Memorie dal nulla – Prima parte. Il nulla – V

Avete presente la celebre scena di Arancia meccanica in cui Alex Delarge è costretto, con gli occhi spalancati, a rigurgitare «atroci bocconi di ultraviolenza»? Ecco, io vivo così. La consapevolezza mi ha reciso le palpebre, per sempre, condannandomi a vedere tutto per quello che effettivamente è. Non posso chiudere gli occhi e rifugiarmi nel sogno, nell’illusione, nella menzogna. Non mi è concesso evadere dal nulla, neppure per un istante, non mi è possibile divagare. È come se Faust fosse rimasto intrappolato nel regno delle madri. Scoperto il nulla, vi sono rimasto intrappolato. Il nulla mi ha assorbito, divorato, mi è entrato dentro e ha raso al suolo tutto. Non sono rimaste neppure le macerie, dissolte anch’esse. Immobile nella mia stanza subisco i secondi, i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni senza muovere un dito, senza che niente mi sfiori. Osservo coloro che mi circondano e a ogni sguardo li sento un passo più distanti da me. Sebbene con il corpo sopravviva in mezzo a loro, in mezzo a voi, con la mente mi trovo in un altrove terribile, sorta di anticamera del nulla assoluto che ci attende dopo la morte. Ma quel nulla cosmico, irreversibile non esiste, è la benedetta dissolvenza dell’essere, la libertà dalla dolorosa dittatura dell’essere, mentre questo nulla, il mio nulla è spaventosamente reale, fisico, tangibile. Posso afferrarlo con una mano, è attorno a me, è dentro di me, sono io. Potrei distruggerlo solamente distruggendo me stesso.
Sono come un frutto intatto all’esterno, ma fradicio all’interno. Una contraddizione che mi è costata, e continua ancora oggi a costarmi, molti fastidi, soprattutto con i miei cari. Loro vorrebbero che mi omologassi come tutti, che prendessi posto, una volta per sempre, nell’umano consorzio, che diventassi come voi. È quello che vogliono da quando sono nato ed è quello che gli ho dato fino alla conclusione del mio percorso universitario, che ho tentato di prolungare con il dottorato, divenendo ricercatore, ma senza successo. Ora è cambiato tutto, ora non posso più assecondare il loro volere. Dovrei allestire una messinscena vergognosa, anestetizzarmi con poderose dosi d’ipocrisia, fabbricarmi una maschera sorridente da indossare ogni giorno, fare buon viso a cattivo gioco, lasciarmi intrappolare in una rete di relazioni senza importanza, dominate dalla falsità. Fatto questo, potrei permettermi un appartamento tutto mio, acquistare una macchina nuova, andare a cena fuori tutti i fine settimana, fare l’abbonamento alla pay-tv e seguire le partite della mia squadra del cuore, cambiare telefono ogni sei mesi, legarmi a una donna decente e mettere su famiglia, sposandomi magari. Un quadretto davvero incantevole, vero? Io lo trovo disgustoso, nauseante. Assecondare il volere dei miei cari significherebbe accettare una serie infinita di compromessi, lasciarmi divorare dal superfluo che domina incontrastato questa stupida epoca così distante dall’essenziale, inasprire ancora di più la trappola dell’esistenza, rinnegare scandalosamente me stesso, la mia natura, fare finta che la vita abbia un senso e che tutto duri per sempre. Non posso farlo, non ne ho la forza né l’incoscienza. Io non posso più essere qualcosa di diverso da quello che sono ora, non posso più mutare la mia forma, al massimo distruggerla.
A volte ho la tentazione incontenibile di mostrarmi nudo ai miei cari, di rivelare loro tutta la spazzatura accumulata in questi anni e che mi ha avvelenato l’esistenza, di spiegargli le ragioni del mio immobilismo, della mia paralisi, ma credete che, se lo facessi, mi comprenderebbero? Voi mi comprendete? Mi etichetterebbero come depresso, cosa che già hanno tentato di fare quand’ero un ragazzo di sedici anni che non aveva voglia di studiare perché la ragazza di cui era follemente innamorato lo ignorava, e mi imbottirebbero di farmaci. Viviamo in una società malsana, fondata sulla disonestà sistematica, sulla povertà di spirito eletta a regola universale, in cui gli individui con problemi fisici, gli invalidi, sono trattati come eroi, mentre gli individui con problemi psichici sono trattati come rifiuti, come scarti e annichiliti a colpi di pasticche. Gli invalidi sono coloro che, in assoluto, ho invidiato di più nella mia vita, persino più degli scrittori di successo. Com’è dolce e lieve la loro esistenza! Nessuno nutre delle aspettative nei loro confronti e tutti vedono in loro esempi di coraggio e di forza di volontà. Il paradiso!
Trovo scandaloso il modo in cui, messo al mondo un figlio, un genitore riversi su di lui tutte le sue frustrazioni, le sue delusioni, le sue sconfitte, condizionandone in base a queste le scelte.
Terminato il liceo, avrei voluto iscrivermi subito alla facoltà di Lettere.
– Lettere? E dopo? Iscriviti a una facoltà che possa garantirti un futuro certo, – mi risposero i miei genitori.
Così scelsi Scienze politiche. Non durai più di un semestre e l’anno successivo mi iscrissi a Lettere. Tutti i genitori sono così, dopo aver commesso il più grave dei crimini, gettando in pasto al dolore una creatura innocente, pretendono di imporre su questa stessa creatura il loro volere. Mi è capitato spesso di pensare che solamente un orfano possa considerarsi davvero libero. Se io fossi orfano, sarei già morto.
Non ce l’ho con i miei genitori, non provo un risentimento particolare nei loro confronti. Sebbene non mi è e non mi sarà mai possibile perdonarli per avermi messo al mondo, della tragedia della nascita non ne faccio una questione personale, ma universale, che va ben oltre le contingenze e i caratteri. Anzi, è innanzitutto grazie a loro, vivendo con loro, osservandoli e ascoltandoli tutti i giorni che ho compreso di non voler diventare come loro. Ne sono sempre stato convinto e oggi più che mai, perché tutto ciò che può ancora accadere – ma cosa? – non può aggiungere né togliere nulla alla mia esperienza esistenziale.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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