Già dal giorno seguente al mio licenziamento avrei voluto scrivere il curriculum e iniziare a spargerlo per via telematica, ma, oltre ad essere sprovvisto degli strumenti per farlo, era troppo forte quel sentimento sgradevolissimo di umiliazione e sconfitta che conoscono fin troppo bene i disoccupati in cerca di lavoro. Un sentimento che, se potesse fisicizzarsi, sarebbe viscido e appiccicoso come muco.
Del mio licenziamento Marta non venne mai a saperne nulla e non perché trovai miracolosamente un altro lavoro, raccontandole magari che avevo deciso di lasciare di mia iniziativa la libreria per questo nuovo impiego, più vantaggioso (sono ancora a spasso e credo che tra non molto sarò costretto ad affittare l’appartamento e tornare a vivere dai miei genitori, in campagna), ma perché quello stesso giorno ci lasciò Pietro, stroncato da un infarto improvviso, e il nostro rapporto non fu più lo stesso, o meglio, non fu più e basta. La morte del padre di Marta sancì infatti la fine della nostra storia.
Della morte di Pietro non venni a saperlo dalla figlia, ma dall’avvocato Barberini, il suo datore di lavoro, quando alle cinque non la vidi uscire dallo studio legale e chiesi informazioni a lui. Sebbene l’avvocato Barberini, un uomo di sessant’anni imponente e cordiale, avesse lo studio nel mio palazzo da sempre e conoscesse bene mia nonna, sua fedele cliente, fu quel maledetto pomeriggio che ci scambiammo le prime parole.
– Marta se n’è andata questa mattina dopo aver ricevuto una telefonata preoccupante dalla madre, – disse l’avocato mentre scendevamo insieme le scale.
– Preoccupante? – ripetei allarmato.
– Se non ho capito male, perché Marta era molto agitata, suo padre ha avuto un malore, – mi spiegò.
Lo ringraziai e mi precipitai in bicicletta a casa di Marta. Non trovai nessuno, e neanche a casa dei suoi genitori, dove mi recai subito dopo. Chiamai Marta una, due, tre, quattro volte, ma non mi rispose, il telefono squillava a vuoto. Non sapevo cosa fare, si era completamente dimenticata di me e questo la diceva lunga sulla gravità del malore di Pietro. Nessuna parola sarebbe stata più chiara, più eloquente. Non sapevo cosa fare, dove andare. Iniziai allora a fare la spola tra la casa di Marta e quella dei suoi genitori, distanti meno di un chilometro l’una dall’altra, entrambe nel quartiere di Cretarossa. Passai quel che restava del pomeriggio in questa stupida e inutile incombenza, facendo avanti e indietro come uno scemo.
Nella mia testa iniziarono a farsi largo pensieri bizzarri, folli, del tipo: Marta e Marina non esistono, non sono mai esistite, sono state solo il frutto della tua mente esasperata, frustrata, potresti pure passare tutto il tempo che ti resta facendo avanti e indietro da quella che credi sia la casa di Marta a quella che credi sia la casa dei suoi genitori, ma non le rivedrai più, mai più, la fantasia si è sgretolata. Ma riuscii a sorridere del mio cervello che, logorato dall’attesa e dall’incertezza, concepiva tali bizzarrie, me le scrollai di dosso e decisi di muovermi. Passai in libreria e domandai a Luca, che stava chiudendo l’attività, se fosse passata Marta, o avesse telefonato, chiedendo di me o magari lasciandomi un messaggio.
– No, – rispose Luca, chiedendomi se fosse successo qualcosa. Neppure gli risposi. Gli voltai le spalle e me ne andai a casa. Forse Marta mi attendeva fuori la porta o forse aveva lasciato un biglietto nella cassetta della posta. Niente di niente.
Stavo per rimontare in sella e riprendere la via della casa di Marta, quando finalmente sentii vibrare il telefono, che avevo tenuto tutto il tempo, anche pedalando, stretto nel pugno, come non avevo mai fatto in vita mia, io che odiavo quell’oggetto con tutto me stesso. Il numero era quello di Marta, ma dall’altra parte del telefono non c’era la sua voce, bensì quella di Marina.
– Marina, finalmente… sono ore che giro come un matto. Come sta nonno? – domandai subito, sperando di ricevere notizie positive, confortanti, che potevano essere confermate dal fatto che si fossero finalmente ricordate di me.
– Nonno è morto, – rispose Marina con una freddezza, con un distacco che mi fecero rabbrividire.
Restai di sasso. Di colpo mi tornarono alla mente le parole di Marta riguardo al rapporto con suo padre, mi ricordai quanto fosse attaccata a lui. La vidi materializzarsi davanti ai miei occhi, fatta a pezzi dal dolore. Vacillai, fin quasi a perdere l’equilibrio, come se il peso insostenibile di quel dolore mi fosse all’improvviso precipitato addosso.
– Dove siete, in ospedale? Vi raggiungo subito, – dissi a Marina, risalendo sulla bicicletta.
– No, Leonardo, mamma non vuole che tu la veda in queste condizioni, per questo ti ho chiamato io, e poi c’è papà con noi.
– Come papà… – balbettai istupidito da quella notizia assurda che Marina, svaniti la freddezza e il distacco, mi aveva comunicato con un certo imbarazzo, come emergeva dal tono basso e incerto della sua voce. Forse neppure avrebbe voluto darmela, ma era già abbastanza matura da sapere che era suo dovere farlo, così che potessi iniziare da subito, da quel momento stesso, a mettermi il cuore in pace e a familiarizzare con l’idea violenta di dover rinunciare a tutto ciò che aveva reso straordinari quegli ultimi sei mesi.
– Sì, non appena ha saputo che il nonno stava male ha preso il primo treno da Milano ed è venuto qui. Ora devo lasciarti, ti faremo sapere quando ci saranno i funerali, – concluse Marina di nuovo fredda e distaccata.
Non mi era mai capitato e non mi è capitato più, grazie al cielo, di provare una gelosia così intensa come quella che provai in quell’istante, una gelosia furiosa, incontenibile, orlandesca insomma. Scesi dalla bicicletta, la afferrai con entrambe le mani e la scaraventai, con tutta la forza che avevo in corpo, contro il muro, gridando. Se avessi avuto il vigore dell’eroe ariostesco avrei raso al suolo il palazzo, e non mi sarei limitato a devastare solo il mio. Avrei fatto tabula rasa dell’intera città, sarei stato il più terribile dei terremoti, un terremoto dalle proporzioni bibliche. Avrei commesso una strage.
Mi avevano escluso dal loro dolore, come se quegli ultimi sei mesi non ci fossero mai stati, non fossero mai esistiti.
Non avevo mai visto Marco, il padre di Marina, ma lo immaginavo e lo vedevo accanto a sua figlia e accanto a Marta, dove dovevo essere io. Mi misi a sedere per terra, la testa stretta tra le mani, digrignando i denti. Sapevo bene quanto stesse soffrendo Marta e l’impossibilità di consolarla mi torturava. Ma accettai presto la loro decisione, o meglio, mi rassegnai in fretta ad essa. D’accordo, c’erano stati gesti e parole, ma in fondo chi ero io per loro? Una piacevole parentesi, forse, e niente di più. Il lutto improvviso doveva aver stravolto Marta e rivoluzionato la sua esistenza. Il dolore inatteso e inedito doveva aver distrutto in un colpo solo quanto era accaduto prima, quanto era accaduto tra di noi in quegli ultimi sei mesi. Sapevo bene che non si trattava di me, di una questione personale, ma che qualunque uomo, anche il più eccezionale, al mio posto avrebbe fatto quella stessa misera fine, eppure questa consapevolezza non mi consolava, non poteva consolarmi, come nient’altro, del resto, in quel momento.
Sprofondai in una sorta di stato confusionale, in un vortice di dolore sordo e inspiegabile. Ma quando mai il dolore è spiegabile? Nel giro di poche ore mi ero ritrovato senza lavoro, senza Marta, senza Marina e non sapevo a cosa aggrapparmi, non trovavo appigli intorno a me, brancolavo nel buio e non c’era niente intorno a me.
Marta mi aveva riportato al di qua di quella suprema indifferenza che avevo conquistato con enorme fatica, dove tutto è feroce e non è possibile opporre la benché minima resistenza all’aggressività violenta e spietata della vita. Mi sembrava di essere caduto in una trappola, o peggio, in un agguato, ordito da quella vita che avevo rifiutato, negato, vinto e che ora, dopo avermi ricondotto a sé, si vendicava con spietatezza del mio affronto, della mia sfida. Del resto, erano numerose le diaboliche coincidenze: quando vidi Marta per la prima volta risuonavano prepotenti le note del Trillo del diavolo di Tartini, aveva lo stesso nome del mio primo amore, portava una crisalide tatuata sulla schiena e si era fatta incidere sulla pelle il Canto di Michelstaedter impressole da me, mi aveva morso come Pentesilea morde Achille nell’opera di Kleist alla quale avevo dedicato la mia prima tesi di laurea.
Ero riuscito a spingermi oltre, a eliminare ogni differenza tra la vita e la morte, a fare di me quell’ultra-nichilista di cui conoscevo solo l’incarnazione letteraria, il Mefistofele di Goethe, e che credevo non fosse mai esistito realmente prima di me. Io ero stato il primo, o quantomeno il primo in carne e ossa. Io vivevo in un altrove indefinibile, indescrivibile, qualcosa di simile a quel regno delle madri ideato da Goethe nel Faust, al quale ricorro e ho sempre ricorso con frequenza perché lo considero uno dei più grandi capolavori letterari di sempre, altro che De Lillo, Pynchon e compagnia bella, lustrascarpe al confronto, per non parlare poi degli insignificanti scribacchini nostrani. Ma era apparsa Marta, condotta diabolicamente a me da quella vita che avevo rinnegato, disprezzato, superato, mi aveva afferrato e riportato al di qua, invertendo i ruoli, lei Orfeo e io Euridice, senza voltarsi, o meglio, senza voltarsi in tempo. Ora sapevo di doverci ritornare di là, di dover riprendere il mio posto, di tornare ad essere ciò per cui avevo lottato fino allo stremo e in primis contro me stesso, consumandomi, logorandomi, piallandomi ogni giorno come un pezzo di legno, ma temevo che sarebbe stato tutto più complicato e doloroso rispetto al passato. Perché la vita mi aveva lusingato, mi aveva affascinato, mi aveva ammaliato come mai prima.
Pensieri simili mi turbinavano nel cervello come i lussuriosi nel secondo cerchio dell’Inferno dantesco, e sentivo le tempie battermi in modo febbrile, le vene della fronte gonfiarsi, ispessirsi. Speravo scoppiassero. Anche adesso fatico a ricordare quei momenti, a rievocarli, credetemi. Chissà se Marta e Marina mi avessero visto in quegli attimi, prostrato, abbattuto da un doppio dolore, il loro e il mio. Forse avrebbero compreso quanto erano importanti per me.
Dopo tanto tempo tornai a sentirmi un miserabile. Non ero neppure utile come spalla sulla quale piangere. Non servivo a niente.
Non so neppure per quanto tempo me ne restai lì, buttato per terra come un sacco della spazzatura, a rimuginare su ciò che stava accadendo, che era accaduto, e scaraventandomi contro me stesso, prendendomi a pugni, sputandomi in faccia. Perché di tutti i fallimenti, di tutte le disfatte e le umiliazioni subite nella mia vita, io e soltanto io mi sono sempre considerato l’unico responsabile. Se tu non avessi tentato non avresti fallito, non avresti perso, non saresti stato umiliato, mi sono sempre detto, disprezzandomi, beninteso, mai compatendomi. Quel giorno in cui trovai Marta fuori dalla mia porta di casa non avrei dovuto farla entrare, avrei dovuto accettare le sue scuse e lasciarla andare via, senza inseguirla, ma sono stato debole, ho ceduto alla tentazione, sono caduto nella trappola. Sei stato semplicemente umano, potrebbe pensare qualcuno leggendo queste mie parole. Fa lo stesso, umanità è debolezza. Io ero riuscito ad andare oltre la mia condizione umana, la squallida e triviale condizione umana.
Mi rialzai da terra a notte fonda. Fumai una sigaretta con avidità e poi mi trascinai a letto, dove sprofondai all’istante nel sonno. Per qualche ora non sarebbe esistito più nulla, né io, né Marta, né Marina, né il lavoro, né la morte. Tutto sarebbe scomparso, tutto, e un attimo prima di perdere coscienza, di naufragare nella sonnolenza, gli occhi già chiusi, questa consolazione mi fece persino sorridere.