I taccuini di Tarrou – 446 – Ne vale la pena?

Quante persone vivono non perché è imposto loro di vivere, ma perché hanno scelto di vivere? La vita autentica e libera richiede necessariamente consapevolezza, ed è frutto di una scelta; tutto il resto – la vita comunemente intesa – è soltanto sopravvivenza e agonia, incoscienza e sofferenza aggiunta, come se non bastasse quella dovuta al semplice fatto di essere, di esistere.

Ogni uomo, primo e ultimo, dovrebbe domandarsi se valga la pena vivere oppure no, e rispondere, e scegliere, tra la vita e la morte, tra l’essere e il nulla. È questo il primo, originario dovere ontologico dell’uomo. Non c’è niente di estremo, niente di crudele in queste mie parole. Conosco un solo uomo che ha scelto la morte, il nulla: Philipp Mainländer. Soltanto nel caso del filosofo tedesco il suicidio è frutto della scelta del non-essere; in tutti gli altri casi (Kleist, Michelstaedter, Pavese) il suicidio è frutto di un collasso psichico o di un irresistibile bisogno d’oblio.

Per quanto mi riguarda, non credo che valga la pena vivere, perché non c’è gioia, non c’è soddisfazione, o almeno io non ho conosciuto gioia, non ho conosciuto soddisfazione, capace di riscattare la sofferenza che siamo costretti a subire quotidianamente in quanto esseri, in quanto esistenti, ma la condanna alla vita emessa dalla mia pietà filiale mi ha convinto che in fondo non vale neppure la pena morire. Come dice il Plotino di Leopardi, la vita non merita tanta considerazione, né in un senso né nell’altro:

«la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a se, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla».

Qualunque sia la scelta, la vita si riduce sempre a un’attesa della fine. La nascita è sempre l’inizio della fine.

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