I taccuini di Tarrou – 228

Le separazioni sono schianti improvvisi e mortali contro il muro della realtà, della nostra condizione effettiva, miserevole, dolorosa, disperata. La fine di una relazione, in particolar modo di una relazione sentimentale, soprattutto se decretata unilateralmente, scaraventa l’individuo nell’insensatezza, nella sofferenza, nella miseria, ovvero in ciò che è la sua realtà naturale, ma che egli, fino a questo traumatico momento, ignorava, o aveva dimenticato, grazie alla soddisfazione quotidiana del proprio amore. È psicologicamente logico che la separazione ispiri nell’individuo, inconsciamente o meno, la tentazione di scomparire, nella stragrande maggioranza dei casi legata più a un intimo desiderio di oblio, di dimenticanza che a un’autentica, consapevole volontà di annientamento. Soltanto la speranza, di riconquistare l’amore perduto oppure di trovarne uno nuovo, o, in alternativa, una sorta di trascendenza del dolore possono salvarlo dalla morte. Trascendere il dolore significa fare del dolore la propria condizione, eventualità che si verifica soprattutto in coloro ai quali è la morte a strappare la persona amata. È questo che ho fatto dopo la mia separazione da Lei. Ora, Lei è viva, è lì che danza, ma è come se una sua parte, quella parte che mi amava e che mi aveva promesso sarebbe stata per sempre mia, mia solamente, fosse morta. Io sono vedovo di quella Lei che non c’è più, e se pure il nostro legame non mi avesse mai fatto dimenticare la mia condizione, la mia miseria, il mio dolore, la mia disperazione, la sua fine è stata l’ultima, definitiva, estrema conferma dell’esattezza delle mie terribili verità e dell’insanabilità del mio destino di nato-senza-amore.

Edvard Munch, Separazione I
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