Memorie dal nulla – Seconda parte. La tentazione di vivere – VI

Ripetevo in continuazione a me stesso, forse nel goffo e ridicolo tentativo di mantenere vivo un ultimo, grande sogno, che se avessi conosciuto Veronica in circostanze diverse la mia vita sarebbe cambiata radicalmente. Avrei consacrato la mia esistenza a lei, rendendola così meno misera e inutile. Le avrei ricordato ogni singolo giorno quanto la amassi, non avrei sprecato neppure un’ora della mia vita e tutto sarebbe stato meno duro e spigoloso, meno orribile. È umiliante, credetemi, dover fare un uso così massiccio del condizionale e ricorrere così tante volte al se. Tutta la mia vita è costellata di se e ciò che non è accaduto ha la stessa identica importanza di ciò che è accaduto, talmente insignificante e povera di avvenimenti è la mia storia.
Dichiaravo il mio amore a una donna sposata e non provavo rimorso, perché sapevo che non sarebbe mai accaduto nulla tra di noi. Veronica non avrebbe mai rinunciato alla sua famiglia ed era giusto così, la ammiravo per questo. Mi domandavo però se suo marito fosse consapevole della fortuna che gli era capitata. Veronica, naturalmente, non me ne parlava mai, ma avevo un grande rispetto e una grande stima di quest’uomo. Doveva avere delle grandi qualità se Veronica lo aveva scelto come compagno di vita e come padre di sua figlia. Non sapevo se avrei visto anche lui al matrimonio di Pietro (speravo di sì, credetemi, perché la sua presenza avrebbe soffocato sul nascere ogni stupida tentazione); se fosse accaduto lo avrei salutato con rispetto e ammirazione, sottomettendomi alla sua superiorità. Senza dubbio lo avrei invidiato – lo invidiavo -, come non avevo mai invidiato nessun uomo vivo, ma non lo avrei odiato – non lo odiavo, o meglio, non più del mio odio generale per l’essere umano -. Veronica aveva fatto la sua scelta, certamente giusta.
Davanti a quest’uomo, mio coetaneo eppure già marito e padre, ero niente. Non c’era confronto tra di noi e credo che in fondo lo sapesse anche Veronica. Io avrei potuto offrirle, nel migliore dei casi, un amore sconfinato, inesauribile, ma l’amore, per quanto grande, non sfama, non garantisce uno stipendio, non costruisce case. Lui era la terraferma, io un abisso senza fondo. Non mi irritava sapere che mentre dichiaravo il mio amore a Veronica, elevandola a dea, un altro uomo la abbracciasse, la baciasse, facesse l’amore con lei (chissà, durante la nostra corrispondenza potevano concepire un altro figlio!). Era giusto così. Era arrivato troppo tardi e tornare indietro non era possibile. Dovevo accontentarmi di aver conosciuto la mia donna ideale e di scambiare qualche parola con lei, e infatti mi accontentavo, pacificamente, rassegnato alla solitudine e all’impossibilità.
Veronica mi ispirava una fiducia illimitata, che mai nessun altro essere umano mi aveva ispirato, neppure Pietro. Parlando con lei mi sentivo al sicuro, sapevo di non essere giudicato, e lo stesso valeva per lei. Certo, a volte capitava di fraintendersi, ma è inevitabile in un rapporto esclusivamente epistolare. Comunicare con la scrittura è molto più complesso e rischioso che comunicare con la voce, soprattutto se la scrittura rappresenta l’unico mezzo di comunicazione e si è costretti a scrivere tutto. Ma non si può scrivere tutto: la scrittura concede certamente grandi opportunità, ma ha dei limiti netti, precisi che non si possono superare. È possibile manifestare il nostro io più profondo con un semplice sguardo, immediato e spontaneo, mentre si possono versare litri e litri d’inchiostro, imbrattare centinaia e centinaia di pagine senza riuscirci, perché in fondo la scrittura è quanto di più lontano dall’immediatezza e dalla spontaneità, quanto di più innaturale. L’uomo non nasce per passare ore e ore curvo su un tavolo, con il capo chino, e se l’evoluzione della nostra specie procedesse in modo naturale l’individuo malato del vizio della scrittura scomparirebbe in un battito di ciglia. Così, mentre io ero sincero in ogni mia singola mail, talvolta in modo persino scandaloso, Veronica comprendeva, a ragione, che qualcosa di me le sfuggiva. A volte avevo la sensazione di poter trasmettere con un semplice sguardo, o con un semplice gesto della mano, ciò che sulla pagina occupava dieci righe, oppure che sulla pagina era impossibile da spiegare.
Quando Veronica mi scrisse che avevo la capacità di lasciare una traccia indelebile nelle persone che mi conoscevano, naturalmente la contraddissi, ribattendo che di tutte le persone conosciute durante la mia vita non ne restavano che due o tre, i miei amici più cari. Veronica mi rispose che non dovevo rammaricarmi di questo, ma io ero tutt’altro che rammaricato. Provo un sincero sentimento di gratitudine nei confronti di tutte quelle persone che mi hanno lasciato andare senza opporre resistenza e si sono dimenticate di me, perché io sto davvero bene, in pace con me stesso e con il mondo intero, solamente nella solitudine.
Una volta, lo confesso con imbarazzo, lessi in una mail di Veronica un’appassionata dichiarazione d’amore che mi fece tremare. Passai ore d’angoscia, domandandomi se dovessi prendere in mano la situazione e proporre a Veronica di iniziare una nuova vita insieme. Fortunatamente non lo feci, limitandomi a chiedere se fosse cambiato qualcosa. Veronica mi rispose che non era cambiato niente e che la famiglia restava la sua priorità. Effettivamente si trattava di una dichiarazione d’amore, non avevo frainteso del tutto il significato della mail, ma disinteressata, come le mie frequenti dichiarazioni.
Anche per questo motivo, per questo altissimo rischio di incomprensione non mi lasciavo andare del tutto con Veronica. Avevo poche, anzi, pochissime certezze e innumerevoli dubbi. Il nostro era un rapporto strano, per certi aspetti misterioso, indecifrabile, come ogni rapporto basato esclusivamente sulla scrittura, ovvero sull’assenza. L’incontro avrebbe chiarito molte cose, e già al primo sguardo, alla prima parola.

Odio l’estate, con tutto me stesso. Dopo la vita è forse la mia principale nemica. Odio il sole volgare che brucia ogni cosa e non mi dà pace. L’estate aveva un senso, e un senso meraviglioso, quando andavo a scuola, rappresentava la libertà e la spensieratezza. Finita la scuola avevo iniziato a detestarla, automaticamente, perché non interrompeva più niente, non era più una pausa salutare, ma una lenta e sadica tortura. Quando andavo a scuola passavo tutta l’estate al mare, tra interminabili partite di calcio e corteggiamenti impossibili. Non c’era giorno che non andassi in spiaggia, dove mi recavo all’alba e dove restavo ben oltre il tramonto. Questo fino ai diciannove anni. Da quando ne ho venti passo i maledetti tre mesi più caldi dell’anno accartocciato nella mia camera, la persiana chiusa e la luce accesa, in una devastante innaturalezza. È come se attendessi la fine dell’estate in apnea, con i giorni che colano via con una lentezza esasperante, come vernice. La certezza di vedere Veronica mi rese lieve l’agonia estiva. Pietro mi aveva dato la notizia della sua presenza al matrimonio alla fine di giugno e, per la prima volta dopo dieci, undici anni di odio insensato, luglio e agosto non mi pesarono troppo: ero tutto concentrato, tutto compresso nell’attesa. Mi svegliavo, leggevo per due o tre ore, magari scribacchiando qualcosina, e poi passavo il resto della giornata pensando al nostro incontro. Tutto ciò che mi circondava svaniva, si dissolveva nel nulla e non aveva più alcuna importanza se fuori c’erano quaranta gradi e la terra bruciava. Avevo solamente Veronica nella testa. Era dappertutto.
Non avevo mai pensato così intensamente, con ogni singola fibra del mio essere, fisica e spirituale, a una donna. Nello stesso modo avrei pensato a Dio se avessi avuto il dono della fede, tentando di mettermi in contatto con lui e di comprenderlo. Immaginavo il momento in cui finalmente avrei visto Veronica, le avrei stretto la mano, avrei scoperto la sua voce e tornavo a provare, dopo anni di niente, una sensazione simile all’entusiasmo. Ora i giorni che scivolavano via non erano tappe di avvicinamento alla morte – non solo -, ma all’incontro con Veronica. Nessuna folla inferocita (anche se con una folla inferocita avremmo dovuto fare i conti, quella degli invitati) la avrebbe allontanata da me questa volta. Sarebbe stato un momento indimenticabile, che se non dava un senso alla mia vita, almeno la rendeva meno insignificante. Dalla fine dell’università, dunque da più di due anni, non avevo obiettivi da raggiungere; ora avevo Veronica davanti a me, la mia donna ideale. Lei era il mio traguardo.
Avrei dovuto accontentarmi di vederla, di parlare con lei, non potendomi gettare ai suoi piedi e dichiararle tutto il mio amore, ma andava bene così, era meglio di niente. Cosa le avrei detto? Quali sarebbero state le mie prime parole? Volevo che fossero parole memorabili, dovevano imprimersi a fuoco nell’anima di Veronica. Doveva trattarsi di una frase breve, concisa, di tre, massimo quattro parole, ma incisiva, efficace, d’impatto, come un motto. Una frase che racchiudesse, compendiasse il significato che Veronica aveva per me, esprimendolo con semplicità e garbo. Non era semplice e a questa attività di ricerca, di scandaglio dentro me stesso dedicai molto tempo. C’erano giorni in cui brancolavo nel buio senza riuscire a trovare niente, schiantandomi ripetutamente contro il muro della paralisi creativa, e giorni in cui la mia mente scovava un’enorme quantità di frasi. Le scrivevo e le ripetevo ad alta voce, adattando a ogni frase il tono e l’espressione più adatti, come un attore che prova le battute. A volte avevo il sospetto che questo ridicolo esercizio, oltreché ridicolo appunto, fosse anche perfettamente inutile, perché forse la vista di Veronica mi avrebbe mandato in tilt il cervello e avrei persino dimenticato le parole ricercate con tanta cura. In ogni caso, era un modo come un altro per ingannare l’attesa, e non l’attesa della morte, una volta tanto.
Alla fine scovai la frase giusta, questa: «Dunque esisti davvero». Tre semplici parole che riassumevano alla perfezione, con semplicità, leggerezza e sobrietà ciò che Veronica rappresentava per me: l’incarnazione dell’ideale. Lei stessa, soprattutto all’inizio della nostra corrispondenza, si era domandata più volte se io esistessi davvero oppure no, dunque una frase del genere sarebbe potuta venire in mente anche a lei in quel momento e di certo non l’avrebbe dimenticata facilmente. L’incontro avrebbe reso davvero reali le nostre esistenze l’uno per l’altra, e avrebbe conferito una consistenza materiale al nostro rapporto. Avrei dovuto pronunciare queste parole a bassa voce, accompagnandole con un sorriso modesto, appena accennato, carezzevole, manifestazione visiva di quel lieve e gioioso stupore espresso dalla frase.
Ripetei la frase dieci, venti, trenta volte ad alta voce, perfezionando il tono e il sorriso, persino davanti lo specchio. Ma quando la mia attenzione si spostò dalle parole, di cui ormai avevo perduto il senso, al mio volto, mi sentii ridicolo come poche altre volte nella mia vita e tacqui di colpo. Il sorriso svanì lasciando spazio a un’espressione dura e severa, persino rabbiosa. Un pensiero improvviso, sbucato fuori dal nulla, mi aveva trafitto, ferito e offeso: mentre io passavo intere giornate a cercare le parole giuste, recitandole come uno scemo davanti allo specchio, Veronica viveva la sua vita come se niente fosse, come se non esistessi. Ancora una volta, l’ennesima, mi ritrovavo a fare i conti con la mia stupida, nauseante autoreferenzialità. Decisi di non pensare più a Veronica con quell’intensità ossessiva, immotivata e me la presi con me stesso. Se fossi rimasto un secondo di più davanti allo specchio mi sarei sputato in faccia.
Per la prima volta nella vita, mi ribellai alla mia donna ideale. Non potevo lasciarmi travolgere in quel modo, come un adolescente, da un amore che non aveva futuro, da un amore mutilato, che non poteva essere corrisposto e si perdeva nel nulla, come tutti gli altri amori della mia vita. Forse Veronica non era neppure la mia donna ideale. La mia donna ideale non si sarebbe mai sposata, se non con me, non avrebbe mai messo al mondo dei figli, se non con me. Di colpo mi apparve tutta la stupidità e l’insensatezza della mia devozione per Veronica, una donna che non sarebbe mai stata mia, una donna che, mentre provavo e riprovavo la frase che avrebbe dovuto segnare per sempre la sua vita, dormiva con un altro uomo, suo marito.
Ero in preda a un’ira funesta e corsi fuori di casa, nel sole distruttivo di luglio. Avevo bisogno di sfogarmi, così afferrai la zappa e iniziai a colpire il terreno incolto con furia, senza un criterio, a vanvera (proprio accanto alla casa abbiamo un campo che io stesso, dopo i miei nonni e i miei genitori, ho coltivato, quand’ero ragazzo). Solamente la fatica poteva guarirmi, e in fretta, dalla rabbia. Dopo appena qualche minuto le braccia cominciarono a farmi male e lasciai cadere la zappa, ma non mi arresi e ricominciai a colpire la terra, come se fosse lei la colpevole di tutto (in un certo senso era così), sebbene con meno foga. Sentivo la stanchezza impossessarsi di me colpo dopo colpo, diffondersi dalle braccia in tutto il corpo, e il sole cuocermi e stordirmi. Non pensavo più a Veronica e alla mia ridicolaggine, ma a quanto sia faticoso lavorare la terra, così bella e soddisfacente, ma così maledettamente bassa, come diceva sempre mia nonna. Dopo più o meno un’ora, sfinito, nero di polvere e fradicio di sudore, mi sdraiai sotto un albero, un ciliegio sfigurato dal caldo, che già iniziava a perdere le foglie, e mi addormentai quasi di colpo.
Quando mi svegliai, la rabbia aveva lasciato spazio a una profonda e cupa amarezza. Ancora una volta ero vittima di me stesso, del mio pessimo carattere, che esasperava ogni cosa, ogni situazione, ogni relazione, ogni sentimento, facendo di un minuscolo e innocuo granello di sabbia un asteroide minaccioso pronto a distruggere la terra. Veronica mi esortava a lasciarmi andare, ma se mi fossi mostrato a lei per quello che sono, interamente, senza mediazioni, senza censure, sarebbe fuggita da me con spavento. Non avevo nessun diritto di pensare a lei tutti i giorni, a tutte le ore e mi sentii in colpa per questo. Era disonesto da parte mia dare a Veronica così tanta importanza, come se non fosse sposata e non avesse una figlia, disonesto e offensivo, per lei e per me stesso. All’amarezza subentrò presto la vergogna e pensai di interrompere la nostra corrispondenza, dunque il nostro rapporto. Se lo avessi fatto mi sarei liberato di quell’amore ossessivo, totalizzante, invadente e sarei tornato alla vita di prima, vuota, sì, ma almeno dignitosa. Veronica avrebbe accettato la mia decisione, compreso le mie ragioni e al matrimonio di Pietro ci saremmo salutati senza troppo imbarazzo e trasporto, come due semplici conoscenti che non devono aspettarsi niente l’uno dall’altro. Non ci sarebbero state aspettative e dunque non ci sarebbe stata ansia. La giornata sarebbe volata via velocemente e senza impegni, senza scossoni, poi non ci saremmo mai più rivisti in vita nostra.
Rientrato in camera trasformai il pensiero in azione, afferrai il computer e scrissi la mia lettera d’addio a Veronica. La ringraziavo con calore e tessevo le sue lodi, le dichiaravo per l’ultima volta il mio amore e le auguravo ogni bene, a lei e alla sua bambina, infine le spiegavo che per l’ennesima volta nella mia vita la spietata logica del tutto o niente finiva per avere il sopravvento, tiranneggiando le mie scelte.
Pensavo davvero, credetemi, che interrompere il nostro rapporto fosse un bene per entrambi, ma non inviai subito la mail. Prima di farlo volevo ripercorrere con la mente il nostro carteggio. Salvo forse la prima volta, Veronica non mi aveva mai scritto ciò che desideravo mi scrivesse. Ma cosa desideravo? L’impossibile. Forse avrei dovuto parlargliene, aprirmi, renderla partecipe della mia insoddisfazione, ma non volevo correre il rischio di contrariarla. Meglio svanire senza fare troppo rumore, senza disturbare, come sempre.
Riflettevo, domandavo, rispondevo e, per la prima volta, mi rendevo conto di quanto avessi idealizzato Veronica. Avevo idealizzato praticamente tutte le donne della mia vita, ma nessuna tanto quanto lei. Sono sempre stato un uomo spropositato, nelle idee, nei sentimenti, nelle valutazioni, nei giudizi, ma mai così spropositato come in quegli ultimi sei mesi. Non rinnegavo niente, sia chiaro, non una sola parola della nostra corrispondenza, e non ridimensionavo Veronica, che restava e sarebbe rimasta, in ogni caso, una creatura straordinaria, fuori del comune, semplicemente mi accorgevo di quanto avessi esagerato. Lei non aveva nessuna colpa e non provavo sentimenti ostili nei suoi confronti. Ce l’avevo solo con me stesso, per essermi dimostrato, ancora una volta, l’ennesima, inadeguato, autoreferenziale, esasperato ed esasperante.
Possibile che non ci fossero altre soluzioni, meno estreme e melodrammatiche dell’addio? Interrompendo in modo così brusco e improvviso il nostro rapporto non rischiavo di risultare ridicolo, o meglio, ancora più ridicolo del solito? Veronica mi conosceva bene, forse come nessun altro, sapeva che decisioni radicali di questo tipo fanno parte della mia natura e avrebbe compreso e accettato la rottura, non avevo dubbi, ma dicendole addio in quel modo, a poche settimane da un incontro che si sarebbe stato comunque, interrompevo davvero il nostro legame? La mia mail di commiato non rischiava di apparire come un ultimo, estremo, disperato tentativo di conquistare il suo amore? Non mi allontanavo per avvicinarmi ancora di più, sperando di ricevere in risposta una preghiera di restare? Forse la cosa migliore sarebbe stata resistere ancora per un paio di mesi e poi dire addio a Veronica di persona. Questa idea mi colpì nel profondo. La mia mente esasperata produsse subito quell’immagine e provai un entusiasmo coinvolgente. Sì, avrei fatto così, e nelle settimane di attesa avrei preparato il terreno alla separazione, assumendo un tono elegiaco nelle mie mail. Questa decisione mi donò serenità e la tensione accumulata fino a quel momento si disperse in poche ore, come se non ci fosse mai stata.
Ritrovai la calma e dal quel momento iniziai a pensare a Veronica come a una persona già svanita dalla mia vita. Tornai a quel sentimento di vedovanza provato all’inizio della nostra corrispondenza, sentimento dolcissimo e confortevole nella sua rassegnazione. Consciamente o meno, avevo sovraccaricato me stesso di aspettative e alla fine ero imploso. Non potevo, non dovevo e non volevo aspettarmi qualcosa di diverso da ciò che era accaduto finora, era un obbligo, un imperativo morale. Dovevo ristabilire la distanza tra me e Veronica, soffocando ogni slancio fantasioso. Lei era là e non potevo raggiungerla, mi era preclusa, ma almeno il caso mi concedeva la possibilità di dirle addio guardandola negli occhi.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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