In queste ultime pagine la mano si è sciolta e ho scritto con meno fatica. Ho deciso comunque di prendermi una settimana di riposo per mettere ordine nei miei ricordi e prepararmi al meglio. Ho deposto la penna e afferrato la zappa e la vanga, ciò che dovrei fare in modo definitivo dopo aver terminato la stesura di queste memorie, perché anch’io, in fondo, come il novantanove percento degli uomini, non sono altro che braccia strappate alla terra.
Ho lavorato la terra in questi giorni, ma con metodo, e grazie alla fatica accumulata ora sono perfettamente vuoto, lucido e tranquillo. Ho lasciato riposare la testa, la memoria e impegnato il corpo. Ora posso riprendere in mano la penna e concludere. È giunto il momento.
Il matrimonio di Pietro e Sara si celebrò a Roma, città natale della sposa, nella chiesa di San Pietro in Montorio, alle pendici del Gianicolo, secondo la tradizione luogo del martirio dell’apostolo. Un angolo di Roma davvero incantevole: per il mio primo e ultimo incontro con Veronica non potevo sperare in uno scenario migliore. Non c’ero mai stato, lo visitai per la prima volta in quell’occasione e fui grato a Pietro e Sara per la scelta.
La funzione era prevista alle undici ed io ero lì già alle nove. Non avevo dormito bene la notte precedente, era stato un sonno tormentato il mio, continuamente interrotto e assai poco riposante. Mi era capitato di dormire in questo modo agitato prima della discussione delle tesi di laurea, fino a quel momento i due eventi più importanti della mia vita. L’incontro con Veronica li superava di gran lunga in quanto a importanza: stavo finalmente per incontrare la mia donna ideale, quella donna che per almeno quindici anni avevo cercato ovunque. Mettendomi a letto, con questo pensiero fisso nella testa, temetti seriamente di non riuscire a chiudere occhio, di passare la notte in bianco a causa della forte agitazione, la mia paura più grande, ma un acquazzone improvviso mi aiutò a prendere sonno. Il rumore della pioggia distese i miei nervi e interpretai quell’acquazzone improvviso e salutare, tanto per me quanto per la terra, come un segnale positivo, un auspicio benevolo. Non ricordo se e cosa sognai durante il sonno intermittente.
Partii da Nettuno di buonora, da solo. In me c’era un sentimento di solennità, che non volevo venisse turbato dalla presenza degli amici, per quanto cari, almeno durante il viaggio. Fui il primo ad arrivare in chiesa e ne approfittai per fare una passeggiata. La tensione aumentava di minuto in minuto e non riuscivo a stare fermo, fumavo una sigaretta dopo l’altra, mi guardavo intorno, ma vedevo poco o niente. Ero teso con ogni singola fibra del mio essere verso Veronica, come il girasole si tende verso il sole. La sentivo, sentivo la sua presenza farsi più vicina attimo dopo attimo e non stavo più nella pelle. Sapevo che nel momento in cui avrei posato lo sguardo su di lei la tensione si sarebbe sciolta e avrei ritrovato la calma e la lucidità. Sarebbe accaduto ciò che mi accadeva sempre prima di un esame universitario: attendendo il mio turno ero angosciato fino alla nausea e mi sembrava di non ricordare più niente, ma non appena mettevo piede nello studio del docente la tensione svaniva e mi sentivo leggero e preparato come se durante l’attesa non fosse accaduto nulla, o meglio, come se non ci fosse stata alcuna attesa.
Gli invitati arrivarono alla spicciolata, a piccoli gruppi, e quando giunsero i miei amici (tutti insieme, a bordo di un pulmino) fui costretto a unirmi a loro. Mi sforzavo di sorridere, di parlare e intanto continuavo a fumare come un turco. Gettavo sguardi furtivi all’orologio, ma senza leggere l’ora, senza vedere le lancette, come un tic. Sembrava che il tempo si fosse fermato, che fossi lì da un’eternità, sotto quel cielo troppo azzurro, troppo limpido, desolatamente vuoto.
E finalmente lei venne. Appoggiato al muro del belvedere, spalle all’impressionante panorama, da qualche minuto guardavo in direzione del parcheggio. La riconobbi da lontano: i suoi capelli del colore del rame mi ferirono gli occhi. Vedendola provai un terrore folle, che mi fece rabbrividire. Sì, un brivido lunghissimo e prolungato mi attraversò dalla testa ai piedi, provocandomi la pelle d’oca. Il primo impulso fu quello di fuggire, di scappare via da lì e rintanarmi nella mia auto, al sicuro. Mi sentivo come una preda braccata. Perché? Avevo paura di non riuscire a sostenere la sua presenza, di risultare goffo e ridicolo, di fare la figura dello scemo.
Veronica era in compagnia dei suoi colleghi, Pietro la raggiunse e, dopo averla salutata, iniziò a guardarsi intorno. Compresi che cercava me. Non avevo scampo, non potevo sfuggire all’inevitabile e così mi allontanai di qualche passi dai miei amici. Alzai il braccio, con rassegnazione, come se mi consegnassi contro voglia al mio destino, Pietro mi vide, mi indicò a Veronica e la lasciò dedicandosi agli altri colleghi. I nostri sguardi s’incontrarono e sorridemmo entrambi. Veronica venne verso di me ed io le andai incontro, lentamente, a testa bassa, le mani in tasca.
Indossava un lungo abito verde, che le lasciava le braccia scoperte, e vedendola pensai che non avrebbe potuto indossare nessun altro colore, perché il verde è il mio colore preferito e nelle mie fantasie me l’ero sempre figurata vestita di verde.
Mentre le andavo incontro, con una lentezza esasperante, quasi tentassi di assorbire ogni singolo istante di quel momento tanto atteso e temuto, la guardai di sottecchi: nella mano destra teneva la borsetta, mentre con la sinistra si portava i capelli dietro l’orecchio. Quante volte l’avevo immaginata fare quel gesto, che le si addiceva alla perfezione! Quell’abito poi esaltava la sua essenzialità. Sì, il suo era un corpo essenziale, in cui non c’era niente di eccessivo, di superfluo, uno di quei corpi femminili che non risulteranno mai volgari e provocanti, neppure nudi.
Finalmente ci trovammo l’uno di fronte l’altra, a pochi, pochissimi centimetri di distanza. Le porsi la mano, dalla parte del palmo, sorridendo con imbarazzo, quasi a elemosinare un contatto. Veronica abbassò lo sguardo e per qualche secondo restai così, con il braccio sospeso, poi mi gettò le braccia al collo. Le cinsi con entrambe le braccia la vita sottile, chiusi gli occhi e mi lasciai invadere e stordire dal profumo dei suoi capelli. In quel momento compresi cosa volesse dire abbracciare davvero una persona, stringerla a sé e diventare tutt’uno con essa.
Il tempo si fermò di colpo e tutto svanì intorno a noi. Non c’era più nessuno, non sentivo più le voci degli invitati raccolti davanti alla chiesa, ma solo il respiro di Veronica, accelerato per la forte emozione. Una parte di noi è rimasta cristallizzata in quel momento, in quell’abbraccio, ne sono certo.
– Dunque esisti davvero, questi otto mesi non sono stati un sogno, – le sussurrai all’orecchio, gli occhi serrati con forza, come se non volessi aprirli più, come se temessi, aprendoli, di distruggere quel momento, che avrei voluto fosse eterno.
– Quante volte ho immaginato questo momento, quante… – sospirò Veronica con voce tremante.
La sua voce, finalmente! Aveva una lievissima inflessione lombarda, appena accennata, ma sensibile al mio orecchio abituato a tutt’altro accento, un’inflessione che rappresentava un’evasione. Era come se lei venisse a me da un altro mondo. La sua voce era consistente, aveva fisicità, e parlandomi era come se avesse stretto ancora più forte l’abbraccio.
– Guarda, Veronica. Non potevamo scegliere un luogo migliore per il nostro primo incontro, – dissi mostrandole il panorama che si spalancava davanti ai nostri occhi.
– Sì, è davvero meraviglioso.
Ci avvicinammo alla terrazza e osservammo Roma in silenzio.
– Sei splendida, – dissi con imbarazzo, spostando lo sguardo su Veronica. Le sua guance avvamparono.
– Giosuè, ti prego… – sussurrò Veronica gettandomi un’occhiata supplichevole.
– Scusami, non volevo imbarazzarti. Hai viaggiato bene?
– Sì.
Avrei voluto sommergerla di parole, dirle tutto ciò che si era accumulato dentro di me in quegli otto mesi, rivelarle tutte le sensazioni prodotte dalla sua presenza, sensazioni mai provate prima, stordenti, persino soffocanti, dichiararle il mio amore, ma temevo di spaventarla. Così mi limitai a domandarle come stesse la sua bambina.
– Elisabetta sta bene. Negli ultimi giorni ha avuto qualche linea di febbre, ma niente di serio.
Veronica guardava Roma, stringendo la borsetta con entrambe le mani. Io guardavo lei, con i gomiti appoggiati sul muro, catturato dalla sua bellezza esteriore, che rifletteva alla perfezione la sua bellezza interiore. Osservandola in foto mi era apparsa sempre come un mistero indecifrabile, nel suo volto trovavo qualcosa di sfuggente, di enigmatico, mentre ora, al mio fianco, era tutto perfettamente chiaro. La osservavo ed era come se mi nutrissi di lei, dopo anni e anni di digiuno.
– Devo dirti una cosa, – disse Veronica dopo qualche secondo di silenzio.
– Ti ascolto.
– So quanto desideri passare del tempo con me ed esaudire questo tuo desiderio è il minimo che possa fare, così ho prenotato una stanza in un albergo di Nettuno, in modo che, finito il matrimonio, potremo passare la serata insieme, in piena tranquillità, senza dover pensare ad altro. È un modo per dimostrarti la mia gratitudine. Sei stato importante in questi mesi, molto più di quanto immagini, mi hai cambiato la vita e non ti sarò mai grata abbastanza per questo. Naturalmente sei libero di rifiutare l’invito, per qualunque motivo. La mia iniziativa potrebbe sembrarti inopportuna.
– Inopportuna? Dedicare del tempo a noi è il regalo più bello che tu potessi farmi, e va ben al di là dei miei meriti. Grazie, Veronica… Non immagini quanto tu mi stia rendendo felice.
Avrei voluto prenderle la mano, stringerla nella mia e trasmetterle il mio entusiasmo, ma avevo paura di imbarazzarla di nuovo e non mi mossi.
– Solo Pietro lo sa, ai miei colleghi ho detto che mi fermerò da un’anima qui a Roma. Credo che sia ora di entrare in chiesa, – disse Veronica voltandosi. Era seria, evidentemente rivelarmi i suoi piani le era costata molta fatica, come le era costata molta, anzi, moltissima fatica mentire ai colleghi e, soprattutto, a qualcun altro. Mi sentii in colpa.
– Allora io vado, – aggiunse Veronica muovendo un passo.
– Veronica, aspetta. Non devi sentirti obbligata a passare del tempo con me. In fondo mi basta averti vista, averti abbracciata e aver scambiato queste parole con te. Non voglio essere motivo di disturbo, – dissi a bassa voce, davvero dispiaciuto.
– Ma io desidero passare del tempo con te, lo desidero più di ogni altra cosa, – rispose Veronica tornando a sorridere.
Anch’io sorrisi, rassicurato dalle sue parole, e lei si diresse verso la chiesa. Io non mi mossi da lì, in balia di… di… sarebbe troppo riduttivo definirle emozioni. Tutto ciò che provavo aveva la portata di un fondamentale evento storico, era un 14 luglio 1789. Non avrei mai immaginato, neppure nelle mie fantasie più audaci, che Veronica potesse prendere una decisione simile, farmi un regalo così grande, così prezioso e, in fin dei conti, immeritato. Il pensiero che avrei passato la serata in compagnia di Veronica, della mia donna ideale, solo con lei, mi dava alla testa come alcol e tutto intorno a me assumeva un aspetto diverso, un colore diverso (non vediamo mai il mondo per quello che effettivamente è, ma per quello che ci appare in base al nostro stato d’animo). È vero, in quei mesi mi aveva scritto più di una volta che con i miei testi e la mia presenza le avevo cambiato la vita, ma un conto è leggerlo, un conto sentirselo dire di persona. Non dimenticavo di aver deciso di dire addio a Veronica quel giorno, non potevo dimenticarlo e non tornavo sui miei passi, ma vedevo tutto da una prospettiva diversa. Prima di interrompere per sempre il nostro rapporto, potevo godere in esclusiva per qualche ora della sua compagnia e solo questo aveva importanza, tutto il resto sbiadiva.
In chiesa, durante la cerimonia, come mio solito restai in disparte, nelle retrovie, rintanato in un angolo dal quale potevo vedere Veronica. La osservavo, ripensavo al nostro abbraccio, alle sue parole e quegli otto mesi assumevano ancora maggior valore. La osservavo e la assorbivo, la interiorizzavo, diventava una parte di me. Già lo era, certo, ma questo processo di assimilazione assumeva ora una portata definitiva. Quella notte finalmente avrei potuto sognarla e già sapevo che sarebbe diventata una presenza fissa nel mio universo onirico, dove avremmo potuto vivere ciò che nella realtà ci era precluso. Una certezza consolante, come la certezza di morire.
Osservavo Veronica e la mia immaginazione produceva quadri fantastici. Dopo anni e anni di prigionia, finalmente evadevo dalla realtà e, soprattutto, da me stesso, naufragando in un altrove che avevo sempre desiderato. Non opponevo resistenza e mi lasciavo trasportare dalla fantasia, alimentata dalle innumerevoli opere d’arte contenute nella chiesa. Come Pietro e Sara, anch’io mi univo per sempre a Veronica, e che questo avvenisse a sua insaputa non aveva alcuna importanza. Lei era lì, a pochi passi da me. Ripensai alle parole di Pietro, al fatto che avesse sacrificato il suo desiderio di volermi come testimone e gliene fui grato, ancora una volta, perché senza il suo sacrificio non avrei potuto godere appieno della presenza di Veronica, come facevo ora, libero da qualunque ruolo.
Ero felice? No, ero semplicemente spensierato, una volta tanto, e la spensieratezza non è un sentimento meno nobile della felicità, anzi (inoltre la felicità è sempre legata a una promessa di resurrezione ed io restavo fermo nel mio proposito di dire addio a Veronica, la sola persona che avrebbe potuto farmi risorgere). Non pensavo a niente, ero completamente in balia di Veronica, ubriaco di lei.
La fine della celebrazione mi riportò alla realtà. Nel viavai generale persi di vista Veronica e, fuori dalla chiesa, mi ritrovai tra le enormi braccia di Pietro.
– Te l’ha detto Veronica? – mi domandò all’orecchio.
– Sì, – risposi comprendendo subito a cosa alludeva.
– Sono felicissimo per te, fratello. Meritate di passare del tempo da soli, in tranquillità. Mi raccomando, non pensare troppo, qualunque cosa accada, lasciati andare, goditi l’attimo e di’ sì. Te lo ordino. Non ti ho chiesto di farmi da testimone, ho sacrificato la mia volontà per la tua serenità, per la tua libertà, ora ti chiedo, anzi ti ordino, di mettere Veronica davanti a tutto. Lei oggi è qui per te, non per me.
– D’accordo.
– Me lo prometti?
– Te lo prometto.
– Sulla nostra amicizia trentennale?
– Sulla nostra amicizia trentennale.
– Bene. Un’ultima cosa: Sara è incinta. Lo abbiamo scoperto la settimana scorsa e lo annunceremo al ricevimento. Sei il primo a saperlo, non lo abbiamo detto neanche ai nostri genitori. Buona fortuna, zio Giosuè, e che questo sia un grande giorno anche per te. Lo sarà.
Rientrai nella chiesa, ormai vuota, e mi accomodai su un banco, in disparte. Mi sedevo per la prima volta da più di tre ore, da quando ero arrivato a San Pietro in Montorio, e provai una gradevolissima sensazione di riposo. La notizia della gravidanza di Sara era certamente sensazionale, ma tutti i miei pensieri ruotavano attorno alle parole di Pietro dedicate a Veronica. Cosa significavano? Perché quella raccomandazione e quella promessa sciocca? Avevo promesso, soffocato e imbarazzato dall’abbraccio di Pietro, ma cosa? Dire sì, mettere Veronica davanti a tutto, ma cosa volevano dire queste parole? Avevo persino paura di dare loro un senso.
“Possibile che sia cambiato tutto?” mi domandai alla fine, ma senza rispondere, restando sospeso tra quegli interrogativi scomodi, misteriosi, spaventosi.
– A cosa pensi? – mi domandò Veronica sedendosi accanto a me. Ero piegato in avanti, stringevo la testa tra le mani, guardavo fisso a terra e non mi ero accorto del suo arrivo.
– Pietro mi ha appena dato una notizia incredibile: Sara aspetta un bambino. Non lo sa nessuno, lo annunceranno tra poco, al ricevimento, – risposi sorridendo. Avevo deciso di mentire a Veronica per non turbarla. Sembrava così serena e lieta.
– Giosuè, non immagini quanto Pietro ti voglia bene, sei davvero un fratello per lui. Mi parla sempre di te e gli manchi tantissimo.
– Lo so. Ci conosciamo dalla nascita e ho tanti motivi per essergli grato, il più importante dei quali è senza dubbio averti convinta a scrivermi.
– Anch’io gli sono grata per questo. Se non fosse stato per Pietro, forse non avrei mai trovato il coraggio di inviarti quella mail. Lui e Sara saranno degli ottimi genitori.
– Sì, sapranno essere all’altezza di questa responsabilità, come lo sei tu.
– Durante la cerimonia te ne sei stato in disparte e non hai fatto altro che guardarmi. Sentivo il tuo sguardo fisso su di me. Avremo il nostro tempo, Giosuè, ma ora devi goderti la festa e partecipare alla felicità di Pietro.
– Scusami, ma non ce la facevo a distogliere lo sguardo. Era un bisogno fisico, insopprimibile, come respirare, – spiegai arrossendo e chinando il capo.
Veronica mi prese la mano, che strinsi con delicatezza, come un fiore.
– Vieni, voglio farti vedere una cosa, – dissi alzandomi di scatto. Non si trattava di un’azione premeditata, ma di un’idea nata in quel momento.
Condussi Veronica, tra la folla, in una stradina laterale accanto alla chiesa, via di San Pietro in Montorio, dove si trovano, fissate alla parete, delle sculture in terracotta raffiguranti le stazioni della Via Crucis. Mi fermai davanti alla sesta stazione.
– In questa stazione Veronica asciuga il volto di Cristo, – dissi indicando la scultura segnata dal tempo, a tal punto da risultare quasi indecifrabile. – Questo episodio della Via Crucis rappresenta alla perfezione ciò che in questi mesi sei stata per me. Con la tua presenza costante, con le tue parole consolanti e amorevoli hai lenito il mio dolore e la mia disperazione. Sei stata un conforto inatteso e, per certi versi, miracoloso. Non mi hai cambiato la vita, purtroppo, come forse avresti voluto, e io continuo il mio cammino verso il Calvario, ma hai reso tutto meno doloroso, meno faticoso, meno cupo e misero, e grazie a te, oggi, provo sensazioni mai provate prima.
Nelle mie mail avevo espresso concetti di questo tipo innumerevoli volte, ma ribadirli di persona, davanti a Veronica, guardandola negli occhi, mi dava una soddisfazione piena, senza zone d’ombra, senza equivoci, una soddisfazione impossibile da provare attraverso la semplice scrittura. In un certo senso, è come se esprimessi questi concetti per la prima volta. Durante la nostra corrispondenza, quando le scrivevo parole simili, Veronica si limitava ad accoglierle senza rispondermi, senza neanche ringraziarmi (giustamente, sia chiaro, perché io non potevo pretendere e non pretendevo nulla in cambio, neppure un grazie), e neanche questa volta mi rispose, ma il silenzio fu accompagnato e colmato da un gesto: Veronica allungò la mano verso di me e mi accarezzò la guancia con delicatezza. Io chiusi gli occhi e respirai profondamente, come se quel contatto mi avesse guarito di colpo da un male oscuro e indefinibile.
– Mi sembra impossibile che nessuna donna ti abbia mai amato, – sussurrò Veronica ritraendo la mano.
– Nessuna donna ha mai saputo spingersi oltre l’apparenza, scoprire ciò che si nasconde dietro la mia triste figura. Non le biasimo per questo, al loro posto avrei fatto lo stesso. Guardami… sono la personificazione dell’insignificanza, – dissi, ma sorridendo, per non darle l’impressione che mi stessi autocommiserando, cosa che detesto con tutto me stesso.
– E poi, – aggiunsi, – come ti ho scritto tante volte, l’amore non è per tutti. Non sono il primo e non sarò l’ultimo a morire senza amore.
– Ma le cose possono cambiare da un momento all’altro, Giosuè, non sappiamo cosa ci riserva la vita, basta mettersi in gioco, – provò a rincuorarmi Veronica.
– Sì, le cose possono cambiare da un momento all’altro, è vero, ma non credo possano cambiare per me. Forse è la rassegnazione a ispirarmi queste parole, la rassegnazione totale alla solitudine e alla disperazione, al nulla insomma, ma so fin troppo bene cosa mi attende e non ho scampo, – dissi con aria cupa questa volta, adombrandomi di colpo.
– Non voglio vederti così, Giosuè, non oggi almeno. Non lo merita Pietro e non lo merito io. Non posso chiederti di essere felice, sarebbe sciocco, ma posso chiederti di non pensarci, almeno per un giorno.
– Hai ragione, scusami. È stato solo un momento, il passaggio di un’ombra, – dissi tornando a sorridere.
– Smettila di scusarti e smettila di pensare troppo, lo dico per il tuo bene. Per un giorno, almeno un giorno, metti da parte le tue idee, le tue preoccupazioni e lasciati andare. Fai ciò che ti senti di fare, senza sottoporre il tuo istinto a un preventivo giudizio ideologico.
In quel momento ebbi la tentazione bruciante di afferrarla per la vita e baciarla, baciarla lungamente, fino a succhiarle l’anima. Non avevo mai desiderato con un tale ardore di baciare una donna. Per qualche secondo lottai con questa tentazione con tutte le mie forze, strinsi i pugni nelle tasche e rivolsi lo sguardo altrove, lontano, oltre l’orizzonte. Veronica mi esortava a lasciarmi andare, a fare ciò che mi sentivo di fare e in quell’istante volevo baciarla, lo volevo con tutto me stesso, come se fossi nato solo ed esclusivamente per quello scopo, ma se lo avessi fatto, se avessi lasciato il mio istinto libero di scatenarsi, come avrebbe reagito lei? E se ci avesse visto qualcuno, magari un suo collega? Non potevo correre il rischio di offenderla e comprometterla, dovevo reprimere il mio desiderio, ricacciarlo indietro, schiacciarlo, annientarlo. Rischiavo di rovinare tutto e non potevo permetterlo. Mi costò una fatica enorme, credetemi, sentivo il sudore colarmi lungo il costato, sotto la camicia, ma alla fine riuscii ad avere la meglio sulla tentazione. Sospirai profondamente, schiudendo i pugni sudati.
– Cos’hai? – domandò Veronica, sorridendo con indulgenza.
– A volte non è proprio possibile fare ciò che vorremmo fare, – risposi sospirando di nuovo.
– Sei davvero così complesso e problematico come nelle tue mail, – disse Veronica con ironia, prendendosi gioco di me. Forse, nella sua sensibilità femminile, molto più acuta e perspicace della sensibilità maschile, aveva compreso tutto, il desiderio e la lotta per reprimerlo. Di certo con la sua ironia tentava di provocare una mia reazione, come tante volte aveva fatto nella nostra corrispondenza.
– Avevi dubbi? – domandai accettando e assecondando la sua provocazione.
– Ti prego di non offenderti.
– Non sono permaloso e poi tu non potresti mai offendermi, neppure se lo volessi.
– Questo lo vedremo, – disse Veronica con un tono di voce e un’espressione minacciosi.
– È impossibile, te lo assicuro.
– Ti avverto, Giosuè, non hai ancora visto il mio lato malvagio.
– Perché tu hai un lato malvagio?
– Chi non lo ha? Da bambina, per esempio, mi piaceva torturare le bambole, sai?
– Torturare?
– Sì, torturare. Ogni volta escogitavo una tortura diversa. La loro perfezione mi era insopportabile. Così belle, così magre, così bionde…
– Interessante, davvero interessante. Dunque devo stare attento a non farti arrabbiare, non vorrei fare la fine delle tue bambole.
– Uomo avvisato…
Tornammo davanti alla chiesa e ci separammo. Veronica raggiunse i colleghi, io i miei amici e fui costretto a sostenere un vero e proprio interrogatorio. Non potendo negare l’evidenza, raccontai loro che Veronica era una mia affezionata lettrice, con la quale avevo scambiato qualche e-mail e che incontravo per la prima volta. Fui vittima di un’ironia spietata, che accettai senza opporre resistenza. Quando rivelai loro che Veronica era sposata e aveva una figlia, i miei amici finalmente cambiarono discorso.