In provincia – L’estate

C’ho passato quindici anni tra gli ombrelloni gialloblu del Bellavista, lo stabilimento che sta sotto a quella gigantesca supposta che è il Grattacielo. Da quand’ero un bambino di otto anni e scendevo, con la mia sorellina di quattro, in compagnia della babysitter.
Una cosa sola facevamo a mare, dalla mattina alla sera, interrompendoci solo un’oretta per pranzare: giocavamo a pallone. Nient’altro. Avevamo una vera e propria squadra, la cui spina dorsale era rappresentata da me, il centravanti, e poi, risalendo via via il campo, da Mazzacchera, il nostro Golden Boy di Acitrezza, Faber, il più grande e pluribocciato, sfegatato fan di Fabrizio De André, Civita, il pallavolista latin lover di Civita Castellana appunto, Giorgione, un ragazzotto promettente che di lì a poco si sarebbe spaccato tibia e perone e non avrebbe mai più calciato un pallone, Orso, l’imponente fratello maggiore di Mazzacchera, e infine Pulenta, il portierino smilzo ma agilissimo, che schizzava di qua e di là come un gatto a cui scoppia vicino un raudo.
Di solito la mattina la passavamo ad allenarci tra di noi nella spiaggetta libera che sta affianco al Bellavista, e di cui oggi non è rimasta altro che una strisciolina di sabbia. Il bello veniva il pomeriggio. Raccattavamo dei rivali – che fossero dei romanini viziatelli oppure dei bulgari che puzzavano di birra non faceva alcuna differenza – e ci spostavamo a creta, dentro al Poligono, a diverse centinaia di metri dalla base. Qui c’era una porzione di spiaggia libera grossa come due campi da calcio, e potevamo sfogarci in santa pace, senza che nessuno si lamentasse delle pallonate. Prima del calcio d’inizio però, ci dipingevamo a vicenda con la creta sulla schiena i nomi e i numeri. Io pure la fascia di capitano, sul braccio destro, per fare l’anticonformista. Sistemavamo le porte con qualche pezzo di legno vomitato dal mare, e poi iniziavamo a giocare, dando vita a incontri memorabili, alcuni dei quali me li porto ancora dentro.
Senza falsa modestia, di quella squadra ero la stella. Se poi passava pure qualche bella ragazzetta in bikini, allora gonfiavo il petto e davo il meglio di me, sfoderando colpi di tacco e rovesciate come se non ci fosse un domani.
Eravamo una squadra aggressiva. Tra me, Faber e Orso non si sapeva chi menava di più. Ci piaceva il gioco duro, l’antisportività per noi era un valore, e oltre che tirare calci al pallone, amavamo tirarli sulle gambe degli avversari. A volte poteva capitare che a qualcuno tutta quest’aggressività facesse rodere il culo, e allora scoppiavano delle risse. Mai però con i bulgari, che stavano zitti e ricambiavano le legnate. Con loro sì che si giocava bene.
Una volta, che ero rientrato a dare una mano in difesa (gli avversari ci stavano schiacciando nella nostra metà campo), mi misi tra il pallone e uno sbarbatello romanino scortando la sfera oltre l’immaginaria linea di fondo. A un certo punto sentii una scarica di pugni colpirmi la schiena. Mi voltai appena appena e un cazzotto mi raggiunse sul naso. Il sangue iniziò a colare copioso, a fiotti. Il costume s’imbrattò tutto all’istante. Io lì per lì rimasi interdetto. Non appena il mio aggressore vide quel fiume rosso la smise di colpirmi e riprese la via del Bellavista, e con lui tutta la sua squadra. La partita terminò così. Non era durata molto, non più d’una mezzoretta. I miei compagni mi circondarono preoccupati, e nessuno di loro tentò di fermare quell’infame che mi aveva colpito alle spalle. Del resto, dove poteva scappare? Per tetti? Se non era quel pomeriggio stesso era la sera, per le vie di Cretarossa, oppure il giorno dopo. Mi chiedevano come stavo, ma non rispondevo. Era troppo forte il nervoso. Era la prima volta in vita mia che mi prendevano a pugni in faccia, e dentro di me meditavo la vendetta. Volevo fargli male, ma male male. E questa volta una mazzata sugli stinchi non bastava. Non poteva e non doveva bastare. Dovevo ripagarlo con la sua stessa moneta. Aspettai che si fermò il sangue, poi mi diedi una sciacquata con l’acqua del mare. Di ripulire dalle macchie di sangue il costume bianco e le mutande di marca che mi erano costate un occhio della testa e di cui esibivo trionfante l’elastico, non c’era verso. Allora afferrai un palo della porta, bello grosso, e mi avviai, con passo svelto, alla rincorsa dell’infame, che non doveva essere andato tanto lontano.
Un mio compagno troppo coscienzioso – non uno della spina dorsale della squadra – mi sbarrò la strada.
«Butta quel bastone Lorè. Non fare cazzate», mi disse con un tono di voce preoccupato, come se dovesse essere lui a colpire quell’infame che c’era venuto da Roma a rompermi i coglioni.
«Tranquillo… je vojo solo mette strizza», risposi con un ghigno maligno sul volto e ripresi la marcia.
Non era vero. Quel palo volevo spaccarglielo in testa. Avevo sete di violenza. Avevo sete di quello stesso sangue che poco prima avevo perso, come se le mie vene fossero andate in riserva.
Stringevo forte il bastone, come se per me fosse la cosa più cara di questo mondo – e sono sicuro che Orfeo dovette stringere allo stesso modo la mano di Euridice lasciando l’Ade -, e procedevo spedito. Sulla faccia mi sentivo uno sguardo furioso.
Finalmente lo beccai, sul confine tra il Poligono e la Lega Navale.
«Aò! Aò! ‘Ndo cazzo vai!», iniziai a sbraitare quando gli fui a una quarantina di metri di distanza.
Si fermò. Io accelerai ancora di più il passo, fino a corricchiare, e in un attimo gli fui addosso.
«Che vuoi?», mi domandò preoccupato, lanciando sguardi spaventati ora a me ora al bastone.
Io sapevo di fare paura con quello sguardo assatanato impresso sulla faccia, quel costume zozzo di sangue e quel grosso palo in mano. E ciò mi dava una sicurezza straordinaria. Sentivo le mie forze raddoppiate.
«Vojo solo parlà…», risposi. Poi iniziai a inveirgli contro, e dovevo sembrare un cane da guardia che abbaia quando si avvicina qualche sconosciuto. Avevo la bava alla bocca, e se avessi potuto gli avrei mozzicato quel cranio riccioluto con ancora maggior ferocia del conte Ugolino.
«Sei bravo sei… Me corpisci ae spalle senza motivo eppoi scappi pure. Bravo, bravo… complimenti… Se fa così, eh?».
Lui allora mi disse delle parole che mi mandarono definitivamente in tilt il cervello.
«Potevi reagì…», ecco quello che mi disse.
Io mi portai dal naso alla bocca un grosso grumo di sangue e lo sputai sulla sabbia, che se lo bevve rapida come se avesse sete. Pensai davvero di farlo a pezzi col bastone, ma per fortuna ebbi un lampo di lucidità, di buonsenso, nonostante il caos mentale, e compresi che stenderlo con una mazza non mi avrebbe dato la stessa soddisfazione che stenderlo a mani nude.
«Potevo reagì… eh?», ripetei guardandolo negli occhi e mordendomi a sangue il labbro.
Ma non attesi la sua risposta. Lanciai il bastone lontano e non appena ebbi il pugno libero gli mollai una castagna su quel suo grugno da romanino viziato che si ritrovava (se fosse davvero viziato non lo so, ma per noi nettunesi indigeni che vaghiamo per la città anche d’inverno, quando non c’è un cane e soffia un vento che sa di morte, tutti i romani che vengono l’estate in vacanza sono dei viziati). Gli spaccai il labbro inferiore. All’angolo sinistro della bocca aveva un buco, perché la carne s’era conficcata sull’incisivo, che l’aveva forata come i chiodi avevano forato la carne di Cristo.
Si dice che chi mena per primo mena due volte, ed è vero. Ma quella volta fu lui ad avere bisogno dei punti, non io.

***

Come ho detto, giocavamo a pallone tutti i giorni. Tranne uno: la vigilia di Ferragosto. Si doveva infatti organizzare il tanto atteso falò. La mattina andavamo a fare la spesa al supermercato più vicino, quello di fronte ai giardinetti (dove un giorno baciai una stangona polacca dagli occhi di ghiaccio conosciuta sulla corriera). Riempivamo il carrello di carne (bistecche, salsicce, pancetta), rosette, birra e patatine. Lasciavamo la roba a casa di Faber, che abitava proprio sopra il Bellavista, e poi andavamo a prenderci il posto nella spiaggetta libera accanto allo stabilimento. Uno teneva il posto, uno scavava la fossa per il fuoco e tutti gli altri andavano in giro a rimediare un po’ di legna.
Non appena calava il sole si accendevano i falò, e iniziava ufficialmente quella che era una vera e propria notte di Valpurga. La costa era uno spettacolo. Dal Poligono a San Rocco – poi la spiaggia era interrotta dal porto – scoppiettavano decine e decine di fuochi, attorno ai quali si mangiava, si beveva, si ballava e si gridava. Il cielo era coperto da un’unica, gigantesca nube di fumo che rimaneva sospesa a mezz’aria per l’umidità. Nell’atmosfera c’era un odore tutto particolare, che si percepiva solo in quella notte, misto di carne alla brace, sudore e alcol.
Alcuni erano organizzati davvero bene. Con le grosse tende avevano eretto dei veri e propri appartamenti, e istallato grosse casse che sparavano ad altissimo volume musica tecno. In posti del genere giravano droghe pesanti, pasticche, e lo sapevano tutti tranne le forze dell’ordine. Noi per l’occasione compravamo sempre una decina d’euro d’erba, che consumavamo nel buio e nella calma degli scogli, in quell’occasione speciale liberi dalla dittatura dei pescatori.
Calate le tenebre, la prima oretta la passavamo a cucinare e mangiare.
«A Giò, guarda che quella sarsiccia se sta a brucià».
«Lascia fa. Ma che ne sai te de brace?».
«Fa ‘n po’ come te pare, ma io quella nun me la magno».
«E me la magno io ‘nfatti. Guarda ‘n po’».
Dibattiti del genere si levavano più o meno attorno a ogni falò, tra una birra e l’altra. E per quanto potesse essere giusta la cottura della carne, alla fine nel panino ci finiva sempre qualche scricchiolante granello di sabbia.
Dopo la cena iniziavamo ad arare tutta la costa dal Poligono al Santuario, provando a rimorchiare. Ma era tutto inutile. Quella notte ogni singola ragazza di questo mondo sembrava accoppiata. Durante la passeggiata ci si godeva qualche scazzottata, proprio come se fosse uno spettacolo, si iniziava a bere forte – dalle tende sbucavano come animate di vita propria le bottiglie di super alcolici – e a fumare qualche cannetta, che ci stava proprio bene. C’era chi andava kappaò presto, e si vomitava pure l’anima. Qualcuno ci provava a imbucarsi negli stabilimenti tra una spiaggia libera e l’altra, a servirsi dei comodi lettini per saziare le proprie brame sessuali, ma i guardiani dell’est ringhiavano rabbiosi. Mostravano i denti e allora toccava stare alla larga, sennò erano botte.
A mezzanotte ci facevamo il bagno. E il mare nero, mentre per aria scoppiavano i fuochi d’artificio – e al largo si vedevano tutti, pure quelli di porto d’Anzio – ci sembrava di conoscerlo meglio, più intimamente di quello azzurro. Forse perché la notte nascondeva l’orizzonte e quella che il giorno era una massa d’acqua sterminata, ora pareva una piscina.
Dopo il bagno ci si asciugava al fuoco, quindi l’umidità si faceva man mano più pungente e toccava sfoderare il felpone. Per un paio d’ore la festa procedeva ancora su buoni ritmi, poi iniziava a perdere d’intensità. Diversi falò si spegnevano, molti tornavano a casa. I cadaveri degli ubriachi sparsi sulla spiaggia si moltiplicavano, e quel tratto di costa somigliava tanto a un campo di battaglia. Noi non ce ne andavamo. Noi restavamo fino alla fine, senza chiudere occhio neppure per un attimo. E più passava il tempo, più i discorsi si facevano profondi, filosofici. Si parlava della vita, della morte, di Dio, dell’amore e della donna, che all’epoca consideravamo ancora un mistero senza fine bello, ricordando il caro Gozzano. Avveniva persino un mutamento del registro linguistico. Dal dialetto si passava infatti a un italiano corretto, più consono alle delicate tematiche trattate.
«Non ho mai sentito una donna fare i nostri stessi discorsi», notava qualcuno tirando una profonda boccata di fumo dalla Marlboro che stringeva in bocca.
«Perché loro questi discorsi non li fanno», sentenziava un altro bevendo un lungo sorso di Peroni, dalla bottiglia grossa, quella da 66 cl.
«Eh… ho capito, ma perché?», domandava un terzo gettando un ciocco di legno nel fuoco mezzo morto.
«Perché sono pratiche. E questa praticità gliela dà la maternità. Le donne sono creature terrene, nel senso che sono piantate sulla terra e questo le dota di sicurezza. Certe domande non se le pongono perché sanno benissimo che sono inutili. Noi uomini invece siamo metafisici, abbiamo questo maledetto vizio e ci perdiamo in sterili e vane elucubrazioni che non portano a nulla. Come questa sera. In un mondo di sole donne, Dio non sarebbe mai nato», concludeva infine un quarto e tutti gli altri annuivano.
L’alba era forse il momento più bello. Seduti in fila sul bagnasciuga, in religioso silenzio ammiravamo il sole sorgere, e ci sentivamo come le piante. Poi ci rimettevamo le ciabatte, raccattavamo i rifiuti e andavamo a fare colazione. Cornetto e cappuccino, ovvio. Mettendo insieme gli ultimi spicci rimasti compravamo il Corriere dello Sport e ci mettevamo a leggerlo sotto alla Madonnina, nel piazzale antistante il Grattacielo. Alla fine rimanevo solo, e mezzo addormentato aspettavo le dieci per chiamare a casa e farmi venire a prendere. Non mi andava di disturbare i miei nell’unico giorno in cui potevano dormire più del solito, poveracci.
Da Ferragosto a settembre era un attimo. E settembre significava scuola, e scuola significava fine dell’estate. Piano piano gli ombrelloni sparivano, uno dopo l’altro, fin quando restava solo la prima fila e in spiaggia non c’era praticamente più nessuno. Nel cuore sentivo la morte, la malinconia montava e mi faceva quasi piangere. E nella vita di un uomo ogni giorno che passa è come un ombrellone che viene divelto dalla spiaggia.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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