– Febbre di crescita? – domandò Luca con ironia, quando, il giorno seguente al falso malessere, mi presentai a lavoro. Con ironia, sì, ma senza malizia. Non avrebbe mai dubitato di me, della mia sincerità. In ogni caso, mi scusai per l’improvvisa diserzione e gli domandai come fosse andata.
– Bene, non mi sono neppure annoiato troppo, – rispose.
Io la noia non la conoscevo più, non sapevo più come fosse fatta né che sintomi avesse. Perché dopo anni e anni di turbamenti lasciavo che il tempo e, in generale, la vita, passassero su di me senza muovere un dito, senza produrre neppure un sospiro. Compievo quei pochi gesti e consumavo quelle poche energie necessarie a una modesta e silenziosa sopravvivenza, nient’altro. Le sovrastrutture sentimentali erano scomparse da un giorno all’altro, d’improvviso, come da un giorno all’altro, d’improvviso, il fumatore accanito smette di fumare, non sentendone più il bisogno. In quel momento compresi che tutto ciò che crediamo di sapere, che crediamo di provare, nei confronti di noi stessi e degli altri, in realtà non esiste. Come l’arcobaleno, che ammiriamo, trovandolo bello, romantico, poetico, ma che non esiste. È tutto molto più semplice, molto più elementare, è il niente, punto. Tra l’essere e il non essere, tra la vita e la morte, non c’è alcuna differenza.
Il volto espressionista della sconosciuta mi tormentò per tutto il giorno e il rischio di poterla rivedere mi infastidiva. Un fastidio, con mio grande stupore e dispiacere, persino visibile, e come tale notato da Luca, il quale, in uno di quei momenti morti così frequenti in una piccola libreria di provincia, che trasformavamo in pause caffè quando non avevamo niente di meglio da fare, me ne domandò la ragione. Pur omettendo la presenza di Liza, fui sincero con lui, come accadeva di rado. La riservatezza è sempre stato uno dei tratti distintivi della mia persona, ma in quel momento sentivo il bisogno di raccontare a qualcuno, chiunque esso fosse, il singolare accaduto, di sfogarmi, forse nella speranza di veder finalmente svanire dalla mia testa il volto della sconosciuta, parlandone.
– Ieri sera una donna si è presentata in casa mia. Mi ha detto di essere la segretaria dello studio legale che si trova nel piano inferiore. Credeva che nel palazzo non ci abitasse nessuno, ma ha sentito la musica e non è stata capace di farsi gli affari suoi, di limitarsi a recuperare il portafogli che aveva dimenticato in ufficio e andarsene.
– Dalle tue parole e soprattutto dal tono di voce seccato con il quale le pronunci, deduco che non si tratta di una bella donna, – disse Luca sogghignando come un satiro.
– Non si tratta di bello e brutto, non ne ho mai fatto una questione di estetica, entro certi limiti, ovvio. Non è giovane, anzi, credo abbia più o meno quarantacinque anni, e sono certo che sia anche madre. Lo si intuisce da una certa sensazione di stanchezza, di spossatezza che si diffonde dalla sua persona. Ma non credo sia sposata, non porta anelli alle dita, – replicai fissando il vuoto, o meglio, ciò che a Luca poteva sembrare il vuoto, perché io osservavo lei, la sconosciuta, lì davanti a me.
– Certo, quarantacinque anni e pure madre, non è proprio il massimo, lo capisco. Comunque, come è andata a finire?
– È finita che si è scusata e se n’è andata, sbattendo persino la porta dietro di sé, ma senza volerlo. Figurati, io ero spossato da una giornata di febbre… l’ho lasciata andare via senza replicare nulla.
– Tuttavia, ho il sospetto che ci sia anche dell’altro, non è vero?
– C’è che non riesco a liberarmi di lei, la vedo sempre davanti a me e questo mi infastidisce come se avessi un sasso nella scarpa.
– Lo chiamano colpo di fulmine, amico mio, – concluse Luca trasformando il sogghigno precedente in un vero e proprio riso, ampio e prolungato, e colpendomi con il gomito sul costato.
Io non risposi, non gliela diedi questa soddisfazione. Mi limitai a schiacciare con rabbia la sigaretta lasciata cadere a terra, non ancora del tutto finita, e a rientrare in libreria. Per la seconda, forse terza volta da quando ci conoscevamo mi confidavo con lui e lui reagiva così, sogghignando, ridendo, facendo lo spiritoso. Per l’ennesima volta avevo la conferma della nostra irriducibile diversità. Luca aveva il vizio maledetto di scherzare su tutto, di ridere e di tentare a tutti i costi di suscitare il riso nell’interlocutore, anche a costo di risultare indiscreto, mentre io ho sempre creduto che da ridere non ci sia proprio niente. Lui riteneva la vita una festa, io una profonda tragedia.
D’altra parte, parlarne non era servito a niente, lei, la sconosciuta, restava lì, fissa nella mia testa. Forse, se mi fossi confidato con un amico, un amico vero, e non con quello sciocco di Luca, che credeva di essermi amico, ma non lo era, non poteva esserlo tanta era la distanza che ci separava, sarebbe stato diverso. Magari, approfondendo la questione con un uomo a me affine e al quale mi legava un affetto profondo, sarei riuscito a scacciare l’immagine ossessionante. Ma i miei amici sono andati tutti dispersi nel corso degli anni, c’è chi ha messo su famiglia ed è sparito dalla circolazione, chi si è trasferito altrove per lavoro. Del resto, nella vita di un uomo le persone sono oggetti che si perdono, il più delle volte senza neppure volerlo, e non esiste un ufficio oggetti smarriti dove poterli recuperare.
Quel giorno mi toccava il turno pomeridiano, dalle 12 alle 20, quindi chiusi io la libreria, di cui avevo una copia delle chiavi (con Luca ci alternavamo nei turni, di settimana in settimana, e chi faceva quello dalle 9 alle 17 apriva il negozio, chi faceva l’altro lo chiudeva), ma non mi recai subito a casa. Passai prima al supermercato, avendo il frigorifero ridotto a un deserto freddo.
Il cancello d’ingresso del mio palazzo è in via Carlo Cattaneo, la libreria dove lavoravo è in via Carlo Cattaneo, il supermercato dove faccio la spesa è in via Carlo Cattaneo. Insomma, via Carlo Cattaneo è un microcosmo, ci sono anche un ristorante, un forno, un bar, due parrucchieri, uno da uomo e uno da donna, svariati negozi d’abbigliamento, di cui uno cinese che, pronunciata una formula magica, nel retro fornisce servizi extra dedicati a ciò che gli abiti sono stati ideati per nascondere. Un uomo può nascere in via Carlo Cattaneo e morirci senza esserne mai uscito. A meno che non si ammali, perché per la farmacia bisogna attraversare la strada e spingersi fino alla vicina piazza Cavalieri di Vittorio Veneto.
Il silenzio del palazzo quando al pomeriggio o alla sera tornavo a casa dopo una giornata di lavoro, quando gli uffici, gli studi legali e notarili, le agenzie assicurative avevano chiuso i battenti, era un toccasana. Varcata la soglia del portone avevo la sensazione di entrare in una dimensione nuova, isolata da tutto e da tutti, che riempivo io solo con la mia presenza e la mia musica. Quando poi era domenica, almeno nelle prime ore del mattino, sembrava proprio che non esistesse altra dimensione al di fuori di questa. Nelle prime ore del mattino perché poi, a pranzo, andavo a trovare i miei genitori, mangiando con loro e facendogli compagnia fino alla sera, guardando le partite del campionato di calcio delle 15 con mio padre, prendendo il tè con mia madre.
Ma quella sera il palazzo non era deserto, c’era proprio lei, la sconosciuta, ad attendermi fuori dal portone del mio appartamento. La trovai seduta per terra, la schiena e la testa poggiate sul muro, le gambe distese poste una sopra l’altra. Dormiva. Vedendola in quelle condizioni, vinta da un sonno senza dubbio inatteso, involontario, frutto evidentemente di quella grande stanchezza che emanava dalla sua persona e che avevo notato subito, provai una profonda tenerezza, che solo un’altra volta, prima di allora, avevo provato in vita mia, in sogno, abbracciando la madre di mio figlio, che portava ancora in grembo. Quella notte, oltre che padre, ero stato soldato, indossavo la tuta mimetica e imbracciavo il fucile. Insieme a un manipolo di miei compagni aprivo la via per la fuga di un intero popolo, il mio popolo, su sentieri d’alta montagna, stretti, ripidi, tortuosi, e non avevo paura, sentimento che mi accompagna sempre nei sogni pericolosi, dove la vita è a forte rischio. Forse perché mettevo a repentaglio la mia vita per proteggere quella non ancora sbocciata di mio figlio e quella di colei che dentro di sé la custodiva, sua madre, una donna mai vista nella realtà, ma di cui, ancora oggi, conservo un ricordo nitido, molto più nitido del ricordo di tante persone conosciute davvero.
Adagiai la busta della spesa sul pavimento, con delicatezza, tentando di non fare rumore. Mi chinai sulla sconosciuta, piegando le ginocchia, e le accarezzai la testa, piano, come tante volte aveva fatto mia madre con me, quando, da bambino, mi addormentavo sul grande tappeto persiano del salone, dove passavo ore e ore a giocare, per svegliarmi e condurmi a letto. Curiosa la storia di quel tappeto persiano, ancora oggi al suo posto, costoso souvenir del viaggio di nozze in Iran della migliore amica di mia madre, lei che aveva sposato un noto medico più vecchio di trent’anni e al suo terzo matrimonio, mentre mia madre un semplice meccanico navale e nel loro viaggio di nozze non si erano spinti oltre Firenze.
– Sono qui, – sussurrai all’orecchio della sconosciuta.
Quel sentimento di disagio che mi aveva accompagnato per tutto il giorno pensando a lei, era svanito, senza lasciare traccia, come se non fosse mai esistito.
Dopo le mie parole lei si mosse, aprì gli occhi, annacquati dal sonno, e mi sorrise, di un sorriso pieno, lieto, soddisfatto, proprio di chi ha goduto di un’ora imprevista di riposo, seppure in una posizione scomoda, innaturale. Ma all’improvviso la sconosciuta scattò in piedi, come una molla premuta e rilasciata, dopo aver di colpo ripreso coscienza della situazione. Anch’io mi alzai, ma lentamente, e ci ritrovammo faccia a faccia, lei una decina di centimetri più in basso di me, che non arrivo neppure al metro e settanta. Era davvero minuta e tutto nel suo corpo era proporzionato, non aveva nulla che non corrispondesse alla sua statura. Non doveva avere un solo grammo di grasso in eccesso addosso, come me, del resto.
– Sono venuta solamente per scusarmi dell’intrusione di ieri sera, – disse la sconosciuta, in evidente imbarazzo, lo sguardo scaraventato a terra, in direzione della busta della spesa.
– Mi dispiace di averla fatta aspettare così a lungo, ma ho finito di lavorare alle otto e ho dovuto comprare qualcosa per cena, – mi giustificai senza sapere perché.
– Non importa, – rispose e scattò di nuovo, ma questa volta per andare via, in direzione dell’ascensore, inciampando sulla busta della spesa, che guardava dunque, ma non vedeva.
La rincorsi e la afferrai per un braccio, invitandola a entrare in casa. Non disse niente, mi seguì e basta.
– A meno che non debba correre dai suoi figli, – aggiunsi spalancando il portone e accendendo la luce.
– Lei che ne sa? – domandò sorpresa dalle mie parole.
– Solo una madre può addormentarsi in quel modo, seduta per terra, e sorridere come lei ha sorriso quando mi sono permesso di svegliarla, – risposi sforzandomi di assumere un tono leggero, baldanzoso, posando la busta della spesa sul tavolo della cucina. Le porsi una sedia e mi accomodai anch’io, di fronte a lei.
– Un’altra memorabile figura di merda, – sospirò con rammarico, puntualizzando poi come ne avesse una sola di figlia, di nome Marina, dieci anni appena compiuti.
– Perché Marina? – domandai.
– Perché mi piace il mare, – rispose abbassando lo sguardo, come se si vergognasse di una ragione così ovvia e banale.
– E lei invece, come si chiama? – chiesi allora, ragionando sul fatto che mi avesse presentato prima sua figlia che lei stessa, come se si trattasse di un documento di riconoscimento, di un certificato di nascita e di esistenza.
– Marta, e anche questa volta il motivo è piuttosto banale. La mia bisnonna materna si chiamava così, me l’hanno sempre descritta come la donna più buona di questo mondo e, dandomi il suo nome, speravano di trasmettermi almeno parte della sua grande bontà.
– Ci sono riusciti?
– Sì, purtroppo per me.
– Beh, ne sarà felice sua figlia Marina. Immagino che, grazie alla sua bontà, l’abbia assecondata molte volte.
– Troppe.
– Immagino inoltre che non ci sia bisogno che mi presenti. Dopo la disavventura di ieri sera, questa mattina, prima di salire nello studio legale, deve aver dato una sbirciatina alle cassette della posta, – dissi con un sorriso benevolo.
– Lei conosce bene le donne, forse troppo bene, – rispose Marta giudicandomi evidentemente per quel dongiovanni che non ero mai stato, pur desiderandolo, in alcuni momenti della giovinezza, con tutto me stesso e più di ogni altra cosa, come se la seduzione fosse l’unico scopo nella vita di un uomo. Feci presto i conti con la realtà: volevo essere un seduttore, ma non ne avevo i mezzi, ed esiste forse pena peggiore per un uomo che non essere all’altezza delle proprie ambizioni? Da questa discordanza nascono gli Erostrati.
– Conosco troppo bene il genere umano, – puntualizzai con una punta d’amarezza, – ho letto troppi libri nella mia vita, e troppo importanti. Mi hanno insegnato troppe cose, cose che contribuiscono solo a rendere la vita ancor più dura di quanto già non sia. Una vita consapevole grazie a loro, d’accordo, ma penosa, perché la consapevolezza uccide la spensieratezza, e se non si riesce a raggiungere un compromesso tra ciò che si è appreso e ciò che ci circonda, beh, la sopravvivenza diviene allora una vera e propria impresa. Lasciando perdere queste sciocchezze, avevo intenzione di preparare una frittata per cena. Non mi costa niente aggiungere un uovo in più. Che ne dice? – proposi alzandomi e sfilandomi il cappotto, che avevo dimenticato addosso.
– E la sua compagna? Non c’è? – domandò guardandosi attorno.
– La mia compagna? – ripetei scoppiando a ridere. – Liza non è la mia compagna, è una prostituta. Viene a trovarmi una volta alla settimana, il mercoledì, e mercoledì era ieri, puoi stare tranquilla. Dopo questa confessione il passaggio al tu mi sembra più che giustificato. Io mi metto all’opera in cucina, tu fai pure come se fossi a casa tua. Puoi fumare dentro, girovagare per le stanze, entrare in camera e sfogliare i libri, accendere il camino, se ne hai voglia. Insomma, sei libera di fare quello che vuoi.
Neppure da ragazzo dell’opinione degli altri me ne importava molto, figuriamoci ora, a trentadue anni suonati. Quindi meglio dire subito le cose come stavano, soprattutto a una persona che ospitavo in casa mia. Ho sempre tenuto in gran conto l’ipocrisia, considerandola una virtù utile, apprezzabile, persino necessaria e come tale l’ho coltivata negli anni, ma ci sono momenti in cui fa bene essere sinceri, spontanei, come quando ci si infila le scarpe da ginnastica, si esce di casa e si cammina senza avere una meta, senza voltare indietro lo sguardo, senza pensare al ritorno. Del resto, salvo rarissime occasioni, di cui non vado fiero e il cui funesto ricordo mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni, non ricorrevo alla prostituzione per piacere o per depravazione, ma per necessità. E se esiste ancora qualcuno schiavo di pregiudizi e luoghi comuni che biasima la mia condotta, beh, è affar suo, non mio. Io sono al di là del bene e del male.
Iniziai quindi a cucinare. Ruppi con cura le uova e sbattei il contenuto dopo aver aggiunto sale e parmigiano. Una frittata semplice semplice, insomma, come quella che prepara Marcello Mastroianni per sé e per Sophia Loren nel film Una giornata particolare di Ettore Scola, accompagnata da un’insalata mista già pronta, solo da condire, e da mezzo filone di pane fresco, duro, ma fresco, superstite nel reparto panetteria del supermercato. Un colpo di fortuna, vista l’ora.
Era strano preparare da mangiare e apparecchiare la tavola per due, non mi era mai capitato da quando vivevo da solo, e questa stranezza mi fece sorridere più di una volta. Quando tutto fu pronto, la tavola e la frittata, già tagliata in quattro parti, l’insalata condita e il pane affettato, lasciai la cucina alla ricerca di Marta, che aveva abbandonato la stanza subito dopo la fine del nostro primo colloquio, senza neanche offrirmi il suo aiuto. La trovai seduta sul bordo del letto, di fronte al camino, che aveva acceso. Fumava una sigaretta.
– È pronto, – annunciai dopo aver bussato alla porta, felice che avesse acceso il fuoco. Se non lo avesse fatto lei lo avrei fatto io. Le domandai persino se volesse mangiare lì, davanti al camino, ma fece di no con la testa e, dopo aver gettato la sigaretta nel fuoco, mi seguì in cucina, dove sedemmo di nuovo uno di fronte l’altro.
– Perché tieni quella pila di libri a terra sebbene sulla libreria si possa ancora ricavare spazio? – domandò dopo aver mangiato, con una voglia che mi fece davvero piacere, il primo boccone di frittata. È proprio vero, la fame è il migliore degli ingredienti.
– Perché quei libri non meritano di stare in libreria, o almeno non nella mia libreria. La stessa pila è anche in bagno, accanto alla tazza, dovessi aver bisogno di carta igienica, – risposi in modo reciso.
– Ne hai moltissimi di libri, li hai letti proprio tutti?
– Reputo i libri che meritano di trovare spazio nella mia libreria non solo la parte migliore di me, perché una volta letto un libro ti entra dentro, appartiene al tuo corpo, ma dell’intero genere umano. E questi, sì, li ho letti e riletti tutti, mentre quelli a terra non li ho neppure sfiorati.
– Ma allora perché li hai comprati? O sono forse regali?
– Lavoro come commesso nella libreria qui sotto e sono i libri che mi consiglia il titolare. Li prendo solo per fargli un piacere.
– Quindi non hai una grande stima del tuo datore di lavoro.
– Non ho una grande stima di nessun uomo, compreso me stesso, sia chiaro.
– Come siamo radicali… Comunque bella casa, complimenti, e buona la frittata, complimenti doppi.
Allora le raccontai la storia della casa, che si trattava del dono di mia nonna al suo unico nipote, e le parlai delle modifiche che avevo apportato.
Fortunatamente quella sera dall’appartamento dirimpetto alla cucina non giunsero grida. Che il marito avesse ammazzato la moglie durante la giornata, nel corso della mia assenza, e fatto sparire il corpo? Che avesse ammazzato pure i figli? Me lo chiesi davvero, ma senza rendere Marta partecipe di quelle mie domande terribili. Forse, col senno di poi, così come le avevo confessato che andavo a puttane, avrei dovuto confessarle che avevo vicini capaci di ammazzarsi da un momento all’altro, anche a costo di mandarle la frittata di traverso. Così almeno sarebbe stata pronta al drammatico sviluppo degli eventi, con il quale dovrò fare i conti ancora una volta, avendo deciso di scrivere questa storia. Ogni vero scrittore è affetto da sadismo, perché scrivendo ci si fa del male. Dalla materia narrata, che sia autobiografica oppure inventata, non si è mai così distanti da poter restare insensibili, gelidi demiurghi, al contrario, si è sempre coinvolti.
Finimmo di mangiare e poi sparecchiammo, insieme questa volta, ma senza fiatare, senza guardarci neppure. Proposi il caffè, Marta accettò e dopo averlo bevuto lo giudicò il caffè più buono che avesse mai assaggiato.
– Lo so, – risposi con soddisfazione.
Ci spostammo in camera mia, accomodandoci entrambi sul bordo del letto. Fumammo e, dopo aver terminato la sigaretta, Marta si sdraiò. Io non mi mossi.
– Ho sempre sognato di avere un seno grande come quello di Liza, al posto di questo petto da ragazzo che mi ritrovo, – confessò con un sospiro, così, di punto in bianco, come se per tutta la sera non avessimo fatto altro che parlare di forme femminili.
– Io non ho mai amato le mezze misure, o bianco o nero, o caldo o freddo, o niente o tutto. Per questo motivo mi piacciono entrambi gli estremi, il seno enorme di Liza, morbido, comodo e accogliente come un guanciale, e il tuo petto da ragazzo, levigato come marmo, – risposi senza distogliere lo sguardo dalle fiamme danzanti all’interno del camino, piccole odalische rossastre.
– Lo pensi davvero o lo dici solo per circostanza? – domandò Marta sincerandosi della veridicità delle mie parole, con l’intimo bisogno che le confermassi, come tradiva il tono tremolante della sua voce.
– Lo penso davvero, e poi, come diceva van der Rohe, less is more.
– Credi che oggi sia venuta da te solamente per scusarmi o che ci sia anche altro? – cambiò discorso.
– Credo che il fatto che tu mi abbia posto una simile domanda dimostri come neanche tu lo sappia, e se non lo sai tu non posso saperlo io. Posso immaginarlo, ma non saperlo.
– E cosa immagini? – insisté.
– Non immagino niente, perché immaginare una ragione diversa dalle scuse significherebbe, seppur inconsciamente, giudicarti, e non credo che tu lo meriti. Non mi sembri una doppiogiochista, o qualcosa del genere. Liza però, prima di andare via, mi ha detto di aver visto nel tuo sguardo la voglia matta di essere al suo posto, sopra di me.
– Tu cosa hai visto nel mio sguardo?
– Paura.
Marta sospirò ancora una volta e disse: – Sai, Leonardo, sì, ho sbirciato la tua cassetta della posta stamattina, prima di andare a lavoro, mi sembra di conoscerti da una vita, di aver passato centinaia di serate come questa, sdraiata sul tuo letto, chiacchierando con te, lagnandomi del mio seno piatto. È tutto così strano… Questo giorno sta passando come se fosse un sogno. Intendo dire che non ho la piena coscienza di ciò che faccio e di ciò che dico. Già so che, prima di addormentarmi, mi domanderò se ciò che è accaduto sia accaduto davvero oppure no. Ti capita mai?
– Mi capitava, quando ancora credevo che ci fosse differenza tra la vita e la morte.
– E ora?
– Ora non più. Che fine ha fatto il padre di Marina? – domandai senza pensare a quanto questo interrogativo potesse risultare indiscreto, indelicato, fuori luogo. Forse era la precedente riflessione di Marta, il fatto che le sembrasse di conoscermi da una vita, a rendermi così sfrontato, come lo ero di rado. O forse è l’indifferenza elevata a condizione esistenziale a rendere impudenti, a lungo andare. In ogni caso, Marta non se la prese, anzi, dalla sua risposta ebbi persino il sospetto che le premesse chiarire quella questione.
– Finalmente una domanda… Ci siamo conosciuti a trent’anni, abbiamo la stessa età. A trentatré siamo andati a convivere e due anni dopo è nata Marina. A quarant’anni ci sentivamo praticamente degli estranei, stanchi l’uno dell’altro, e ci siamo separati, d’accordo, senza drammi, senza sceneggiate. Avevamo entrambi già altre relazioni e lo sapevamo, facendo finta di niente, come se nulla fosse. Lui da un paio d’anni si è trasferito a Milano, per lavoro, ma con Marina si sentono tutti i giorni e almeno una volta al mese la viene a trovare. Siamo in buoni rapporti.
– Se Marina ha dieci anni e l’hai avuta a trentacinque, significa che hai quarantacinque anni.
– Sì, quindi?
– Li dimostri tutti.
– Che stronzo che sei.
Avevamo scherzato entrambi con quelle due ultime battute. Mi allungai anch’io accanto a Marta. Eravamo piccoli e un letto singolo ci bastava. Le afferrai la mano e iniziai a giocherellarci. Aveva dita sottili, affilate, le unghie piccole, tagliate corte e dipinte di nero. La sentii sospirare, per la terza volta, ma così profondamente come nessuna delle due volte precedenti.
– Che significa questo sospiro? – domandai passando il polpastrello del pollice sulle piccole vene verdastre che le sporgevano sul dorso della mano. Io guardavo la sua mano, lei guardava il soffitto.
– Che mi sento un’adolescente, – rispose a bassa voce, in un sussurro appena percettibile.
– Una sensazione spiacevole? – mi informai.
– Tutt’altro, piacevolissima. Non mi accadeva da tanto tempo…
– Ora provo a farti arrossire, vediamo se ci riesco. Da ieri sera, da quando ti ho vista per la prima volta, non riesco a togliermi dalla testa il tuo volto. Mi ha perseguitato per tutto il giorno. Allora, ci sono riuscito?
– No, perché non ti credo. Ho smesso di credere agli uomini da molto tempo. Non mi aspetto più niente da voi e neppure dalla vita, spero solo che Marina non mi causi troppe preoccupazioni. Non vorrei essere costretta a spedirla dal padre. Cresce in fretta, troppo in fretta, e ogni giorno che passa la sento un po’ più lontana da me. Diventerà anche lei un’estranea? Me lo domando senza volermi dare una risposta. Una coppia può separarsi, d’accordo, ma cosa accade tra genitori e figli?
– Tutti i rapporti umani sono relativi. Ognuno di noi alla fine resta solo in se stesso, sconosciuto anche a chi lo ha messo al mondo. Nella mia vita ho fatto tante cose che i miei genitori non potrebbero neppure sospettare. Se le scoprissero non ci crederebbero, ne sono certo. Il fatto è che possiamo solo illuderci di conoscere davvero e fino in fondo una persona. Sono così tanti i casi di doppie vite… Ma sto andando troppo oltre. Mi dispiace se avevi pensato, forse addirittura sperato, di trovare in me un conforto, ma non sono mai stato capace di confortare me stesso, figuriamoci gli altri.
– Si è fatto tardi, devo andare, – disse Marta liberando la sua mano dalla mia, alzandosi dal letto e riordinandosi gli abiti spiegazzati. A proposito, quella sera Marta era completamente nera, un piccolo corvo. Indossava un maglione piuttosto lungo e dalla scollatura profonda, che mostrava la parte alta dello sterno, e pantaloni stretti, entrambi i capi d’abbigliamento del colore della notte.
– Immagino che non tornerai, – replicai con dispiacere, quel dispiacere che non conoscevo più, perché anch’io, come Marta, sebbene fossi molto più giovane di lei (ma l’età non ha alcuna importanza, un ventenne può essere più vecchio e stanco di un centenario se ha letto i libri giusti), non avevo più aspettative.
– Non ti libererai tanto facilmente di me. Ceniamo insieme anche domani?
– Va bene, ma prendiamo la pizza, – proposi ritrovando il sorriso.
– Ci sto. Dimmi che pizza ti piace e scoprirò chi sei.
Ridemmo entrambi, di cuore, come se fossimo scampati a un pericolo, il pericolo di perderci dopo esserci finalmente trovati. La accompagnai alla porta, ci salutammo e Marta andò verso l’ascensore, ma poi tornò indietro.
– Perché non hai provato a baciarmi? Mi trovi così poco attraente? – domandò guardandomi con imbarazzo, di sotto in su, tormentandosi le mani, come se si fosse mostrata a me nuda senza che glielo avessi chiesto, di sua spontanea volontà, esponendosi a una pessima figura e pentendosi di tanta audacia.
– Non si tratta di questo, – risposi sperando di non dover andare avanti, di non dover completare la spiegazione.
– Di cosa si tratta allora? – mi incalzò Marta, impedendomi di tirarmi indietro. Domandando la ragione del mio distacco, del mio mancato assalto alla sua femminilità lei si era giocata tutto, dignità, reputazione e non poteva certo accontentarsi di quella mia non risposta. Fui dunque costretto a vuotare il sacco.
– Non ho provato a baciarti non perché non ti trovi attraente, ma perché non voglio che torni ad esserci differenza tra la vita e la morte, – risposi con il tono dimesso e arrendevole di un assassino reo confesso.