Siamo sottomessi a tal punto alla visione borghese del mondo e della vita, alla professione di fede di Werner insomma, che ciò che di una persona c’interessa di più non è ciò che è, il suo pensiero, il suo spirito, la sua sostanza, ma ciò che fa, dunque ciò che ha, in che modo si rende utile alla società, qual è il suo tenore di vita ecc.
In questo mondo dominato, persino nelle relazioni interpersonali, dall’interesse, dal dio dell’utile, non c’è colpa peggiore per l’uomo che restare fedele a se stesso, alle proprie attitudini, alle proprie vocazioni e, in nome di questa coerenza intransigente, rifiutare ogni compromesso. La pena per questa colpa socialmente inaudita è severissima: incomprensione, isolamento, esclusione, emarginazione, in alcuni casi persino la fame e la miseria. L’uomo coerente, a livello sociale, non è molto diverso da un criminale. Ma se al criminale è data la possibilità di riscattarsi, di espiare la propria colpa e riprendere posto nell’umano consorzio, all’uomo coerente ciò è concesso soltanto a patto di un rinnegamento di se stesso, di un’abiura. Personalmente, ho sempre pensato che fosse meglio morire piuttosto che abiurare, ma nell’apparente tradimento di sé, nell’uomo coerente che decide di accettare la qualunque vita, inizio a intravedere, o forse soltanto a intuire, una grande idea di sofferenza ed espiazione. La qualunque vita come la Siberia, o come il mestiere della prostituzione, in cui la donna, costretta suo malgrado a svendere il proprio corpo, si sforza ogni maledetto giorno di mantenere intatta, incorrotta la propria anima.
Sono queste le tre vie che mi si aprono innanzi: la coerenza, sulla quale mi trovo ormai da anni, la mortificazione e la morte. Ho sempre sperato che se aprisse un’altra, di via, chiamata amore, ma non è questo il mio destino. Chissà per quanto tempo ancora potrò procedere sulla via della coerenza, ogni giorno più accidentata e irta di ostacoli.