I taccuini di Tarrou – 377

A Goethe la dismisura non era estranea. La rappresenta nelle sue opere, e con straordinaria efficacia – è suo il più grande nichilista della storia della letteratura: Mefistofele -, ma sacrificandola sempre al supremo ideale della misura. In Goethe la parte più luminosa, apollinea dell’esistenza trionfa sempre su quella più oscura, dionisiaca, e la morte, di cui non voleva neppure sentir parlare, in fondo è vista soltanto come un momento di passaggio verso un fantastico altrove in cui gli uomini torneranno a vivere ma in perfetta armonia tra di loro.

Ora, è del tutto naturale che Goethe non comprendesse, e dunque non apprezzasse, Kleist, smisurato nella creazione e nella vita. Entrambi scrutano l’abisso, ma Goethe distoglie presto lo sguardo – soltanto il Werther è puro frutto dell’abisso – e lo rivolge al cielo, lasciandosi elevare dalla luce, mentre Kleist nell’abisso precipita, per non riemergere più. Goethe doma, vince e reprime la parte più oscura, dionisiaca dell’esistenza, mentre Kleist la vive restandovi intrappolato. Come tutte le nature estreme, Kleist non sa spingersi oltre il proprio dramma. Dal proprio dramma è divorato.

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