Gli sconfitti – Raccolta di racconti – Il fiore

“Gli sconfitti” è un microcosmo. Una raccolta di racconti che costituisce un piccolo universo a sé stante, all’interno del quale si rincorrono numerose le vicende degli individui che lo abitano. Vicende inventate, ma possibili, al centro delle quali vi è l’uomo, l’essere sconfitto per eccellenza.

IL FIORE

Qualche mese fa la nostra ridente cittadina di N. fu sconvolta da un raccapricciante fatto di cronaca nera, che attirò per una settimana l’attenzione dei più importanti organi d’informazione nazionale. In quei sette giorni dovunque ci si poteva imbattere in giornalisti, o presunti tali, appostati come famelici sciacalli pronti ad avventarsi in ogni istante su chiunque fosse legato, più o meno lontanamente, alla vicenda.
Per i cittadini di N. furono giorni di moralistico sdegno e di macabro diletto. Molti di loro attuarono i più fantasiosi stratagemmi pur di elemosinare una ripresa oppure una breve intervista, in modo da poter saziare quell’innata brama di notorietà e vana gloria caratteristica dell’uomo superficiale. E che gioia, che soddisfazione quando una telecamera li riprendeva mentre rispondevano a delle domande davvero imbarazzanti, persino comiche se solo non si trattasse di una tragedia, magari in diretta in uno di quei programmi televisivi pomeridiani che basano tutto il loro successo sulle disgrazie altrui. Per quanto mi riguarda, furono giorni di profondo e totale disgusto, a tratti persino di odio.
Ma quale incredibile avvenimento poteva aver scaturito il caos, poteva aver portato alla ribalta della cronaca nazionale una cittadina di cinquantamila anime solitamente tranquilla ed insignificante, ignorata da tutti? Ovviamente un delitto. Un efferato delitto.
Una giovane madre di trent’anni aveva ucciso il figlio di sei. Lo aveva soffocato con un cuscino, e poi si era subito consegnata di sua spontanea volontà alla polizia, confessando l’omicidio e raccontando tutto l’accaduto nei minimi particolari, senza tralasciare un solo dettaglio. La donna aveva compiuto l’insano gesto – ed il movente lo aveva dichiarato senza esitazione sin dal primo istante – per evitare al figlioletto una vita di sofferenze certe, «per salvarlo», come disse lei stessa agli inquirenti. Il piccolo era infatti malato di epilessia. Maria, questo il nome della sciagurata figlicida, aveva vissuto un’esistenza estremamente complicata. Abbandonata la scuola a sedici anni, aveva iniziato subito a lavorare. La sua famiglia versava infatti in condizioni economiche pietose, e non poteva permettersi di mantenere una persona a ufo. Così la povera Maria, poco più che bambina, insieme alla madre – una donna piccola e gobba, con una fitta peluria sopra le labbra ed un vistoso porro all’angolo della bocca sempre ostinatamente serrata – cominciò troppo presto a spezzarsi ogni santo giorno la schiena per dieci, talvolta dodici ore al giorno, facendo le pulizie nelle case altrui, sopportando le insolenze di signore esigenti che la trattavano come una schiava, oppure schivando le insistenti avances di signori depravati che, solo perché povera, la consideravano una facile puttanella. La giovanissima Maria, l’adolescente Maria, gli occhi sempre bassi, rivolti a terra, eseguiva con zelo gli ordini e rifiutava con imbarazzo le proposte.
La sua vita procedette in questo modo fino ai ventiquattro anni, quando, in una casa di una ricca vedova, conobbe un giardiniere della sua stessa età. Maria, alla quale fino a quel momento non era stato concesso il tempo di amare, cedette subito alle affettuose lusinghe di quel suo robusto coetaneo. Iniziò allora con il giardiniere una relazione stabile che, nel giro di pochi mesi, culminò nel matrimonio. Maria riponeva nel sacro vincolo tutte le sue speranze. Speranze ben presto brutalmente disattese. Il marito si dimostrò subito un uomo grezzo e manesco, incline all’ira, all’infedeltà e all’alcool, che neppure si sforzava di nascondere le sue frequenti scappatelle. La giovane, che aveva smesso di lavorare a causa dell’immediata gravidanza, sprofondò in un grave stato di depressione, e solamente la nascita del figlio la distolse dal tenebroso pensiero di togliersi la vita, che l’aveva sfiorata più di una volta.
Matteo, questo il nome dello sfortunato bambino, rappresentò la luce nella vita buia di Maria. La nascita del figlio non cambiò invece le deplorevoli abitudini del marito, ma alla donna dell’uomo un tempo amato non importava più nulla. Ora lei aveva Matteo, il miracoloso frutto del suo grembo, e consacrava tutta se stessa al piccolo. Tuttavia, dopo pochi mesi di vita, il bambino iniziò a manifestare alcuni terribili sintomi riconducibili all’epilessia. Matteo era effettivamente malato, e quando i medici comunicarono a Maria il terribile verdetto, la povera donna precipitò in un abisso di disperazione. Il suo sole era destinato ad una vita di dolore e lei, la madre, non poteva fare niente. O meglio, una cosa poteva farla, poteva liberare Matteo dalla malattia e dalle sofferenze, uccidendolo.
Per anni ed anni Maria convisse con questo atroce pensiero fisso nella mente, non rinunciando però a crescere il figlio con amore e dolcezza, riuscendo, in un modo o nell’altro, a non fargli mancare nulla. Innumerevoli volte la donna cercò aiuto, ma nessuno si degnò mai di ascoltarla. Nessuno dei parenti, non aveva che loro oltre al bambino, comprese, né volle comprendere la sua sconfinata pena. Così, dopo anni d’angoscia e di atroci tormenti, giunta al culmine dello sconforto, Maria uccise il piccolo Matteo, in un fulgente mattino di inizio dicembre, sulla spiaggia, soffocandolo con un cuscino. Quindi tornò a casa, tra le lacrime, con in braccio il cadavere del figlio. Adagiò il corpicino senza vita sul letto, all’interno della sua cameretta azzurra colma di giocattoli e avvertì la polizia, confessando subito, per telefono, e con spaventosa lucidità, ogni cosa.
Secondo la prassi Maria fu immediatamente arrestata, condotta in carcere e interrogata.
«Perché ha ucciso suo figlio?».
«Per salvarlo. Per evitargli una vita di dolore. Sapete, era malato di epilessia, una malattia terribile. Potete chiedere al dottore, se non ci credete. Io non potevo proprio sopportare che la vita del mio unico bene fosse per sempre sconvolta, straziata da questo morbo. Ogni volta che gli veniva una crisi epilettica mi sentivo morire. Impotente – oh, non potete immaginare quanto mi tormentasse questa mia maledetta impotenza! – lo vedevo tremare tutto e poi cadere svenuto, dopo aver sussurrato, con la sua debole vocina rotta dal dolore e dalla paura: “Mammina, ti prego, aiutami”. Dio mio com’era spaventoso e ingiusto tutto ciò!».
«Da quanto tempo aveva in mente di uccidere suo figlio?».
«Da quando il dottore, anni fa, appena qualche mese dopo la sua nascita, mi comunicò in via definitiva che era malato, e che non c’era nessun modo per guarirlo una volta per sempre. Ah, se sapeste quante volte ho chiesto aiuto! E nessuno, nessuno mi ha mai dato ascolto. Oddio…».
«Perché lo ha ucciso proprio in spiaggia?».
«Perché il mio piccolo Matteo amava il mare più di tutto. E mi consolava sapere che l’ultima cosa che i suoi occhietti neri e vispi avrebbero visto, sarebbe stata quell’immensa distesa blu nella quale ogni estate amava tuffarsi».
«Ha pensato di togliersi la vita dopo aver ucciso suo figlio?».
«Io… Io avrei voluto… Io… Io avrei dovuto, ma… Non ne ho avuto il coraggio. Angioletto mio…».
«Questo cuscino è l’arma del delitto?».
«Sì».
«Perché ha utilizzato proprio questo oggetto e non un altro?».
«Mi sembrava il modo meno brutale per… Per salvarlo. E poi questo era il suo cuscino, il cuscino sul quale dormiva. Si sente ancora il suo profumo. Io lo sento, voi lo sentite?».
«Ci racconti come ha… Insomma, come è andata».
«Volete sapere come l’ho salvato? Come l’ho liberato da una vita di sofferenze certe?».
Gli inquirenti, impietositi, si limitarono ad annuire e sospirare.
«È penoso per me ricordare e raccontare quei momenti, ma so che per voi è necessario, lo capisco, e mi sforzo per descrivere nel miglior modo possibile come siano andate le cose, affinché non me lo domandiate più. Siamo arrivati in spiaggia alle undici e ci siamo seduti sulla sabbia, così, senza asciugamano. Non c’era nessuno e un leggero vento fresco, fresco e non freddo, sfiorava i capelli riccioluti del mio povero bambino. Abbiamo giocato per un po’, ed eravamo così spensierati, così felici! Poi Matteo, stanco, a causa della malattia infatti si stancava facilmente, è venuto a riposarsi sulle mie gambe, accovacciato come un cucciolo. Io lo guardavo e piangevo, piangevo… Vi giuro che ho provato a fermarmi, ma non potevo proprio fare altro. Tutto era deciso… Allora ho preso il cuscino, che portavo nella borsa – Matteo credeva che lo volessi far addormentare sulla spiaggia, ed era tutto eccitato dall’idea! – e l’ho… L’ho so… L’ho soffocato… Premevo forte il cuscino sul suo visetto angelico e piangevo, piangevo sempre di più, a dirotto. Lui si dimenava, oh poverino!, lottava, agitava le braccine e le gambette. Sì, nonostante la terribile malattia aveva una grande voglia di vivere. Iddio mi perdonerà, deve perdonarmi, deve, visto che in tutti questi anni ha sempre ignorato le mie disperate preghiere. Se ora chiudo gli occhi, vedo il mio Matteo trasfigurato in un angioletto. Lo vedo svolazzare e giocare tra le nuvole. Lui mi guarda e sorride, sorride beato».
Fu questo il passo dell’interrogatorio che più mi colpì, e non starò qui a spiegare perché potei assistervi. Continuo piuttosto nel mio triste racconto, affrettandomi a concludere.
Nonostante le insistenti e commoventi suppliche di Maria, le fu impedito di partecipare ai funerali del figlio. Le esequie del piccolo e sfortunato Matteo furono per la cittadina di N. uno straordinario evento mondano senza precedenti, ripreso da tutti i più importanti telegiornali italiani, e al quale parteciparono praticamente tutti i cittadini. Una folla oceanica occupava il grande piazzale del Santuario di Nostra signora delle Grazie, addobbato per l’occasione con centinaia di palloncini colorati, proprio come se si trattasse di una festa, e dalla chiesa si estendeva per tutto il lungomare, fino all’ingresso del porto turistico. Un tratto di strada lungo quasi un chilometro. Anch’io partecipai al funerale – lo confesso, ero incuriosito – e con sdegno constatai di persona che quell’ultimo saluto ad un disgraziato bimbo di appena sei anni, assomigliava di gran lunga più ad uno spettacolo ludico che ad una solenne cerimonia funebre. E, per quanto mi riguarda, provai la massima indignazione nel momento in cui la minuscola bara bianca – vederla mi fece un’enorme impressione – fu trasportata fuori dal Santuario e partì un fragoroso ed irrispettoso applauso, una delle più orribili manifestazioni di quel malcostume tipicamente italiano, almeno dal mio modestissimo punto di vista.
Nella «commovente», almeno così la definirono tutti i media presenti, omelia del vescovo – sì, una tale occasione mondana richiedeva un’illustre presenza ecclesiastica – fu dedicato ampio spazio al ricordo di Matteo e all’immenso dolore dei familiari, in particolar modo del padre, improvvisamente rivestito di un’aura di santità che non meritava. Non ci fu neppure un solo accenno alla sciagurata Maria, neppure un solo accenno alla pietà che tutti, e non solo in quel drammatico momento, avremmo dovuto provare per lei. Non una sola parola di misericordia, non un solo spiraglio di perdono. Niente di niente.
Maria fu subito dipinta dai media, con la sapiente collaborazione dei cittadini di N., come un orrendo mostro. Ah, come è semplice e comodo prendersela con i colpevoli! Qualcuno osò persino diffondere la vergognosa notizia secondo cui Maria, come una moderna Medea, avesse ucciso il figlioletto solo per vendicarsi dei tradimenti del marito. Il suo ultimo ed estremo gesto di misericordia nei confronti del piccolo tanto amato, fu interpretato dall’opinione pubblica, così facilmente incline alla condanna, come un vile e barbaro atto di disumana ferocia.
Maria fu abbandonata, lasciata sola in balia del proprio dolore, e quando il circo mediatico ben presto, nel giro di qualche ora dopo il funerale, lasciò N., diretto in chissà quale altro angolo del bel paese, tutti, ma proprio tutti, dimenticarono.

***

Tutto quello che è accaduto non è giusto. È vero, Maria ha ucciso il proprio figlio, ma a muoverla non fu la violenza o la crudeltà o la follia o la vendetta, no, fu l’immenso amore per il piccolo Matteo e nessuno lo ha compreso. Se avessimo ascoltato le sue disperate grida d’aiuto, Maria non sarebbe mai arrivata a tanto, ma tutti noi, indifferenti ed indaffarati solamente in noi stessi, interessati solamente al nostro orticello, l’abbiamo ignorata, abbiamo voltato le spalle alla sua disperazione.
Tutti noi, nessuno escluso, siamo colpevoli della morte del piccolo Matteo, non solo la povera Maria. Tutti noi siamo gli assassini del piccolo Matteo. Tutti noi dovremmo pagare, e non solo la madre dell’innocente vittima, strascinando sulla nostra sporca coscienza un peso gigantesco: il peso del rimorso per non aver fatto nulla, per esserci voltati dall’altra parte quando si era ancora in tempo.
Attesi che le acque si calmassero un poco, del resto, accadde in fretta, per inviare a Maria, rinchiusa nel carcere di L., un bigliettino anonimo:

“Cara Maria, sappia che sulla tomba di Matteo, non mancherà mai un fiore da parte sua. Un colpevole”.

Fortunatamente mai nessuno venne a sapere di questo mio biglietto, altrimenti ne sarebbe scaturito uno spregevole scandalo. Sono certo che tutti i cittadini di N. non avrebbero esitato a definirmi un «depravato ammiratore della madre assassina, della moderna Medea».
Così, ogni sacrosanto giorno, in qualunque stagione e in qualunque condizione meteorologica, anche la più avversa, sul far del crepuscolo, pochi istanti prima della chiusura del camposanto, quando non c’è quasi più nessuno, depongo un fiore sulla tomba del piccolo Matteo. Un fiore solo, per non dare nell’occhio. Il fiore di sua madre.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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