L’addio di un giovane poeta ignoto

Poemetto in versi liberi composto di tre atti: il prologo, l’addio e l’epilogo.

Prologo

Spaventose, inospitali le tenebre avvolgono
il lembo di terra desolata.
Nel cielo nero aggravato
da nuvole immense, placide, innocue
brillano appese sparute stelle.
Un velo diffuso ed impalpabile
è il chiaro di luna che il mare rischiara,
il mare, distesa anch’essa oscura
dall’andamento monotono, perpetuo
e dal suono lieve
degno requiem dalle note gradevoli
per orecchie ferite da anni
di caotico frastuono umano,
troppo umano.
All’orizzonte lampi silenziosi sfavillano
come un tempo oramai per sempre perduto
dovettero sfavillare gli occhi
del giovane poeta solitario
sospeso sul mediterraneo precipizio.
Mai così breve fu la distanza
dallo schianto, dalla fine, dal nulla
dell’eterno riposo.
Mai così commosso fu un solo cuore,
arreso, in balia di se stesso,
del suo destino deciso da tempo,
impegnato negli ultimi, sommessi,
tenui battiti.

Una notte d’autunno,
colma ovunque di quiete
bruciò in rapida fiamma
l’anima ed il corpo di un ignoto poeta.
Ignoto alla moltitudine,
ma non a se stesso.

L’addio

Nacqui durante un crepuscolo come tanti,
dall’amore di due persone semplici
germogliando presto tra le nobili braccia della poesia.
Vissi un’esistenza silenziosa,
sopravvivendo giusto gli anni necessari alla lettura.
Io stesso provai a creare,
non sbocciarono che versi di modesto valore,
come questi del resto.
Nell’insoddisfazione dunque, e nell’angoscia,
nella melanconia, nella mestizia,
nella solitudine – mia gentile, fedele compagna –
e nel dolore – mio elegante, fraterno amico –
bramai l’Infinito…
solamente di rado intravisto.
Divorato da un inesprimibile malessere
presente quotidianamente nello spirito,
capace di avvelenare tutte le bellezze,
sulle quali stese sempre una patina viscida
di marciume e corruzione,
fui intollerante alla realtà
e troppo presto al sogno,
unico rimedio possibile.
Così dedicai giorni interi
alla coltivazione delle sofferenze,
nebulose cosmiche mai dome,
incomprensibili alla compagnia umana ch’ebbi accanto.
Un’orda pacata e continua
come il moto ondoso del mare
cui prestò concederò l’inutile corpo,
fu il mio dolore.
Insieme con esso, straordinaria signora
d’una eleganza ineguagliabile,
coltivai la morte come una miracolosa opportunità.
Decisi presto il mio destino di suicida
rimandando lo straziante epilogo
per pietà dei miei cari.
Ma ora è giunto il momento.
con largo anticipo dico addio al mondo.
Vana fu la mia presenza,
la consistenza di un’impronta fugace
impressa sulla sabbia.
Lo so, i miei genitori soffriranno,
con me ucciderò anche loro,
ma non posso proprio sopportare
un istante di più su questo globo
stuprato senza riluttanza dalla modernità selvaggia.
Nacqui, ahimè!, nel secolo sbagliato,
nel tempo sconosciuto alla poesia.
Non mi resta che morire.
Neppure l’amore può salvarmi.
Eppure amai! Ah, se amai…
tuttavia mai il mio sentimento sconfinato
fu corrisposto dalle magnifiche donzelle idolatrate.
Non ho più fede alcuna.
Alla fine di tutto, mi chiedo,
cosa resta?
resta un flebile sussurro nel chiasso.
Nient’altro.
Addio, e che tutti i miei miseri versi,
conati rassegnati versati senza esito alcuno,
svaniscano con me,
nel buio silenzioso
di una qualunque notte d’autunno.

Epilogo

Un ultimo, fugace sguardo al mondo,
alle luci della città assopita in lontananza.
Un ultimo, appassionato bacio alle donne
amate con l’ardore dell’uomo romantico.
Un ultimo, commosso ringraziamento alla famiglia,
incosapevolmente destinata ad un avvenire fosco
di estremo ed inconsolabile dolore.
Un ultimo, sommesso abbraccio alla natura,
madre generosa deturpata, violentata
dai soprusi ingrati del suo figliol prodigo.
E poi via, via nell’ultimo, folle e liberatorio volo
tra le braccia della morte, così comprensiva.

Instancabile cercatore d’Infinito
il giovane poeta trova nell’istante dello schianto rovinoso
contro il mare ed i suoi scogli ruvidi
la pace perpetua, ideale.
La fine di un’esistenza vana,
l’inizio del vuoto assoluto.
Addio giovane, incompreso ed ignoto poeta,
paladino non troppo coraggioso dell’illusione
rigettato dalla realtà come un organo trapiantato.

Questa notte è morta una luce flebile di poesia.
L’oggi perde un piccolo smeraldo prezioso,
e a pochissimi importerà.

Il corpo attraversato dal vento,
l’anima trionfante nel bagliore finale
si annientano volontariamente,
e soprattutto con gioia.
Ah, la gioia!
Mai provata in vita,
conosciuta nell’ora della morte.

Il poeta porta con sé secoli di parole,
prima lette e poi versate,
egli, la sintesi dei suoi idoli,
parassita d’un banchetto florido
al quale poté partecipare solamente
celandosi dietro la tenda più lunga
del dorato salotto lirico.

Morire nelle tenebre,
suicidarsi nel silenzio e nell’indifferenza
è l’essenza della pochezza
del nuovo millennio.

Scritti vari ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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