Non mi sono mai fidato di nessuno, neppure dei miei genitori, neppure dei miei amici. Neppure di me stesso. La consapevolezza ha avvelenato ogni mia relazione con un altro essere umano. Ho sempre guardato tutti con sospetto e diffidenza. Tutti, me stesso compreso. Ancora oggi, guardandomi allo specchio, mi domando se io non sia un grande bluff, se tutto ciò che ho fatto e, soprattutto, ciò che non ho fatto, se tutto ciò che ho scritto e pensato non sia altro che una menzogna imposta a me stesso, una sorta di punizione, di castigo auto-inflittomi per qualche recondita ragione psicologica che sconfina nella follia. Sarebbe consolante, in un certo senso.
Voglio dire che sarei felice di sbagliarmi, di riconoscere un giorno che voi avete ragione e io torto. Che l’uomo è un essere buono, generoso, altruista, pietoso in fin dei conti. Che esiste un disegno per tutti noi, concepito da un Dio misericordioso che, dopo la morte, ci accoglierà tutti nel suo grembo, tutti, nessuno escluso, perché nonostante le cadute siamo tutti bravi, belli, simpatici. Che siamo tutti innocenti, che la felicità esiste e si trova nelle piccole cose, che basta dire sì per aprirsi nuove vie, nuove opportunità impensabili fino a un minuto prima, che i nostri figli ci saranno grati per averli messi al mondo, per avergli donato la vita, che Cristo non è morto invano, ma il suo sacrificio ha salvato tutti noi, che basta chiedere scusa per rimettere a posto le cose, perché esistono il perdono e l’amore, che è possibile cambiare le cose. Sarebbe bello, tanto bello quanto inverosimile. Se tutto ciò fosse vero, della storia del genere umano ricorderemmo tutte le vittime, una per una, non i carnefici. Se tutto ciò fosse vero, non avremmo mai avuto Auschwitz e Birkenau, Hiroshima e Nagasaki.
Sì, sarei felice di sbagliarmi, ma non credo, ahimè, di commettere errori quando scrivo che l’uomo è malvagio, un lupo per gli altri uomini, pronto ad azzannare un suo simile alle spalle non appena ne ha l’occasione, che la vita non ha senso ed è dominata dalla sola forza del caso, che dopo la morte sprofonderemo nel nulla senza lasciare traccia del nostro breve e inutile passaggio su questa terra dimagrata, stuprata ancora e ancora e ancora, che nessuno di noi è innocente, perché non può esserlo in quanto essere umano, che la felicità non esiste e siamo destinati a soffrire come cani, che la risposta più giusta a qualunque domanda, a qualunque proposta è no, perché non c’è nulla che nasca che non meriti di essere distrutto, che la procreazione è un crimine, il peggiore dei crimini contro l’umanità, che l’esistenza e la condanna a morte di Cristo, il più grande uomo della storia, non hanno prodotto altro che il sistematico traviamento del suo messaggio da parte della Chiesa, una delle più grandi associazioni a delinquere che siano mai esistite, come tutti gli stati, che il perdono e l’amore sono favolette smentite ogni giorno e persino più volte nello stesso giorno da ciò che accade nel mondo, che non è possibile cambiare niente perché l’essere umano non ammette il cambiamento, è stato, è e sarà sempre lo stesso, il più malvagio, misero e insignificante tra tutti gli esseri di tutti i mondi, di tutti i sistemi, di tutti gli universi.
Quando mi guardo allo specchio e sono lì lì per sputarmi in faccia, mi ferma questo pensiero: se tutti gli uomini fossero come me, non ci sarebbero spargimenti di sangue, non ci sarebbero ulteriori tragedie oltre quella della nascita, non ci sarebbero violenze, soprusi, crimini. Ognuno per sé e il nulla per tutti: il mondo sarebbe un paradiso, non accadrebbe più nulla di rilevante, di memorabile: pagine di storia bianche, vuote. Certo, il genere umano si estinguerebbe nel giro di poche generazioni, ma sarebbe un’estinzione così dolce, pacifica e decorosa! Un sogno splendido, nel quale non posso cullarmi a causa dei miei occhi privi di palpebre, condannati a restare spalancati.
In tutta la mia vita, sin dall’infanzia, mi sono sentito davvero a mio agio solamente nella solitudine, tra le quattro pareti della mia stanza. Fuori, tra la gente, ho sempre provato un profondo e sgradevole sentimento di inadeguatezza. Fuori della mia stanza mi sono sempre sentito fuori di posto, insomma. Non tanto per me stesso, quanto per la presenza degli altri, così differenti e distanti da me. In giovinezza ho tentato di colmare la distanza, di ritagliarmi un ulteriore spazio nel mondo, attraverso lo studio e la scrittura, ma la verità è che non c’è posto per me in questo mondo all’infuori di questa camera strapiena di libri e dalle mura rivestite di parole.
Mi sono sempre considerato un uomo postumo e inattuale, nato drammaticamente in ritardo. Se fossi nato quando sarei dovuto nascere, cent’anni fa, grazie alle mie qualità, per quanto modeste, non avrei faticato molto a trovare un posticino consono alle mie attitudini. Oggi invece, in questo maledetto mondo, le mie qualità sono niente. Di fatto, nell’epoca degli chef, sono un uomo senza qualità, sprovvisto, in particolar modo, della principale qualità richiesta, davvero indispensabile, l’incoscienza. Sono troppo consapevole per sopravvivere a lungo in questo mondo, troppo assoluto. Ogni singola esistenza si basa sul compromesso, ovvero su ciò che detesto di più e che potrei accettare solamente se volessi punirmi, castigarmi ben oltre le mie effettive colpe. D’accordo, sono indifferente a tutto e a tutti, ma per accettare un lavoro come magazziniere, come cameriere, come barista, impieghi dignitosi, certo, ma per i quali non ho attitudini, dovrei essere in possesso di un’indifferenza cosmica impossibile da raggiungere, perché disumana, oppure di una propensione innata al servilismo, alla sottomissione che non ho mai avuto. Se a quel colloquio di lavoro per Amazon mi fossi comportato come una persona normale, incosciente mi avrebbero assunto, perché di schiavi non ne hanno mai abbastanza, ma quanto credete che sarei durato? Una settimana? Forse due? In ogni caso, ben presto mi sarei scagliato con violenza contro un superiore, contro qualche negriero particolarmente rozzo, spietato, arrogante e sarei fuggito a gambe levate. Non sarebbe accaduto niente di diverso, posso assicurarvelo. Allo stesso modo, se decidessi di farmi cameriere o barista, farei nero il primo cliente cafone e arrivederci.
Sono invece così tranquillo, così innocuo nella mia stanza, chino sui libri, impegnato a scrivere saggi che poi diffondo in internet e sono utili a molti. Contrariamente a quanto possiate immaginare, lavoro, sì, tutti i giorni, dal lunedì alla domenica. Tutti i giorni leggo, studio, rielaboro, scrivo. In otto anni ho messo a disposizione della collettività virtuale quasi seicento contributi, gratuitamente, senza ricavarne nient’altro che una gobba. Non ho mai visto neppure un euro e tutta la mia attività si riduce a una sorta di volontariato culturale. Volontario io, che odio con tutto me stesso qualunque forma di umanitarismo… Uno spietato paradosso! Naturalmente i miei genitori non possono accontentarsi di questa attività, perché non mi permette di andare via di casa, di comprane una tutta mia, di acquistare una macchina, di viaggiare. Di fare insomma tutte quelle cosette inutili e sciocche che fanno le persone normali.
Tra i tanti aspetti che detesto di questa nostra epoca degli chef, spicca il cosmopolitismo dozzinale basato su una democratizzazione e svalutazione capitalistica del viaggio. Il viaggio dovrebbe essere un’esperienza-di-vita altamente formativa, e invece ci spostiamo da una parte all’altra del mondo con ridicola facilità, trascorrendo in un paese lontanissimo una settimana, visitando i monumenti più importanti, ingozzandoci dei cibi tipici e illudendoci di conoscerli. Passiamo un paio di settimane a New York, la capitale del nulla, e ci riteniamo uomini di mondo. Non funziona così. Il vero viaggio è quello che compie Ulisse per tornare a casa, quello che compie Bardamu-Céline al termine della notte, quello che compie Primo Levi dopo la fuga dei tedeschi da Auschwitz. Voi non viaggiate, voi trascinate le vostre carcasse da un angolo all’altro del mondo, mentre ignorate persino alcune vie del vostro quartiere. Un italiano è stato alle Maldive ma non ha mai visitato la Sicilia: bella schifezza.
Ma sto divagando. Non avevo intenzione di parlare di questo, ma del mio rapporto con gli altri. Nessuno mi ha mai considerato per quello che sono, nessuno si è mai interessato al mio io più profondo, al mio egoismo, ma solo mettendomi in relazione a se stesso, adeguandomi al suo ruolo e alle sue aspettative, di genitore, fratello, amico. Nessuno, salvo forse una persona, mi conosce davvero, ha compreso la mia natura e sa il nulla che ho dentro. Certo, non ho mai dato una grande mano agli altri, sempre così schivo e diffidente, selvatico e cupo.
– Sono qui per studiare, non per farmi degli amici, – risposi una volta, all’università, a una ragazza che mi domandò il perché del mio atteggiamento, del mio auto-isolamento.
Non sono mai stato un uomo piacevole, divertente, d’accordo, ma perché non posso esserlo. Lontano dai miei libri provo una noia mortale. Quando i miei amici mi parlano delle loro faccende devo sforzarmi di non sbadigliare. Fingo di ascoltarli e nella mia mente penso a tutt’altro. Tranne rare eccezioni, come nel caso del nostro povero Orfeo, ciò che accade intorno a me non solo non mi tocca, ma neppure mi sfiora.
– Io non capisco come si possa vivere pensando tutti i giorni alla morte. È disumano, – mi disse una volta Pietro, il mio migliore amico, praticamente un fratello, mentre sorseggiavamo una birra guardando il mare. In quel momento ebbi la certezza che, nonostante l’affetto, non ci saremmo mai compresi davvero, che ogni uomo è solo in se stesso, prigioniero della sua Siberia. Neppure gli risposi.
Per gli altri non siamo ciò che siamo, ma ciò che loro credono che siamo. Gli altri non vedono la nostra immagine reale, ma se ne creano una che non esiste, che non è mai esistita e non esisterà mai. Per questo motivo è impossibile una vera comunicazione tra gli uomini. Un uomo parla e un uomo ascolta: quello che ascolta non comprenderà mai davvero il senso delle parole dell’uomo che parla, ma le subisce passivamente, o le rielabora in base a se stesso, alle conoscenze che possiede e ai pregiudizi che lo avvelenano. L’uomo vive in uno stato di incomunicabilità e di incomprensione permanente. Eppure gli uomini, bene o male, si capiscono, direte voi. Vedete, più che comprendersi gli uomini si orientano, tra luoghi comuni e pregiudizi. La loro comunicazione si riduce a questo. Parlano come se premessero dei pulsanti, dando voce a un luogo comune, a un pregiudizio, e non dicono niente, ma si orientano. Ora, questo è vero in generale, figuriamoci nel mio caso particolare. Quando parlate non vi capisco, quando parlo con voi è come se parlassi ai muri. Così preferisco starmene in silenzio e osservare. Del resto, ogni volta che un uomo parla perde una buona occasione per stare zitto, è un assioma. Il silenzio conferisce una certa dignità, una certa rispettabilità, non trovate? Non sapendo come il nostro interlocutore possa interpretare le nostre parole, corriamo in ogni istante il rischio di risultare ridicoli.
Ricordo la faticaccia che ho fatto per spiegare a un conoscente che per me le belle giornate sono quelle brutte.
– Che splendida giornata, – mi fa lui, ammirando un cielo così azzurro da accecare.
– Orribile, – gli rispondo.
– Come orribile? – mi domanda stupito.
– A me piacciono le giornate uggiose, in cui l’azzurro del cielo è uno sgradevole ricordo e dalle nuvole nere e pesanti cade una pioggia battente, feroce, che travolge e ripulisce ogni cosa, – gli spiego.
Niente, questo mio conoscente non riuscì a capacitarsi che potessero piacermi le brutte giornate. Un’altra volta, a un altro povero di spirito, tentai di spiegare che se dall’oggi al domani tutti i potenti della terra avessero detto che due più due fa cinque, tutta l’umanità da quel momento in poi avrebbe creduto che due più due fa cinque. Che ve lo dico a fare… Sarebbe stato più semplice scalare l’Everest.
Questi goffi tentativi di comunicazione riguardano tutti il passato. Ormai non provo più a spiegarmi e quando qualcuno in mia presenza spara una baggianata colossale lascio correre. Soprattutto quando sono tra la gente mi rifugio nel silenzio, mentre nella solitudine della mia stanza mi faccio lunghe chiacchierate con me stesso, con gli autori e i protagonisti dei miei libri, ma anche in questo caso è difficile comprendersi. Quando leggo un libro, lo analizzo, lo viviseziono non ricorro solamente alle mie conoscenze e alle mie capacità, ma anche alle mie attitudini e alla mia visione del mondo e della vita. La lettura diviene così una vera esperienza esistenziale, che conferisce attualità al testo e nuova vita al suo autore, un po’ come faceva il nostro povero Orfeo con le sue donne morte. Ma come sono finito a parlare di analisi del testo? Oggi sono portato a divagare… forse a causa di questo vento di burrasca così fastidioso da entrarmi nel cervello e scompaginare tutto.
Prima ho parlato di Pietro e vorrei aggiungere ancora una cosa su di lui. Ci conosciamo da quando siamo nati ed è praticamente un fratello per me, come ho già scritto. Nonostante questo affetto antico e duraturo, ho sempre avuto il sospetto che non ci saremmo mai davvero capiti e ne ho avuto la certezza quella volta sulla spiaggia. Ma in una circostanza in particolare l’ho sentito lontanissimo da me, davvero irraggiungibile: quando, qualche mese fa, mi ha comunicato la notizia del suo matrimonio.
– Io e Sara ci sposiamo, – mi disse a bruciapelo, su quella stessa spiaggia in cui, anni prima, mi aveva rivelato di non comprendere come si possa vivere pensando tutti i giorni alla morte, dunque di non comprendere me.
Quell’annuncio mi colpì come una mazzata tra capo e collo. È come se quelle parole avessero scavato un solco profondissimo tra noi due. Ho visto Pietro allontanarsi da me, rimpicciolirsi fino a scomparire. Era lui a muoversi, io restavo immobile, come sempre. Quelle parole hanno concluso per sempre qualcosa. Forse la mia giovinezza, perché non mi sono mai sentito così vecchio e decrepito come in quel momento. Un rottame da buttare.
Nelle mie relazioni con l’altro, e soprattutto con le donne, ho sempre cercato un mondo, un mondo alternativo a questo, migliore di questo. Ho sempre fallito, tranne in un’occasione, ma a questa occasione ho rinunciato e allora tutto è diventato buio dentro di me e intorno a me, definitivamente. Come Mefistofele, io sono colui che dice sempre no, perché non c’è niente che nasca che non meriti di essere distrutto, perché tutto ciò che è, è male.