Mentre io sono qui, al sicuro nella mia stanza, circondato da ogni genere di conforto materiale, unico giudice di me stesso, nello stesso istante, sulla stessa terra, sotto lo stesso cielo, sotto la stessa luna, un bambino muore, e non per una tragica casualità, ma per la sete di sangue e di potere di un suo simile. Provo vergogna della mia fortuna, della mia sicurezza, della mia libertà. Una reazione emotiva inutile, ridicola, ipocrita, forse persino offensiva nei confronti delle vittime, lo so, ma il mio pensiero e il mio corpo – sì, anzitutto il mio corpo – rifiutano a tal punto la violenza e il sangue, che a volte mi sembra impossibile vivere nello stesso mondo in cui ogni sacrosanto giorno dei miei simili commettono massacri che resteranno impuniti. Sarebbe un buon motivo togliersi la vita per non fare più parte di questo mondo, dal momento in cui è impossibile cambiarlo e il mio pensiero e il mio corpo m’impediscono di accettarlo. Essere perfettamente, fisicamente consapevole del fatto che tutto, tutto, sprofonderà nel nulla, che si soffra o meno, come scrive Cioran, non mi ha mai consolato.
In ogni caso, ecco il mio inferno: non sono mai stato capace di andare oltre, di restare indifferente e, soprattutto, di perdonarmi. Sono sempre stato il mio giudice più severo. Nessuno potrebbe mortificarmi più di quanto non faccia già io stesso, ogni sacrosanto giorno, senza tregua, come se fossi stato messo al mondo esclusivamente per questo.