Per accorciare l’agonia della notte esco sempre dopo cena. Prendo la macchina di mio padre, la parcheggio di fronte al Santuario e mi trascino per le strade di Nettuno e Anzio, rasente il mare. Parto da San Rocco, arrivo fino alla villa di Nerone e torno indietro. Una decina di chilometri tra andata e ritorno.
Mi trascino e fumo. Mi trascino, fumo e penso. Mi trascino, il fumo mi scartavetra la gola, una sigaretta dopo l’altra, e penso. Per esempio penso che lo studio mi ha fottuto. So come stanno le cose e non posso fare finta di niente. Quando sai la consapevolezza ti cresce dentro come edera e soffoca tutto soffocando infine anche te.
Io so. Io so che la vita non ha alcun senso, che è assurda e gratuita. Io so che non esistono bene e male ma esiste solo il caso. Io so che tutto è vanità e che un uomo, ogni uomo, ricco o povero, per quanto possa illudersi del contrario, è insignificante e inutile per se stesso e per gli altri. Io so che la nostra nascita è un capriccio del caso, che veniamo dal nulla e che torneremo al nulla dopo qualche decennio d’inutile e gratuita agonia. Io so che nonostante i sospiri, le lacrime, le grida, le sceneggiate ridicole di chi resta la morte è l’unico bene che abbiamo. Perché, in sostanza, il non essere è meglio che l’essere. Io so che anche l’uomo amato in fondo è solo e abbandonato a se stesso, che si porta dentro una Siberia nella quale mai nessun altro essere vivente metterà piede. Siamo terre inospitali e sconosciute, molto spesso anche a noi stessi. Io so che ogni forma di governo è un regime e che la dittatura della maggioranza non è una patologia ma una condizione della democrazia, perché esisterà sempre un individuo che la penserà in modo diverso dalla maggioranza e sarà lui ad avere ragione. Io so che l’uomo è la creatura più misera di questo piccolo pianeta, di questo piccolo pugno di fango e che quando lo capiremo, smettendola una buona volta d’essere vittime e carnefici gli uni degli altri, sarà troppo tardi.
Io so ma avrei preferito non sapere. Io so ma avrei preferito mille volte restare all’oscuro di tutto, rintanato al sicuro di menzogne e illusioni rassicuranti, confortanti, come voi. Voi siete una cosa e io ne sono un’altra. Io non ho cittadinanza nel vostro mondo. Io sono un escluso.
Così mi trascino, fumo e penso. Quando arrivo a dirmi che tutto va al contrario di come dovrebbe andare mi sento mancare. Mi fermo, cerco il sostegno di un muro per non cadere e respiro a fatica. Allora devo raschiare il fondo del barile per trovare le ultime energie residue e andare avanti. È crudele sapere e non poter fare niente. Devi mandare tutto al diavolo, dimenticare tutto per poter andare avanti altrimenti è finita. Devi sforzarti con tutto te stesso di scacciare via i cattivi pensieri, le voci crudeli aggrappandoti a qualunque cosa. Alla luce di una finestra ancora aperta, al suono melodioso delle onde che vanno e vengono malgrado tutto, incuranti di tutto, alle risate di una coppia di ragazzi a passeggio sulla spiaggia deserta al chiaro di luna, alle figure bizzarre partorite dalla mente esausta ed esasperata che ti fluttuano davanti agli occhi stanchi, quegli occhi che vorrebbero chiudersi ma non possono farlo e senza che ci sia un motivo. Devi distrarti e capita che il mondo t’aiuti, ma capita anche che il mondo esageri riversandoti di colpo addosso tutta la sua ferocia e non sempre ti dice bene, non sempre riesci a uscirne indenne, come mi è successo una settimana fa.
Era l’una e stavo tornando alla macchina. Pochi metri mi separavano dall’auto quando quattro ragazzi, poco più che bambini, iniziano a insultarmi, così, senza motivo. Mi vomitano addosso tutta la loro rabbia repressa: bastardo, figlio di puttana, pezzo di merda, frocio e via dicendo. Io li ignoro e accelero il passo. Mi inseguono e mi raggiungono. Allora mi fermo e stringo i pugni, pronto alla lotta. Non partecipo a una rissa da almeno dieci anni e ne farei volentieri a meno visto il momento, ma non ho scelta. Li guardo, tremo per l’adrenalina e non sento più i loro insulti e le loro provocazioni. Li guardo ma non li vedo. Davanti ho quattro sagome deformate e nulla più. In due mi afferrano alle spalle e provano a immobilizzarmi. Mi dimeno, scalcio come un cavallo imbizzarrito e i due che mi stanno davanti non riescono a colpirmi come vorrebbero. Ci provano, si avvicinano, lanciano qualche pugno a vuoto e indietreggiano. Ma non riesco a liberarmi dalla stretta. Davanti a me vedo un braccio alzarsi e qualcosa alla sua sommità brillare alla luce fioca dei lampioni. È un attimo. Quella cosa brillante mi viene spaccata sulla testa e quando la sento andare in frantumi sul mio cranio e vedo i frantumi piovere a terra come pioggia vitrea capisco che si trattava di una bottiglia di birra.
Il colpo violento e improvviso mi stordisce. Stramazzo a terra come un sacco, senza neppure lamentarmi. Non ne ho avuto il tempo. Tutti e quattro i ragazzini mi prendono a calci sul costato e sussulto come se avessi le convulsioni, ma si fermano dopo pochi secondi e sento le loro mani rovistarmi addosso. Trovano il telefono e se lo prendono. Trovano il portafoglio e si prendono i venti euro che contiene.
– Dovevamo beccare proprio un pezzente, porco… – commenta quello che mi ha fracassato la bottiglia in testa e si è intascato i soldi, lasciando cadere il portafoglio a terra. Quindi se ne vanno.
Non ho perso conoscenza. Sento il sangue sulla faccia. Provo a pulirla e mi guardo la mano insanguinata. Provo ad alzarmi ma non ci riesco. Scalcio a vuoto, annaspo. Le suole consumate delle scarpe slittano sui vetri. Allora inizio a strisciare come un verme verso la macchina. Faccio qualche metro e mi fermo. Sono sfinito. Sento gli occhi riempirsi di lacrime. Io che in trent’anni non ho mai pianto, neppure quand’ero un bambino e non potevo avere nessuno dei giocattoli che desideravo perché i miei genitori non avevano abbastanza soldi per comprarmeli.
– Mamma… – biascico con il sangue che m’impasta e appiccica la bocca come colla.
Il campanile del Santuario svetta alto, verso il cielo nero e duro e io sono schiacciato a terra. Vorrei volare a casa, rintanarmi nella mia camera e gettarmi sotto le coperte, anche senza sonno, non fa niente. Sputo il sangue che m’impasta e appiccica la bocca e con il sangue esce pure un lamento debole, il debole guaito di un cane investito da un’auto e agonizzante sulla strada.
– Ma che v’ho fatto, porco… – sussurro a denti stretti ritrovando un briciolo di rabbia.
– Avreste dovuto ammazzarmi, bastardi. Vi farò vedere io, – farnetico, provando ad alzarmi ma ancora senza successo.
Sento sgorgare una lacrima, rigarmi il viso e mescolarsi al sangue più che ripulirlo. Mi sento sporco. Mi rassegno e mi scoppia la testa. Un martello pneumatico mi perfora il cranio nudo e sfasciato e arriva fino al cervello riducendo la materia grigia in poltiglia.
Un uomo passa in bicicletta. Lo chiamo, gli chiedo aiuto. Mi guarda, nei suoi occhi vedo brillare la paura e la tentazione di fuggire via.
– Fermati, ti prego. Aiutami, ti prego, – lo imploro tendendogli la mano tremante e sporca di sangue.
L’uomo si ferma. Lascia cadere la bicicletta a terra e corre da me. Si china su di me e prova ad alzarmi.
– Piano, che mi fa male tutto perdio, – gli dico aggrappandomi a lui come credo di non essermi mai aggrappato a un essere umano.
– Ambulanza, ambulanza, io chiamare ambulanza, – balbetta frenetico nel suo italiano stentato.
– Macché ambulanza, lascia perdere. Accompagnami alla macchina e basta, – gli dico di nuovo in piedi, finalmente.
Per fare cento metri ci avremmo messo un quarto d’ora. Con la mano tremante e sporca di sangue apro la macchina e mi butto sul sedile.
– Grazie, amico, – dico all’uomo sentendomi già meglio.
– No ambulanza? – domanda, il volto scuro sfigurato dalla paura, come se fosse stato lui a ricevere i calci e la bottigliata.
– No, tranquillo. Puoi andare ora, grazie.
E l’uomo se ne va, ma voltandosi verso di me a ogni passo. Di nuovo in sella, lo vedo svanire nella notte.
Chiudo la portiera e mi guardo allo specchietto retrovisore. La ferita non è grave. Il taglio è piuttosto piccolo e superficiale e ha già smesso di sputare sangue per fortuna. Certo, ho un bernoccolo che pare l’Etna ma va bene così. Poteva andare peggio. Risolto il problema della testa, sento di colpo tutto il dolore dei calci sul costato, come non lo avevo mai sentito fino a quel momento, e strizzo gli occhi. Temo di avere qualche costola incrinata. Penso di andare all’ospedale ma poi mi convinco che non è niente. Prima di tornare a casa però vorrei darmi una sciacquata alla faccia. Non ci sono fontanelle nei dintorni. Devo farmi forza, accendere la macchina e riprendere la via di casa. Attendo qualche altro minuto poi accendo e parto, guidando piano. A ogni minimo movimento mi trafiggono delle fitte nel costato e mi fanno sussultare. Alla prima fontanella lungo la strada fermo la macchina e mi fermo. Riesco a muovermi con una certa facilità per fortuna. Mi dico che allora deve essere tutto apposto, che non deve esserci niente di rotto. Dopo essermi sciacquato la testa e la faccia rientro in macchina, rinfrancato e fiducioso. Il peggio è passato.
Rientro a casa e mi faccio un bagno. Sono rimasto nella vasca, immerso nell’acqua bollente, per due ore. Poi mi sono messo il pigiama e mi sono infilato sotto le coperte. Non mi sono addormentato ma almeno sono riuscito a chiudere gli occhi e ho rivisto tutto. Ho persino sorriso pensando che a quei quattro figli di puttana era andata male. Non uscivo mai con più di venti euro nel portafoglio e il mio telefono era vecchio e scrauso. Facile che se ne siano liberati subito, buttandolo da qualche parte. Dei miei aggressori ricordavo solo quello che mi aveva spaccato la bottiglia in testa. La sua fottuta faccia si era impressa nella mia testa come se l’avesse fotografata. Non doveva avere più di sedici anni, le guance glabre crivellate di brufoli scoppiati. Prometto a me stesso che se lo incontrerò di nuovo gliela farò pagare cara, mentre ringrazio l’uomo che mi ha soccorso.
Al mattino devo lottare con mia madre per convincerla che non c’è bisogno di andare né all’ospedale né dai carabinieri. Non le ho parlato dei calci, ma solo della bottigliata. Per tutto il giorno sono rimasto a letto in pigiama e lei per tutto il giorno è rimasta accanto a me, come quand’ero bambino e stavo male. Io leggevo e lei, seduta in poltrona, lavorava a maglia, lanciandomi di tanto in tanto uno sguardo avvilito, scuotendo la testa grigia e sospirando.
– Mamma, – la chiamo mentre fuori imbrunisce e sono stanco di rigurgitare parole.
– Che c’è?
Vorrei dirle che avevo chiamato proprio lei mentre strisciavo a terra come un verme dopo essere stato preso a calci e il sangue m’impastava e appiccicava la bocca, ma cambio idea all’improvviso. Ho un groppo in gola e non voglio scoppiare a piangere davanti a lei.
– Vorrei un bicchiere d’acqua, per favore, – dico distogliendo lo sguardo dal suo sguardo pietoso e scaraventandolo fuori.
– Te lo vado a prendere subito.
Prima di lasciare la camera mi accarezza e mi dà un bacio sulla fronte. Allora mi ricordo di tutti i sacrifici che lei e papà hanno fatto in questi anni per farmi studiare quello che volevo studiare, per farmi laureare, a tutti i cessi puliti da mia madre e a tutta la calce stesa da mio padre, e per la milionesima volta in vita mia mi sento in colpa nei loro confronti. Credevano che sarei diventato un professore universitario o uno scrittore famoso e invece ero diventato un parassita. Un uomo esauritosi troppo in fretta.
Quando papà è tornato a casa e mi ha trovato in quello stato ha fatto una scenata. Voleva mettersi alla ricerca dei miei aggressori e ringhiava come un cane rabbioso.
– Se ci fossi stato io al tuo posto li avrei scannati come maiali! – sbraitava schiumando rabbia.
Ma la cena era pronta e dopo cena si è addormentato sul divano come se nulla fosse, distrutto dalla fatica e cullato dall’alcol.
Non esco da una settimana. Forse uscirò stasera. Ho deciso che porterò con me il coltello a serramanico che mi ha regalato mio padre qualche anno fa quando facevo l’orto e che usavo per smussare i pali e tagliare le zucchine. Se dovrò ammazzare qualcuno sarò felice di farlo.