite, vi strappate le vesti quando una figlia amorevole e pietosa regala al padre, malato terminale, una fine dignitosa e indolore con una semplice iniezione? Perché condannate questa donna coraggiosa? Con quale diritto? Sulla base di quali fantomatiche leggi morali? Finché c’è vita c’è speranza, rispondete, ma speranza di cosa? Nessuno può sostituirsi alla natura obiettate, come se fosse naturale tenere in vita un uomo con delle macchine… Non c’è niente di naturale nelle nostre vite, niente. È forse naturale strafogarsi con cibi prodotti industrialmente? È forse naturale muoversi in auto, in treno, in aereo da un capo all’altro del mondo, curarsi con dei farmaci creati in laboratorio, viaggiare nello spazio? A cosa serve esplorare l’universo, se non a renderlo più piccolo e misero? Non basta alzare gli occhi al cielo per accorgersi che è vuoto? Ma siamo sempre stati troppo arroganti e tracotanti per accontentarci. Cosa abbiamo ottenuto? Con la nostra arroganza e la nostra tracotanza, spacciate per sete di conoscenza, non abbiamo fatto altro che accrescere la nostra miseria e la nostra insignificanza. Dopo lo sbarco sulla luna gli uomini hanno forse smesso di soffrire e di morire? Hanno forse smesso di fare il male e di riceverlo? Hanno forse smesso di essere insoddisfatti e infelici? No, perché il dolore, la morte, il male, l’insoddisfazione e l’infelicità sono il nostro destino. Non c’è via di scampo, neppure nello spazio.
Invece di guardare lontano, di perdervi in spazi sterminati che non hanno niente a che fare con noi, in cui la sopravvivenza è impossibile, dovreste guardare dentro voi stessi, ribellarvi a voi stessi, rivoluzionarvi. Perché non vi sforzate mai di essere migliori? Perché non vi ribellate alla vostra meschinità morale, alla vostra incoscienza, alla vostra povertà di spirito, ma ci sguazzate come maiali nel fango? Perché è così difficile vedere e accettare la vostra miseria, la vostra insignificanza, la vostra insensatezza? È anche colpa vostra se non ho potuto dire sì a Veronica.
Io vi odio. Tutti.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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