È complicato definire l’amore. L’amore è uno di quei temi, forse il principale, in cui il linguaggio mostra tutti i suoi limiti. Per quanto mi riguarda, ho sempre vissuto e interpretato l’amore come una sorta di sogno di trasfigurazione attraverso l’altro, come una possibilità di dispersione nell’altro e, al tempo stesso, di assorbimento dell’altro, in un processo di fusione, di compenetrazione di due esseri fino a formarne uno solo. Qualcosa di simile all’amore tra Edoardo e Ottilia nelle Affinità elettive di Goethe, che supera, trascende le consuete misure umane e affonda le radici in uno stato profondo, abissale, insondabile dell’essere, fino a una perfetta corrispondenza degli individui.
C’è qualcosa di mistico in questa visione dell’amore, che richiede necessariamente un annientamento, o quantomeno un profondo ridimensionamento dell’io, in favore di un completo abbandono all’altro. Per questo motivo ritengo che senza fede nell’altro non possa esserci amore. Ma è forse possibile un tale amore? È forse possibile che due individui si sacrifichino, si annientino l’uno nell’altro fino a formare un solo essere perfettamente libero e indipendente? Forse questa visione mistica, e per certi aspetti spaventosa dell’amore – perché il suo limite estremo è la distruzione, è la Pentesilea di Kleist che, drammaticamente legata al senso letterale delle parole, quello più autentico, divora Achille, assorbendo in sé fisicamente, carnalmente l’amato – è soltanto il sogno di un uomo condannato alla solitudine, di un uomo prigioniero di se stesso. Forse ha ragione Michelstaedter quando, nella Persuasione e la rettorica, scrive che per quanto l’uomo cerchi rifugio nella persona amata, per quanto si sforzi, attraverso baci e amplessi, di compenetrarsi in essa, l’uno e l’altra resteranno sempre due, «e ognuno solo e diverso di fronte all’altro».
In ogni caso, che si tratti del sogno folle di un uomo solo e disperato oppure no, di questo amore che trasfigura e ha la necessità di una legge di natura, io ho vissuto almeno un’illusione, grazie a Lei, quell’ignota Lei che di tanto in tanto compare come un impalpabile spettro di luce in questi taccuini e che un giorno mi scrisse che poteva considerare la sua esistenza completa soltanto in relazione con la mia. Parole il cui significato e il cui valore si sono esauriti nel momento stesso in cui furono scritte e che oggi, evidentemente, non hanno più alcuna importanza, parole che, in seguito, mi hanno distrutto, decretando la mia prima vera morte spirituale, ma che restano e resteranno le più belle che mi abbiano mai detto.
Per la prima volta da quando mi sono separato da Lei, oramai dieci mesi fa – era il 6 giugno 2021 -, ripensando a queste parole non ho provato dolore, ma una sottile soddisfazione, e persino un sorriso involontario mi ha increspato lievemente le labbra. Ciò significa che sono davvero andato oltre, che sono davvero giunto al fondo della mia esistenza, dove non c’è più dolore oltre a quello fondamentale e fondante dovuto al semplice fatto di essere, di esistere. Se penso a Lei non sento più niente, le sue parole non mi fanno più male. Senza che neanche me ne accorgessi, in questi mesi l’ho lasciata andare, tenendo con me soltanto la Lei che mi scriveva quelle frasi meravigliose e, a suo modo, mi amava.