Questo pomeriggio sono stato in libreria. Avevo appena pagato e stavo sistemando il resto nel portafoglio. Accanto a me c’era una donna, moglie (aveva la fede al dito, la prima cosa che osservo in una donna che attira la mia attenzione) e madre. Era con il figlio, di sette, otto anni al massimo. Lei afferra un libro e lo mostra al bambino, dicendogli qualcosa. Il libro si intitolava Basta un caffè per essere felici. Il mio sguardo incontra quello della donna e ci sorridiamo. Mi fa persino l’occhiolino, e quel gesto d’intesa, inatteso e bellissimo, mi ha fatto male come un pugno nello stomaco. Mi ha rovinato la giornata, irrimediabilmente.
Mi fa sempre male, sempre, osservare una donna che mi piace, ma così di più. Il sorriso della donna e il suo occhiolino mi hanno fatto sentire ancora più solo e disperato del solito. Ancora più impotente, del solito. Uscito dalla libreria, l’ho osservata svanire tra la folla, la morte nel cuore. Sarebbe stato bello potersi avvicinare a lei e sussurrarle all’orecchio: «Crede davvero che basti un caffè per essere felici? Io no. Ma a me è bastato scoprire il suo sorriso».
Aggiungo una cosa su Cristina, tanto per completare questo quadro disperante. L’altra sera, tornato a casa dopo il nostro incontro, preso da una grande tenerezza per lei, le ho mandato un messaggio in cui le scrivevo di non cambiare mai, di restare così com’è, bella, positiva, luminosa, gentile, umana, di conservare il suo sorriso, che è prezioso e illumina la vita di chi le sta accanto, di chi le vuole bene e la ama. Non mi ha risposto. Evidentemente ha ritenuto che non fosse necessario farlo, come se il mio messaggio fosse soltanto un’appendice superflua ai nostri discorsi. Maledetto me che ritengo sempre sia necessario scrivere.