La coscienza è il caos delle chimere, delle brame, dei tentativi; la fornace dei sogni; l’antro delle idee vergognose; il pandemonio dei sofismi; il campo di battaglia delle passioni.
Victor Hugo, I miserabili, 1862.
Insonnia insonnia che strappa dal riposo nel silenzio violento di una terribile notte carnefice insonnia che rievoca spaventosi spettri demoniaci crudeli allegorie di ricordi dolori strazianti insonnia che amplifica meglio esalta quel malessere devastante sintesi maledettamente ideale di spleen male di vivere nausea sorto nell’adolescenza antica sepolta malessere ogni giorno più irritante le due ed istanti efferati consacrati alla solitudine all’assenza allo sfacelo spirituale un giorno mi chiedesti se si ama perché non si ha tutta la mia vita dice questo risposi mesto assalito dalla velenosa realtà di non poterti avere mai mai mai mentre a causa delle voragini romane sussultavano i nostri corpi vicini e la tua bellezza immensa mi è accanto soffocandomi con la sua maestosità sovrumana mia Musa mia femme fatale tanto sognata e nient’altro perché l’esistenza è un’altra cosa non solo illusione come nella mia mente distorta che non sopporta accetta soffre la verità sopravvivo e nient’altro è sempre stato così è il mio ordine naturale delle cose mi limito a respirare fluttuando tra le nubi d’ebano delle sofferenze inutili vane come i ceri accesi nei cimiteri notturni spaventosi tanto i morti son morti non sanno se continui a pensare loro vorrebbero solamente essere ricordati e basta non pianti tanto meno pregati già troppe parole versate il tempo scorre e una nuova ruga solca il volto d’una donna votata presto troppo presto al declino e le lancette perpetue scorrono inesorabili verso il nulla verso l’oblio dell’al di là che altro non è che vuoto inconsapevole disgregazione dell’essere dell’atomo e nessuna entità trascendentale nessun disegno ad alleviare l’idea che tutto prima o poi termina per sempre per sempre giorni fa mentre i miei genitori rinnovavano per il venticinquesimo anno la loro promessa di matrimonio carcere trappola io non mi sposerò per nessun motivo al mondo durante la sacra sacrissima immacolatissima cerimonia in me un’orgia funebre ho rinnegato il crudele dio cristiano rifiutando la comunione dalle mani paffute di un simpatico istrionico sacerdote sovrappeso molto Don Abbondio cosa vuoi farci dritto oppure storto rettilineo oppure gobbo si muore comunque la vacuità umana corre nella storia dovendosi prima o poi arrestare il punto di non ritorno è stato passato da un pezzo chi possiede la terribile coscienza di ciò non può che vivere turbato conturbato nella consapevolezza di un’implosione senza avvenire intanto i tuoi occhi dipinti di innumerevoli colorazioni blu li osservo rapito sprofondando in essi oceanici oceani obliosi maelström nei quali affogo senza rimorsi i tuoi occhi occhi della mia morte poveri miseri poeti romantici contemporanei senza dignità né indifferenza aspiranti illusi folli all’infinito forse un’epoca fa ancora visibile prima o poi oggi dissoltosi nella polvere nella cenere che sale sotterrando altari oramai fatiscenti ricoperti di erbacce velenose ispide inestirpabili avvolti dall’odore acre dei fiori fracidi posati un tempo in memoria di passioni ardenti irrealizzate ed irrealizzabili visioni proibite inverosimili inafferrabili vaporose fluttuanti alla stregua di fuochi fatui su lapidi abbandonate sepolcri profondi volto cadaverico scavato da occhiaie scure solchi una luce sommessa nei bulbi oculari la luce dei vespri più melanconici volto riflesso allo specchio chissà perché persevero nell’osservarmi miserabile d’un cane dal corpo auschwitziano senza neanche la forza di sdraiarsi che cela un segreto deprimente schifoso persino a se stesso quella barba incolta non significa niente quella fronte troppo ampia per avere solo ventiquattro anni cosa vuol dire se non che la condanna peggiore di un esteta è non possedere la bellezza non ho mai avuto l’avvenenza il fascino la malizia solo parole e quell’aria arresa e non sono mai bastate con chi volevo che davvero bastassero mi chiedo alla fine cosa resta e non trovo che risposte misteriose lamenti orfici nenie arabesche di un cuore arido riportato in questa primavera alla vita poi strappato e divorato crudo senza pietà alcuna l’uomo che amo non mi ama e l’uomo che mi ama non lo amo dice lei ma almeno tu sei amata pensa a chi ama e basta c’è sempre chi sta peggio di noi noi un giorno staremo meglio l’estate maledetta inizia a farsi sentire giugno ed inizio a sudare avrei bisogno di un’altra doccia perché sento sulla pelle sordide gocce spiacevoli ma non mi importa ricordo la prima volta che l’ho vista ho pensato che straordinaria epifania centoottantuno centimetri dieci circa forse di più in più del sottoscritto praticamente un meraviglioso Everest dalle sinuose e splendide forme femminili scolpite nel marmo lucente della vita con il passare dei giorni ha posato le sue mani delicate soffici sul mio capo dolente e tutto in un attimo è cambiato nuova energia nuovo insperato soffio vitale persino la speranza sconosciuta fino ad una storica Caporetto senza precedenti sfido a fare di meglio o di peggio dipende dai punti di vista non lasciarti comandare dal desiderio eppure quel desiderio era l’embrione dell’odierno sentimento ieratico e la mia irrequieta mano destra sul tuo levigato ventre soffice ha trovato la pace in un ristorante sedute ad un tavolo sei splendenti fanciulle sei un un solo tavolo io ne ho avuto si e no la metà finora ed il doppio sedute ad un unico tavolo vorrei vorrei vorrei ma non posso guardare ma non toccare spettatore e nient’altro confidente amico mai amante se non di indigenti disgraziate statue gettate ai cigli di strade buie in qualunque stagione gelo e caldo cultore della prostituzione ora basta tutto ha un termine anche un vizio se si rivela in tutta la sua maligna barbarie se mi vedessi i polmoni smetterei pure di fumare forse un cinghiale spaurito immobile sull’asfalto la paura nello sguardo selvaggio preda troppo facile una cortigiana portoricana matura lunghe trecce pelle scura fregio nero ondoso appena sopra il sedere e un branco di giovani bestie umane di sesso maschile a torso nudo sbraitanti contro forze dell’ordine inferiori nel numero e nell’impeto devastano vetri di automobili abbandonate ed io che credevo fosse stato l’animale non così bestiale avran creduto che fossi pazzo la brutalità umana è orrenda raccapricciante ancor più quando comprendi di farne parte e non puoi far niente se non provare disgusto disprezzo verso te stesso quella sera toccai il fondo procurando addirittura dolore divorato di fronte al mare placido sconfinato un rimorso colossale pentendomi dinanzi agli eroi al crepuscolo quanti sacrifici per che cosa poi la mia coscienza una cascata improduttiva sporca quanta rabbia quanto timore la vecchiaia un ottantenne tenendosi a stento sulle stampelle traballanti si avvicina mi chiede scusi dove si trova l’ospedale avrei voluto gridargli perché ti ostini a campare in queste condizioni impietose vergognose sarai stato anche in guerra avrai anche ucciso cosa ti aspetti ancora da questo mondo mattatoio caotico a cielo aperto gli schizzi di sangue arrivano ad imbrattare persino il sole la luna le stelle le nuvole fortunatamente di tanto in tanto ancora piove io per conto mio conosco il mio destino il mio epilogo è tutto deciso vero è così annuisce la mia ombra anoressica mestizia ansia angoscia inquietudine sempre sempre così come si può andare avanti in questo modo l’importante però è che ci sia la salute nevvero certo come no pietrificato dinanzi questo lembo di carta straccia impalato solo l’estremità dell’arto superiore destro che afferra l’inchiostro le mie dita incomplete senza una diavolo di penna il senso poi di questo un giorno forse lo capirò istanti intensi momenti fissati nella reminiscenza individui di ceralacca incastonati nel mosaico delle profondità desertiche versi sciocchi gli uni gli altri eccezionali elevati immortali trasportati dalla gloria eterna che sfortuna avete avuto parole a sgorgare da me non avete futuro dinanzi a voi solo dimenticanza noncuranza relegate in un angolo invisibile della moltitudine terrestre povere voi il caso non perdona contadino eremita tutt’uno con la terra contemplazione boschi fitti alberi laghi ruscelli fiumi rovine uccelli quiete archè alba tramonto lunare Musa Divinità Oracolo Delfi in una solitaria collina dentro un’ottocentesca neorinascimentale villa romana Egomen Tu poetica bellezza Omphalos