Crisalidi – Capitolo I

Quella mattina d’inizio marzo di andare a lavorare non avevo proprio voglia. Chissà poi perché. Forse per lo scirocco, sgradevolmente caldo, che, da un giorno all’altro, aveva prodotto un improvviso e vertiginoso aumento delle temperature. O forse per il cielo pesante, ingombro di nuvole malate, sotto il quale si stava come sepolti vivi, un deserto al rovescio dal quale a intermittenza pioveva sabbia, sabbia che rendeva tutto ancor più sporco di quanto già non fosse, con le auto parcheggiate lungo le strade scivolose che cambiavano colore, ricoperte di uno spesso strato di arena mista a polvere.
Sentivo il mare, vecchio scorbutico, borbottare rabbiosamente al di là del Forte Sangallo e della vegetazione che lo circonda, lo assedia, lo divorerebbe se la lasciassimo fare. Perché non la lasciamo fare? Quei geni dei restauratori, ma forse non erano neanche tali, forse erano semplici operai di una ditta edile, conoscendo l’atavica predisposizione degli amministratori locali all’approssimazione e agli intrallazzi, sono stati capaci di intonacare le pareti interne del Forte di un bianco d’ospedale. Gli alberi e i cespugli almeno sono verdi. A proposito della conservazione dei nostri cosiddetti beni culturali, dovremmo smetterla di prendercene cura e lasciare che la natura, con inondazioni e terremoti, faccia il suo corso, agisca su di essi, li devasti, li mortifichi, fornendo così ai posteri un’immagine adeguata della nostra misera epoca, di noi putridi nepoti. Di quel poco di buono che è stato fatto in passato non siamo all’altezza, non ce lo meritiamo.
Mi sentivo umido, viscido, appiccicoso, torbido, un canale veneziano insomma. Il pensiero che quelle condizioni meteorologiche insopportabili potessero favorire un nuovo proliferare di mosche e di zanzare, dopo lo sterminio invernale, mi dava il tormento; gli insetti me li sentivo addosso.
No, di lavarmi, di cambiarmi, di scendere le scale (per fare un po’ di moto evito sempre di prendere l’ascensore) e di percorrere i pochi metri che mi dividono dalla libreria nella quale lavoravo, quella mattina non avevo proprio voglia. Che se la vedesse da solo Luca, il proprietario, tanto, in questo paese, in questo desolante regno del silenzio (non perché non si parli, ma perché, pur parlando senza sosta, non si dice niente, si sciorina soltanto un’interminabile sequela di luoghi comuni), in un negozio che vende parole una persona basta e avanza, ne basterebbe pure mezza. Mi domandavo perché mi tenesse ancora con sé, pagandomi persino uno stipendio, per quanto modesto (avevo un contratto part-time, ma non lavoravo meno di otto ore al giorno, dalle 9 alle 17 o dalle 12 alle 20, esclusa la domenica, giorno di chiusura della libreria). Forse semplicemente perché riteneva che lavorare da solo fosse ancor più noioso che lavorare in due, anche se la mia era una compagnia solo in apparenza: Luca parlava, parlava, parlava… io me ne stavo sempre zitto, facendo finta di ascoltare, buttando lì, di tanto in tanto, un «sì, certo, come no» o un «immagino». Luca monologava ogni giorno per ore e ore senza rendersene conto, o magari senza volersene rendere conto; non lo sapevo e non mi interessava, fintanto che ogni mese finanziava la mia sopravvivenza, e anche qualcosa di più, perché guadagnavo poco, è vero, ma avrei avuto bisogno di ancora meno.
Io e Luca eravamo, siamo completamente diversi. Lui si dichiara un comunista convinto, ha la tessera di Rifondazione, sottoscritta a quindici anni, parla di uguaglianza e disuguaglianza, talvolta persino di rivoluzione, indossa sempre t-shirts colorate con impressi sopra i volti di Marx, Engels, Lenin, Mao, Che Guevara, e ritiene che andare a votare sia un dovere ancor prima che un diritto, io sono invece un antipolitico, convinto che ogni forma di governo sia un regime, e che l’oclocrazia non sia una patologia della democrazia, ma la sua essenza, un egoista alla maniera di Stirner (ovvero: tu puoi fare e dire tutto ciò che vuoi, basta che non danneggi me, a quest’unico principio si riduce in sostanza la mia filosofia) e non mi reco mai alle urne, rabbrividisco al solo pensiero di poterlo fare, rendendomi complice, contaminandomi. Lui legge De Lillo, Pynchon, Foster Wallace, Rushdie, Baricco Carofiglio, Saviano e compagnia bella, io Dostoevskij, citando solamente il mio scrittore preferito, credo che tutto ciò che viene pubblicato oggi non sia letteratura, perché la letteratura è morta, come l’arte in generale, con la trasformazione della cultura in industria, e ho tatuato sulla schiena l’intero Inferno dantesco, dal vestibolo, luogo di dannazione degli ignavi, il mio luogo di dannazione se esistesse davvero, al lago ghiacciato di Cocito, dimora dei traditori e di Lucifero (una follia giovanile, lavorai persino un’intera estate, quella tra il quarto e il quinto anno di liceo, nel cantiere navale del porto di Nettuno, con mio padre, per racimolare i denari necessari all’impresa), e quando Luca mi invitava ad acquistare un libro contemporaneo, lo facevo solo per fargli un piacere, per tenermelo buono, libri che non solo non degnavo di uno sguardo, ma che non degnavo neppure di un posto nella mia di libreria, lasciandoli per terra, ammassati uno sopra l’altro, una parte accanto al camino, nel caso avessi avuto bisogno di carta per accendere il fuoco, una parte accanto al cesso, nel caso avessi esaurito la carta igienica. Lui si è laureato in Filologia moderna con una tesi su New Italian Epic di Wu Ming, anch’io mi sono laureato in Filologia moderna, ma con una tesi su La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter. Lui ogni giorno rigurgita tre giornali, «La Repubblica», «La Stampa» e «Il Fatto Quotidiano», dei talk show politici che infestano la televisione dalla mattina alla sera non se ne perde neppure uno, ha profili personali sui tre social networks più importanti, Facebook, Instagram e Twitter, mentre io del mondo, di questo mondo me ne frego e, per quanto possa sembrare assurdo, in casa non ho né un televisore né un computer, ma solo uno stereo. Lui ha un’auto e appena può si sposta, viaggia, io invece ho una bicicletta e mi muovo poco, sempre controvoglia, perché detesto il dozzinale cosmopolitismo al quale ci ha condotti l’estrema facilità di movimento dei nostri giorni. Luca, per esempio, è stato due volte a Cuba, ma non ha mai visitato la Cappella degli Scrovegni: un’assurdità, soprattutto per un umanista. Lui ha una compagna ed è padre, mentre io, come Cioran, credo che la paternità sia un crimine, perché la procreazione, in ogni caso goffo e ridicolo tentativo di protrarsi oltre la morte, quando invece non c’è cosa più rassicurante che svanire nel nulla senza lasciare la benché minima traccia del proprio passaggio su questa misera terra, allo stato attuale non fa altro che prolungare quella sterminata serie di orrori e dolori che è la storia umana, al culmine della quale incombe l’estinzione. Lui è della Roma, io della Lazio, e quando la sua squadra vince ne parla per giorni, quando invece vince la mia mi limito a sorridere, importunato presto dal pensiero della prossima, inevitabile sconfitta.
Insomma, siamo coetanei, abbiamo lo stesso titolo di studio, conseguito nella stessa università, La Sapienza, abbiamo scartato entrambi la possibilità dell’insegnamento, sebbene per ragioni diverse, lui di opportunità io di principio, abbiamo lavorato nello stesso negozio, i nostri nomi iniziano entrambi con la lettera elle – mi chiamo Leonardo -, ma, oltre a ciò, delle cose che contano davvero, non abbiamo niente in comune. Luca è un uomo contemporaneo, perfettamente integrato nel proprio tempo, io un uomo postumo, nato in ritardo, che dell’epoca che gli è toccata in sorte, le palpebre recise, vede tutte le brutture, tutte le mostruosità, e ad esse è incapace di adattarsi.
No, per la prima volta in due anni, quella mattina non sarei andato a lavoro, avrei inventato una febbre improvvisa. Volevo restarmene in camera mia, seduto sul bordo del letto sfatto, che non avrei rifatto, a fumare una sigaretta dopo l’altra, guardando fuori, il vecchio ospedale di Nettuno declassato a poliambulatorio, la chiesa di San Francesco, che contiene una pala d’altare di Andrea Sacchi, la posta centrale, dove qualcuno, sotto l’ombrello, era già in fila in attesa dell’apertura. Indifferente a tutto e tutti, la consistenza di uno spettro. Non c’era niente che mi legasse alle persone che vedevo muoversi sotto di me, accompagnare i figli a scuola e poi recarsi a lavoro. Io non avevo voluto essere come loro ed era passato ormai da un pezzo il tempo in cui di questo mio grande rifiuto ne soffrivo. Non che ne godessi, sia chiaro, molto semplicemente non mi interessava.
– Luca, perdonami, ma oggi non potrò venire a lavoro. Una febbre improvvisa non mi ha fatto chiudere occhio per tutta la notte e anche stamattina non accenna ad andarsene. Spero passi entro stasera, – dissi a Luca per telefono, mentendo con una naturalezza, con una semplicità che non mi sorprendevano più. Quando l’indifferenza diviene condizione esistenziale le menzogne sgorgano spontanee come confessioni.
– Non ti preoccupare Leo, riguardati, ci vediamo domani, – rispose Luca, comprensivo, per niente infastidito dalla mia improvvisa diserzione. Nessuno dubitava della mia sincerità, mai.
Quest’oggi dunque non avrò a che fare con volti umani, pensai riattaccando il telefono. Un dato di fatto che mi fece sorridere e respirare persino meglio, nonostante le nubi ammassate dallo scirocco che schiacciavano a terra, annullando la distanza dal cielo. Sembrava quasi di poterlo scalare, di potersi arrampicare su per le nuvole. Sembrava potesse bastare allungare il braccio per afferrarle. Ma anche senza quelle nubi pesanti, asfissianti, opprimenti, a trentadue anni suonati non sentivo più alcuna distanza dal cielo, perché per me ormai non era altro che cielo, uno spazio siderale vuoto. Tutto quello che mi circondava non era altro che quello che era, e basta. Da ragazzo percepivo altro oltre le apparenze, allora non più. Ero cresciuto? O meglio, ero invecchiato? No, ero solo inaridito, mi ero solo prosciugato, come si prosciuga la terra d’estate. Non si trattava di un effetto collaterale della vita, di una conseguenza delle delusioni, dei dispiaceri, dei dolori, che pure c’erano stati, e ben più numerosi delle soddisfazioni, dei piaceri e delle gioie, come è naturale che sia, niente affatto. Io il mio inaridimento, il mio prosciugamento lo avevo voluto, lo avevo preteso, lavorando su me stesso con l’impegno costante, maniacale e la determinazione severa del monaco che deve vincere se stesso, deve annullare se stesso, la propria essenza umana per ascendere qui e ora a Dio, ben consapevole del fatto che non avrà altre occasioni. Ma a cosa serve parlarne? Il bilancio di un uomo chiude sempre in negativo. Siamo imprese destinate dalla nascita alla bancarotta, il più delle volte persino fraudolenta.
Eppure allora ero un uomo fortunato e lo sapevo benissimo. Dopo la laurea magistrale ero stato senza lavoro solamente due anni, il primo dei quali impegnato peraltro nella preparazione del concorso per l’ammissione al dottorato di Italianistica, concorso concluso con esito negativo, manco a dirlo. Poi era comparso sulla vetrina della libreria, dopo un anno di curriculum sparsi ovunque senza ricevere neppure non dico una proposta, ma una risposta, un annuncio di lavoro e Luca, che mi conosceva da anni, ricevuta la mia candidatura, non volle prenderne in considerazione altre.
– Noi letterati siamo pochi e per definizione sfortunati, se non ci aiutiamo tra di noi, chi deve aiutarci? Anche se avrei preferito che tu fossi una bella letterata, – disse Luca il giorno stesso in cui gli consegnai il mio curriculum e lui mi affidò subito il lavoro, tutto in pochi minuti. All’epoca aveva appena rilevato la libreria, nella quale, fino a quel momento, era stato per anni un semplice garzone, come me. Ripensandoci ora, credo che quel suo slancio di solidarietà fosse dovuto anche, e forse soprattutto, al timore per la nuova e incerta avventura commerciale.
Ma non era solo questo a rendermi un uomo fortunato. Potevo inoltre vivere da solo senza dovere niente a nessuno, senza dover pagare ogni mese un affitto o un mutuo, e questo perché la mia nonna materna, la sola dei miei nonni che abbia conosciuto davvero, gli altri, compreso suo marito, sono morti presto e di loro non conservo che un vago ricordo, prima di lasciare questo mondo mi donò il suo appartamento. Ero il suo unico nipote e non voleva fare un torto a nessuno dei suoi due figli, evitando che tra di loro sorgessero malumori nel corso di un’eventuale trattativa per la vendita dell’abitazione. Così mi ritrovai con una casa di proprietà nel centro di Nettuno, peraltro a due passi dalla libreria. Il box auto lo affitto e il denaro va metà a mia madre, ritrovatasi senza lavoro a cinquantatré anni suonati, metà a mio zio, impiegato statale sposato, ma senza figli, per decreto naturale e non per scelta.
All’interno di questo palazzo di quattro piani sono l’unico residente, non ci sono abitazioni oltre la mia, ma solo uffici. Così, dalle cinque del pomeriggio alle nove del mattino del giorno seguente, sono completamente solo. Del resto, di vivere in un condominio tradizionale, dopo aver passato trent’anni in una grande casa in campagna, la casa dei miei genitori, non sarei capace, o, quantomeno, mi costerebbe una grande fatica, immagino, quindi va benissimo così.
Quando rincasavo da lavoro, fossero le diciassette o le venti, mi piaceva lasciare il portone dell’appartamento aperto, accendere lo stereo e ascoltare la musica, ma solo musica classica, e solo fino a Schönberg, ad altissimo volume. Lasciavo che le note invadessero l’intero palazzo, si diffondessero per i corridoi, i pianerottoli, le scale, giungendo fino al portone d’ingresso, premendolo, nel tentativo vano di erompere fuori, all’aria aperta, diffondendosi per le strade. Mi sembrava di dare vita alla materia, alle mura, mi sembrava di vederle agitarsi, scuotersi e staccarsi da terra, liberarsi dalla trappola d’asfalto che le imprigiona, scavalcare il Forte Sangallo, la sua vegetazione sempreverde e accomodarsi sulla spiaggia, a guardare il mare.
Il mio appartamento è all’ultimo piano e sono l’unico inquilino ad avere l’accesso diretto al terrazzo, dove stendo i panni e d’estate passo le serate calde, talvolta anche le notti, addormentandomi su un vecchio lettino da spiaggia, di quelli di legno, pesanti più di me, il nome dello stabilimento, dal quale sembra essere fuggito e capitato quassù per caso, sbiadito sullo schienale in textilene, che ti scortica se non ci metti un asciugamano sopra. Ho anche un barbecue sul terrazzo, ma che avrò utilizzato sì e no un paio di volte, non di più. Nell’epoca degli chef, non sono uno di quelli che mangia per godere, ma solo per nutrirsi, che ingerisce lo stretto necessario, senza spingersi oltre, e si vede: sono magro di una magrezza reputata da tutti preoccupante, ma in vita mia non ho mai sofferto di niente e sto bene così. Del mio corpo neppure me ne accorgo talmente è essenziale. Mi definiscono secco come un chiodo e ne sono contento, perché mi piacciono, mi sono sempre piaciuti i chiodi, sin da bambino, quando li rubavo a manciate dalla cassetta degli attrezzi di mio padre e li conficcavo dove capitava. E poi guardo sempre di traverso, con una punta di disprezzo, un uomo sovrappeso. Come un tempo era la magrezza a tradire la miseria di un uomo e di un’epoca oggi è l’obesità.
Apportai da subito qualche modifica a quella che era la casa di mia nonna. Del salotto ho fatto la mia camera da letto, perché in quello che era il salotto c’è il camino e ho sempre sognato di avere il camino in camera da letto. Lo tengo acceso da ottobre fino a maggio, qualunque sia la temperatura esterna. Al fuoco mi lega un rapporto intimo, che definirei familiare, forse perché, da bambino, ho passato tante notti dormendo davanti a lui, quando, appena costruita la casa, i miei genitori non potevano permettersi il riscaldamento. Di quel tempo di stenti mi porto dietro un’altra abitudine: dormo sempre con i calzini ai piedi. Inoltre ho una temperatura corporea bassa, ho sempre le mani fredde, anche d’estate (mia nonna mi diceva sempre: mani fredde cuore caldo), come se dal lago di Cocito che ho tatuato alla fine della schiena, spirasse davvero il gelo, propagandosi dentro e sopra di me.
Nella camera da letto serbo tutti i miei libri, disposti in ordine alfabetico in una libreria che occupa un’intera parete, mentre le altre le ho tappezzate di immagini: ritratti dei miei scrittori preferiti, riproduzioni di opere d’arte, da Giotto a Soutine. Ma ci sono anche calciatori, d’altri tempi: Giorgio Chinaglia, il dito indice rivolto in atto di sfida verso la curva sud dopo un gol segnato nel derby contro la Roma negli anni Settanta, e Giuliano Fiorini, travolto dall’abbraccio della gente dopo la rete miracolosa messa a segno contro il Vicenza, nell’ultima giornata del campionato di serie b stagione 1986-1987, quella dei meno nove. Chi non è laziale non può capire cosa significa essere laziale. Un luogo comune, che ogni tifoso, di qualunque squadra, dalla Juventus al Poggibonsi, affibbia alla propria fede calcistica, direte voi, ma non è così (potrebbe forse valere solo per un’altra tifoseria italiana, quella del Torino), perché ciò che conta davvero per il laziale è la storia della Lazio, una storia umana ancor prima che sportiva e come tale inevitabilmente drammatica, fatta di tante sofferenze e poche gioie. Per questo motivo chi nasce o chi diventa laziale, ed è questa un’altra singolarità, laziale lo si può diventare, lo resta per tutta la vita anche se smettesse di seguire la squadra. Più dei risultati conta il passato, che si custodisce con gelosia e si tramanda di padre in figlio, come ha fatto mio padre con me. Inoltre, nel mio caso specifico, il fatto di essere considerati figli di un dio minore è motivo di orgoglio.
Tornando all’appartamento, un altro intervento immediato fu la rimozione del letto matrimoniale. Non perché su questo letto mia nonna avesse esalato l’ultimo respiro, una notte come un’altra, addormentandosi e non risvegliandosi più, a novant’anni suonati (la morte non mi hai mai fatto impressione, anzi, insieme al sonno è l’ultima consolazione che mi resta), ma perché non amo avere più di ciò di cui ho bisogno, e la mia figura è così modesta che anche il letto singolo con il quale ho sostituito quello matrimoniale è troppo, mi basterebbe il lettino da spiaggia che tengo sul terrazzo, e avanzerebbe comunque spazio.
Libero dal lavoro, avrei voluto fumare una sigaretta dopo l’altra, ma non potevo, perché i due pacchetti che tenevo sul comodino dovevano bastarmi fino al giorno seguente, non potendo uscire per evitare incontri imbarazzanti e spiegazioni poco credibili, ridicole arrampicate sugli specchi. Potevo finire entrambi i pacchetti nel giro di un paio d’ore, ma avrei passato il resto della giornata in uno stato di sconforto totale. Pessoa scrisse che il tramonto è un fenomeno intellettuale. Da fumatore incallito qual era non avrebbe dovuto lasciarsi abbindolare da un insulso evento naturale e scrivere che non il tramonto, ma la sigaretta, che di certo stringeva tra le labbra mentre scriveva quella riflessione, è un vero fenomeno intellettuale, almeno per chi ne è all’altezza. Pessoa in quell’occasione non lo è stato.
Provai un improvviso e intenso bisogno di caffè, così mi alzai dal letto e mi spostai in cucina. Il caffè lo faccio ancora con la moka ed è una delle poche cose che mi riesce bene. Di caffè ne metto così tanto, ma senza mai pressarlo, che la moka compie una fatica enorme per partorirlo. Ogni volta è un lungo travaglio e in bocca sento proprio il sapore dello sforzo, della fatica, della spinta, un sapore duro e forte, che non attenuo ricorrendo allo zucchero, perché il caffè lo bevo amaro, e bollente, bestemmiando, come Cristo comanda direbbe mio padre.
La cucina affaccia di fronte a un palazzo diviso dal mio da una strisciolina d’asfalto. Si trova proprio davanti a un appartamento fino a qualche tempo fa abitato da una famiglia composta da padre, madre e due figli piccoli, un maschio e una femmina, il primo di sette, al massimo otto anni, la seconda di tre, forse quattro. I loro genitori non facevano altro che litigare e talvolta i toni si alzavano così tanto che le grida arrivavano persino a ferire le mie orecchie, con i vicini costretti a chiamare la polizia per mettere fine alla contesa.
Io queste cose non le capirò mai, io che dai miei genitori ho avuto un unico, grande e sacrosanto insegnamento, e in funzione di questo ho sempre ragionato della mia vita: non legarti mai per sempre a una persona, finché ti è possibile mantieni intatta la tua libertà, la tua indipendenza, perché dopo il matrimonio e i figli scopri di colpo che nella vita non c’è cosa più bella e preziosa che non dovere niente a nessuno e poter fare quello che ti pare. Un insegnamento involontario, inconsapevole, certo, che ho tratto io stesso osservandoli e soffrendo troppo delle loro discussioni, dei loro alterchi, quando l’insoddisfazione nei confronti di se stessi e degli altri componenti della famiglia diventava incontenibile, magari dopo aver tentato di annegarla nell’alcol – mio padre -, nella fatica – mia madre -, nella solitudine e nel silenzio – io -. Pensare allo spavento e al dolore di quei bambini che non avevano mai chiesto di nascere, di essere messi al mondo, mentre sentivano i loro genitori vomitarsi addosso insulti che non avrei pronunciato neppure in faccia al mio peggior nemico, escogitandone ogni volta di nuovi e sempre più volgarmente raffinati, era forse l’unico pensiero che riusciva ancora a scalfirmi.
Una sera, mentre cenavo, vidi l’uomo afferrare con forza la moglie per le spalle e sputarle in faccia. Assistendo mio malgrado a quello spettacolo ignobile, sentii i pugni stringersi, serrarsi, irrigidirsi ed ebbi la tentazione di scendere di corsa le scale, entrare nell’appartamento dirimpetto al mio e pestare a sangue quel bastardo. Poi però mi dissi che uno sputo in faccia in fin dei conti è meglio di una testata sul naso o di una coltellata nello stomaco. Ma non lo avrei lasciato impunito. Promisi a me stesso di dare fuoco alla sua auto e così feci, quella stessa notte.
Per quanto pensi e ripensi, non riesco proprio a capire perché i parenti della donna non abbiano mai mosso un dito. Se fossi stato in loro quel verme lo avrei ammazzato con le mie mani, felice d’aver dato alla mia vita quel senso che la vita non ha.

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