In quei tre mesi di attesa nessuno di noi due parlò del nostro incontro, come se avessimo un tacito accordo. Del resto, parlarne non sarebbe servito a molto e poi temevo di turbarla, così come lei, forse, temeva di turbare me. Meglio andare avanti come se niente fosse: quel giorno, in quel luogo, a quell’ora ci saremmo visti e solo questo contava.
È difficile scrivere queste pagine, molto più difficile di quanto pensassi. La penna non scorre fluida, ma s’inceppa e procedo a fatica come un aratro che solca la terra arida, dura. Scrivo una frase, mi fermo, osservo la parete che mi sta davanti, senza pensare a niente. Non scrivo per parecchi minuti e mi viene un sospetto terribile: che tutto ciò che ho raccontato e intendo raccontare non sia accaduto davvero, ma sia solo un sogno. Poi però osservo le mail di Veronica e allora ricomincio a scrivere, ma sempre con grande fatica (peraltro ho esaurito la mia scorta di penne nere e sono costretto a utilizzare penne blu, una circostanza che può sembrare insignificante, ma che rende tutto ancor più difficile, credetemi).
La presenza di Veronica conferiva al matrimonio di Pietro un ulteriore significato. In un certo senso, completamente metaforico, quel giorno avrebbe rappresentato la fine della mia vita per come la conoscevo e interpretavo fino a quel momento. Pietro si allontanava da me per sempre e io mi allontanavo per sempre dal mio sogno d’amore incarnato da Veronica. In realtà, non è che mi allontanassi, non è questo il termine adatto, semplicemente il mio sogno d’amore sarebbe andato in frantumi.
Perché mi costa tanta fatica scrivere queste pagine? A volte vorrei farla finita, deporre la penna e bruciare tutti i fogli imbrattati finora, tanto mi sono venuto a noia. Mai come in questo caso la scrittura mi costringe a fare i conti con me stesso, con la mia miseria, quando da me stesso e dalla mia miseria vorrei fuggire a gambe levate. Non mi sono mai piaciuto, mai, ma non in quanto me stesso, bensì in quanto uomo. Tuttavia, questi avvenimenti sono gli unici della mia vita che meritino di essere raccontati, di lasciare una traccia, per quanto fugace, e così mi costringo ad andare avanti, sebbene ogni frase, orribilmente blu, e ogni ricordo rappresentino un pugno nello stomaco.
I nostri amici avevano accolto la notizia del matrimonio di Pietro con entusiasmo e attendevano il giorno delle nozze con trepidazione. Conoscevo Pietro da sempre e non è una frase fatta, ci avevano persino battezzato insieme. I nostri genitori erano capitati nello stesso banco della chiesa. Dopo tre anni ci ritrovammo in classe insieme all’asilo e da quel momento non ci separammo più: fummo compagni di banco alle elementari, alle medie e infine alle superiori. All’università le nostre strade si separarono e Pietro conobbe Sara. Era giusto che loro due si sposassero, ovvero suggellassero ufficialmente la loro unione (la forma del rito non aveva alcuna importanza, contava il senso della cerimonia). In dodici anni di fidanzamento non avevo visto un solo istante di esitazione in Pietro: desiderava Sara e nessun’altra, e per Sara, una delle persone più buone che abbia mai conosciuto, era la stessa cosa. Erano fatti l’uno per l’altra, ma davvero. Ho visto ben poche coppie così affiatate, così intimamente legate. Insieme formavano una sola cosa, un solo essere indivisibile. Nonostante questo, Pietro era sempre stato restio all’idea del matrimonio, ma Sara lo desiderava più di ogni altra cosa e alla fine aveva ceduto. Io lo avevo convinto a cedere. Sapevo quanto amasse Sara, quanto le fosse devoto, e quanto Sara lo amasse e fosse devota a lui: nel loro caso il matrimonio, sotto qualunque forma, rappresentava il coronamento ideale della loro unione. Sara voleva sposarsi, lo desiderava nel profondo, con ogni singola fibra, materiale e immateriale, del suo essere; perché Pietro, amandola più di ogni altra cosa, doveva negarle questa gioia? Cosa gli costava? Porsi direttamente a lui queste domande e lo convinsi.
Il matrimonio di Pietro avrebbe avuto un impatto importante anche sulla mia vita (benché tutto ideale, visto che ci eravamo separati da anni ormai), ne ero consapevole, e infatti la notizia ufficiale della sua unione con Sara mi aveva trafitto nel profondo, rattristandomi (per motivi che riguardavano me solo, sia chiaro), ma lui doveva compiere questo passo, erano la sua natura e la sua vita a imporglielo. Pietro aveva deciso di mettersi in gioco, di costruire, di lottare, di sgomitare e doveva sposarsi, doveva farlo. Aveva avuto la fortuna di trovare Sara e doveva assecondarla, lasciarsi guidare da lei, esaudire i suoi desideri. Sara voleva sposarsi e Pietro doveva sposarla. Sara voleva un figlio e Pietro doveva darglielo. Pietro aveva scelto una vita che gli portava in dote tutte queste responsabilità e non poteva tirarsi indietro. Con il matrimonio avrebbe iniziato una nuova fase della sua vita, sarebbe diventato un altro uomo, verso il quale non avrei provato lo stesso affetto di un tempo e convincerlo a sposarsi fu, in un certo senso, come dirgli addio. Ma era inevitabile che accadesse.
Nonostante il nostro rapporto quasi fraterno, io e Pietro eravamo – siamo – molto diversi, dentro e fuori: lui alto quasi due metri, io neppure un metro e settanta, lui forte e possente, io debole e magro, lui incapace di odiare gli uomini, io per buona parte della mia vita animato solamente dall’odio per me stesso e i miei simili. Se avessi avuto la sua statura e la sua forza avrei cercato lo scontro fisico in continuazione, con chiunque, per ogni minima sciocchezza. Pietro è una sorta di gigante buono e innocuo, io una sorta di piccolo demonio costretto a sfogare la sua rabbia sulla pagina. Pietro non ha mai conosciuto la disperazione, ha sempre ottenuto ciò che voleva e si ritiene felice e soddisfatto. Non ha mai conosciuto il sottosuolo, il fango ed è senza macchia. Io ho peccato anche per lui, ma non gliel’ho mai rinfacciato, sia chiaro, e se l’ho invidiato l’ho sempre fatto in silenzio, di nascosto. Pietro può accontentarsi del sogno, senza desiderare altro.
– Se fossi in te mi accontenterei di immaginare cosa sarebbe successo se lei avesse corrisposto il tuo amore. Almeno immaginando non si corre il rischio di restare delusi, – mi disse una volta, commentando uno dei miei tanti fallimenti sentimentali.
– Perché tu sei a posto così e non hai bisogno di altro, mentre io non ho niente, – gli risposi infastidito e offeso dalla sua fortuna.
Pietro in fondo non mi comprendeva e non poteva comprendermi, come nessun altro del resto. Per lui era inconcepibile che un uomo pensasse tutti i giorni alla morte, per lui un uomo doveva vivere, senza porsi troppe domande, o meglio, porgendosi solo certe domande. Io ero fatto in tutt’altro modo e il giorno del suo matrimonio sarebbe andato in scena il trionfo della nostra differenza. In quel giorno avrei brindato alla nostra separazione, alla fine della nostra amicizia trentennale, e mentre lui, al termine della giornata, sarebbe tornato a casa in compagnia della sua sposa, io sarei tornato a casa solo come mai prima, perché l’incontro con Veronica avrebbe reso la mia solitudine definitiva, irreversibile.
In quei tre mesi di attesa non parlammo mai del nostro incontro e brancolavo nel buio domandandomi cosa ne pensasse Veronica. Sapevo soltanto che la notizia del nostro incontro non l’aveva lasciata indifferente, perché non poteva essere altrimenti. Tuttavia, non riuscivo a spingermi oltre questa ovvietà e in più di un’occasione ebbi la tentazione di domandarle quali sensazioni suscitasse in lei il nostro incontro imminente. Mi trattenni, per il timore di metterla in difficoltà. Non volevo pensasse che io nutrissi delle aspettative e che questo pensiero la condizionasse negativamente. Doveva essere tutto naturale, o meglio, spontaneo. Io, da parte mia, non mi aspettavo niente, anzi, sapevo che, superato l’entusiasmo iniziale, sarei sprofondato nello sconforto, e che quella giornata di festa per me si sarebbe trasformata presto in un calvario.
Veronica intanto, nelle sue mail, mi esortava a vivere. Anche lei, come mia madre, come mio padre, come mia sorella, come Pietro. Secondo lei avevo delle qualità e dovevo vivere per queste. Sapevo scrivere, sapevo ascoltare, sapevo capire, avevo il dono di cambiare la vita delle persone, diceva.
«Devi vivere, Giosuè, vivere, osservare e scrivere. Devi lasciarti andare. Non ha importanza se nessuno pubblicherà i tuoi testi, tu devi scrivere, mostrare e spiegare ciò che vedi. Un giorno ti leggeranno e apprezzeranno in tanti, credimi. Nel frattempo devi resistere, stringere i denti, fare qualche piccola concessione, accettare qualche piccola deroga», mi scrisse una volta.
Fare ciò che consigliava Veronica significava scommettere a occhi chiusi sull’avvenire. Avrei dovuto scommettere e sacrificarmi, sopportare tutto nella speranza di raccogliere i frutti in futuro, ma non vedevo nessun futuro per me, e non lo vedevo perché non c’era, e non c’era perché non volevo che ci fosse. Solo lei, Veronica, avrebbe potuto regalarmi un futuro, ma non era possibile. Veronica aveva preso un’altra strada, che procedeva in parallelo rispetto alla mia. Le nostre strade si sarebbero incontrate all’infinito, dunque mai.
Con i miei testi – e i testi sono una cosa, l’uomo un’altra – avevo cambiato la vita di Veronica e lei era fermamente convinta che, oltre alla sua, ne avessi cambiate molte altre. Non lo sapevo, nessuno me ne aveva mai parlato, ma tendevo a credere di no. In ogni caso, Veronica, per la prima volta dopo tanti anni, si ritrovava a fare i conti con idee e sensazioni represse: in lei avveniva una sorta di risveglio spirituale, cui assistevo con grande interesse. Una creatura umana andava evolvendosi e perfezionandosi sotto i miei occhi, affrontava un processo di completamento individuale scaturito dalla lettura dei miei testi. Veronica, stimolata dalle mie parole, riportava alla luce pensieri sepolti, che l’avevano turbata quand’era un’adolescente schiva e spaesata, riassorbendoli in una fase di maturità e di consapevolezza. Io mi ero cristallizzato da un pezzo, ibernato nel nulla, ed era davvero interessante assistere all’evoluzione di una persona ancora in divenire. Veronica era viva, il mutamento spirituale e intellettivo ne era una dimostrazione evidente, e io la osservavo immobile, paralizzato, fissato per sempre. Era come se mi gravitasse attorno mutando forma. Al termine di questo processo evolutivo si sarebbe scoperta ancora più matura, consapevole, forte e coraggiosa. Io ero la ragione di questo cambiamento e, dopo averlo avviato, dovevo incoraggiarlo. Non c’era niente da temere, Veronica era troppo viva per approdare al nulla. Avrebbe raggiunto un equilibrio ideale e non avrebbe avuto più bisogno di nascondere qualcosa a se stessa. Avrebbe contenuto e compreso tutto in se stessa. Non intendevo affatto guidarla, ma semplicemente stimolarla e credo di esserci riuscito.
In una mail mi scrisse che avrei dovuto essere indulgente e gentile con me stesso come lo ero con lei. Veronica voleva che mi vedessi come lei mi vedeva e non come mi vedevo io, almeno per una volta. Lei vedeva una persona bella e comprensiva, che aveva tanto da dare a se stesso e agli altri, io uno spettro alla fine dei suoi giorni. Non lo diceva per il proprio interesse, ma per il mio, del resto non poteva permettersi di innamorarsi di me (lo aveva dichiarato subito, all’inizio della nostra corrispondenza, perché questo rischio, incredibile ma vero, esisteva) e allora modellava i suoi sentimenti in una sorta di affetto fraterno, o almeno così credevo.
Veronica mi esortava a lasciarmi andare, nella vita come nella nostra corrispondenza. Non dubitava della sincerità delle mie parole e ammirava la mia feroce coerenza, ma aveva la sensazione nitida che qualcosa le sfuggisse, che in me ci fosse altro, qualcosa che riusciva a intravedere solo di tanto in tanto. Aveva ragione, perché anche nel nostro rapporto ero prigioniero del mio pensiero e della parte più buia di me stesso. Sapevo di poter risultare gelido e distaccato talvolta, persino nelle mail in cui le dichiaravo il mio amore, quasi si trattasse di uno stimolo esclusivamente cerebrale, ma il fatto è che mi sforzavo di reprimere la passione (intesa anche come sofferenza fisica e non solo come trasporto) che mi ispirava Veronica. Non volevo attentare alla sua serenità, al suo equilibrio, alla sua famiglia, alla sua vita e così soffocavo gli impeti passionali che pure mi scuotevano. Veronica voleva che mi mostrassi come un uomo fatto di carne e sangue, quale dovevo pur essere, senza nascondermi sotto un cumulo di teorie, ma ciò sarebbe stato possibile solamente se ci fossimo incontrati in circostanze diverse. A volte il desiderio di vederla era davvero incontenibile e mi bruciava come un autodafé, se non fosse stata moglie e madre sarei corso da lei subito, dopo aver letto la sua prima mail, ma lei era sposata, aveva una famiglia, un marito, una figlia di pochi anni. Le circostanze soffocavano il desiderio, lo schiacciavano come uno scarafaggio.
Eppure, nonostante tutte queste beghe mentali, al termine dell’estate avrei visto Veronica, avrei avuto l’opportunità di parlare con lei, di ascoltarla, di osservarla. Avrei conosciuto finalmente la sua voce (una mancanza davvero enorme per me), avrei scoperto i suoi gesti caratteristici, ricorrenti, il modo di camminare, di sorridere, di sistemarsi i capelli. Così avrei potuto assorbirla, interiorizzarla completamente, farla del tutto mia e sperare di ritrovarla in sogno, dove avremmo potuto vivere ciò che la realtà ci precludeva. Non chiedevo niente di più.
Dal 29 gennaio, ovvero dal giorno in cui avevo ricevuto la sua prima mail, pensavo a Veronica tutti i sacrosanti giorni. La morte non era più il mio unico pensiero dominante, alla morte si affiancava lei, Veronica, ed erano in relazione. Se esisteva, resisteva ancora una piccola, piccolissima speranza di salvezza e di resurrezione per me, moriva con la scoperta e la conoscenza di Veronica. Ora ero completamente solo e disperato, come mai prima. Era davvero finita per me, anche l’ultimo spiraglio si chiudeva per sempre e non potevo fare niente per impedirlo. Ancora una volta, l’ennesima, il caso si prendeva gioco di me con sopraffina crudeltà, come se avessi commesso qualche colpa imperdonabile. Sarei morto da solo, abbandonato a me stesso, come avevo sempre sospettato. La conoscenza di Veronica era la conferma ultima, definitiva, estrema del mio destino di solitudine e di impossibilità.