Memorie dal nulla – Prima parte. Il nulla – I

A Debora

Nihil vincit omnia

La consapevolezza è la mia malattia mortale. Consapevole dell’insensatezza della vita, della vanità del tutto, della miseria, dell’inutilità, dell’insignificanza di ogni singolo individuo, nessuno escluso, del destino d’infelicità e di dolore del genere umano e non solo del genere umano, ma di tutti gli animali e di tutti gli esseri, per legge di natura, consapevole che la cosa migliore è non nascere e la migliore dopo questa è morire presto, perché tutto ciò che è, è male e non vi è altro bene che il non essere, come potrei vivere? Potrei, al massimo, seppellirmi vivo in un buco, uno scantinato o qualcosa di simile, e lì attendere la fine, ma niente di più.
Il principale e più grave effetto della consapevolezza è l’inerzia, l’immobilismo, la paralisi. Privo di ambizioni, di aspirazioni, di sogni, di desideri, di speranze, persino di illusioni, mi trovo in una condizione di indifferenza, di distacco, di esclusione in cui tra vivere e morire non c’è più alcuna distinzione. Dentro di me e attorno a me è il nulla. Non c’è più niente che mi entusiasmi, mi esalti, mi appassioni, niente che, insomma, mi faccia sentire vivo. La mia esperienza esistenziale si è conclusa qui, a trentuno anni.
Non c’è niente di spaventoso, niente di terribile in questo, anzi, è tutto perfettamente naturale, e non solo nel mio caso specifico, ma in generale, perché la vita di un uomo non si esaurisce mai con la morte, ma molto, molto prima, soprattutto al giorno d’oggi, con questo smisurato, volgare e immorale allungamento dell’età media. Salvo rarissime eccezioni, che non fanno altro che confermare la regola, un uomo non dovrebbe vivere più di quarant’anni. Superata questa soglia la sua presenza, oltreché inutile, diviene persino dannosa, soprattutto se ha commesso l’imprudenza, o meglio, il crimine di generare una nuova vita. Capisco che un animale faccia di tutto per sopravvivere, ricorra a ogni mezzo per restare in vita il più a lungo possibile, ma un uomo no. È stupido e innaturale trascinarsi su questa povera terra dimagrata per cinquanta, sessanta, settanta, ottanta, novant’anni come se fossimo immortali e innocui per noi stessi e per gli altri, come se la nostra presenza fosse pacifica e non producesse danni irreparabili. Destinando l’uomo all’infelicità, al dolore e dotandolo al tempo stesso di una coscienza, la natura ci impone di trovare soluzioni alternative a questo nostro stato miserevole, di insoddisfazione permanente, ed è quello che tentate di fare ogni sacrosanto giorno, ve lo riconosco, ma in modo sbagliato, ricorrendo all’amore, immergendovi a capofitto nella lotta, resistendo al tempo, aggravando la vostra pena insomma. La soluzione è una e una soltanto: morire al più presto, scomparire nel nulla il prima possibile e per sempre, quel nulla dal quale siamo sbucati un giorno nostro malgrado, per un capriccio del caso. Solamente la morte è la cura, quella morte che, nella vostra debolezza, nella vostra incoscienza, vi sforzate di rifuggire, di allontanare da voi come la peggiore delle disgrazie, mettendo al mondo dei figli, sopravvivendo a oltranza. Ma è la vita la peggiore delle disgrazie, la nemica da combattere, il male da estirpare, non la morte, la sola fortuna di cui ci è dato godere dopo la tragedia della nascita.
Alcuni di voi, i più suscettibili, si domanderanno perché non mi sia ancora ucciso, facendo un favore a me stesso e agli altri. Innanzitutto ci tengo a precisare che, rispetto a quanto possa sembrare dalle mie parole maleducate, sgarbate, non mi ritengo affatto superiore a tutti voi, ma semplicemente diverso. Non voglio che sorgano equivoci sotto questo aspetto. Sono sempre stato perfettamente consapevole della mia miseria, della mia insulsaggine, della mia insignificanza: benché mio malgrado sono un uomo come tutti voi, dunque misero, insulso e insignificante tanto quanto voi. In secondo luogo, sappiate che penso al suicidio tutti i sacrosanti giorni da quando sono un adolescente, da quando cioè hanno iniziato ad attecchire in me i primi germi della consapevolezza. Sapere di potermi liberare della vita in qualunque momento, con un gesto semplicissimo, è stato in tutti questi anni il mio unico, vero motivo di conforto. Non ne ho mai trovato uno altrettanto efficace (avrebbe potuto essere il sonno, ma solo se depurato della certezza del risveglio). In ogni caso, non mi sono ucciso, purtroppo per voi e per me stesso, e non tanto per viltà, quanto per non commettere, insieme con il suicidio, un duplice omicidio. Non perdonerò mai i miei genitori per avermi messo al mondo, d’accordo, ma non sono mai stato egoista a tal punto da punirli con il dolore atroce, insopportabile causato dalla mia morte volontaria. So fin troppo bene che le loro vite, come quelle di ogni genitore costretto a seppellire un figlio (come voi ne ho visti tanti), andrebbero in frantumi con la mia, e io non ho nessun diritto di infliggere loro un colpo simile, per quanto possano essere in debito nei miei confronti (un debito insaldabile).
In realtà, tutte queste riflessioni appartengono al passato. Ora, come ho scritto sopra, mi trovo in uno stato di indifferenza tale che tra vivere e morire non c’è più alcuna distinzione. Nelle mie condizioni, nel mio vuoto, vita e morte sono esattamente la stessa cosa. Voglio comunque rassicurarvi: coerente con le mie idee, non supererò i quarant’anni. Allora la vecchiaia inoltrata ridimensionerà il dolore dei miei. A meno che il caso non voglia farmi la grazia di strapparmi da questa povera terra prima, come talvolta, ancora oggi, senza neanche rendermene conto, quasi inconsciamente, mi ritrovo a sperare.
Non mi capite, lo so, non potete capirmi. Nessuno può capirmi. Dovreste indossarmi per comprendermi, pensare con la mia testa rasa al suolo dalla consapevolezza, vedere con i miei occhi dalle palpebre recise, ma non è possibile. Non c’è mai stata un’effettiva comunicazione tra me e voi, del resto sono la voce del nulla e il nulla non si comunica, non si racconta, si vive e basta. Svanita la sbornia giovanile dell’ambizione, della brama di successo, capisco perché i miei testi sono passati inosservati, le mie parole inascoltate: ho sempre smascherato le vostre menzogne, sbattendovi in faccia la realtà nuda e cruda, mostrandovi la vostra irriducibile miseria e il nulla che vi circonda. Come potevo sperare di trovare un editore disposto a pubblicare i miei maleducati libercoli, le mie ciance da malpensante? C’è stato un tempo in cui, lo confesso, dei miei insuccessi, dei miei fallimenti ho sofferto, e non poco, ma ora non più. Ora me ne frego, e basta. Del resto, in un mondo inquinato da scribacchini mediocri, irrilevanti, i cui libri e i cui nomi non sono altro che fuochi fatui destinati a finire presto nel dimenticatoio, la mancata pubblicazione è un attestato di valore.
A proposito di editori. Una volta, nella sede di una casa editrice, ho visto appeso un manifesto con su scritto, a caratteri cubitali: IL NULLA NON C’È. Ecco, io sono la confutazione in carne e ossa di questa baggianata colossale. Io sono il nulla, e sapete cosa vedo intorno a me quelle poche volte che esco di casa, con i miei occhi dalle palpebre recise? Un mondo in macerie popolato di cadaveri. Nient’altro.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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