Il peso dei legami – Prima parte – Cani randagi

Brandelli di nuvole strappate dal vento attraversano il cielo nero, lasciando intravedere solo di tanto in tanto una mezzaluna pallida più del solito, come malata, anemica. All’orizzonte la massa di nubi è invece compatta, un’imponente muraglia invalicabile, illuminata a intermittenza dai lampi. Intensa attività elettrica laggiù. L’eco dei tuoni giunge a terra attutito, innocuo, sommesso lamento appena sussurrato.
È piovuto tutto il giorno. Acqua finalmente, acqua benedetta dopo mesi di siccità e fiamme – migliaia d’ettari di boschi in fumo in un grandioso autodafé -. La terra riarsa beveva come disperata, a lunghi e profondi sorsi, tornando a respirare a pieni polmoni, e con lei i suoi bipedi e quadrupedi ospiti. Settembre ha posto fine a un’estate da caldo record. Sarà sempre peggio, dicono quelli che ne sanno, o quantomeno dicono di saperne. Impennerà la richiesta di rabdomanti. Una nuova figura professionale a smuovere le acque torbide e stagnanti dell’italico mercato del lavoro.
Carlo Ottaviani, classe ottantanove (crollo del muro di Berlino, condanna a morte di Salman Rushdie da parte del Grande ayatollah Khomeyni, trionfo di Fausto Leali e Anna Oxa alla trentanovesima edizione del Festival di Sanremo con il brano Ti lascerò), frutto non ancora del tutto maturo eppure già marcio in più di qualche punto – sempre per via della siccità -, se ne sta sulla terrazza del Belvedere a guardare il mare. Un mare infuriato, le cui onde schiumose, spumose calpestandosi, accavallandosi si infrangono con violenza febbrile contro gli scogli. Il fragore ininterrotto e il sibilo del vento e il lamento dei tuoni all’orizzonte. La colonna sonora perfetta per un dramma, e Carlo lo sa, ma sa anche che, alla fine della fiera, risulterà sempre una commedia.
Solo, ferocemente solo, Carlo osserva e nel contempo pensa. Sì, Carlo ha questo stramaledetto vizio: pensare. In quanti glielo hanno detto in tutti questi anni – ventotto -: tu pensi troppo, fa male alla salute. E la salute è certo la cosa che più conta, ma a Carlo di staccare la spina del cervello proprio non riesce, per quanto si prodighi. Suo grande limite (e lo scrivo scuotendo la testa, credetemi).
Laggiù, in quel punto della spiaggia ora ricoperto di acqua schiumosa e gorgogliante, laggiù, su quegli scogli ora sommersi baciò Lei, per la prima e ultima volta. Vagheggia, o forse sarebbe meglio dire vaneggia, una seconda occasione, dopo aver buttato al vento la prima. Allora era ancora giovane. Chissà che si aspettava. Si aspettava di meglio il babbeo, ve lo dico io. Ma il meglio è sempre ciò che un tempo credevamo fosse peggio. È così che va. È così che deve andare.
Neppure Ulisse saprebbe tenere testa a questo mare. Verrebbe trascinato giù, inghiottito, fagocitato, trangugiato dalla rabbiosa acqua bianconera.
Questa notte i pescatori resteranno a terra. Il mare si limiteranno a guardarlo dalle banchine del porto, con amarezza, forse. E forse con quella sottile vena di soddisfazione che si prova quando, causa un evento inatteso, non si lavora, e ci si ritrova tra le mani impreviste ore di tempo libero. Avessi mai conosciuto un pescatore nettunese; tutti meridionali, magrebini da un ventennio. Strani i nettunesi, sulla costa eppure contadini, contadini eppure adoranti una Madonna venuta dal mare, adagiata sul dorso di una balena. Ad Anzio è diverso, ad Anzio qualche pescatore indigeno lo si trova. Faccenda curiosa, da sottoporre all’attenzione di un antropologo che non ha niente di meglio da fare.
Carlo pensa al suo compromesso storico, rimugina, ben consapevole che un compromesso è sempre sintomo di viltà. Berlinguer ha avuto paura, per questo il vero comunista, quello a sinistra del partito comunista cinese, lo reputa il peggiore segretario generale della storia del PCI. Carlo si è lasciato schiacciare dal peso dei legami, ha scelto la sopravvivenza ovvero la morte lenta, legata all’altrui morte. Eppure basterebbe poco questa notte. Basterebbe scendere le scale consumate, insabbiate del Belvedere e lasciarsi travolgere dalle onde. No, queste onde non risparmierebbero neppure Ulisse.
Andare, restare, andare, restare… era così ogni sacrosanto giorno. Carlo se l’è giocata a dadi con il diavolo, ed è difficile dire chi dei due abbia perso. Probabilmente entrambi.
– Che ce l’hai una sigaretta? – e subito dopo allarmanti colpi di tosse.
Carlo è talmente perduto in se stesso da non essersi accorto dell’arrivo del vecchio Lazzaro.
Due cani randagi si incontrano nella notte, si scrutano, si annusano. Entrambi maschi, peccato. Ma tra maschi ci si può scambiare favori.
– Tieni, – e Carlo pone al compagno di notturni vagabondaggi la sigaretta. Ne prende una anche per sé.
Avvolto in una coperta consunta, qua e là bucherellata, macchiata, sfilacciata alle estremità e che puzza davvero di cane, ma di cane morto, i capelli grigi scompigliati, unti, della consistenza della canapa idraulica, Lazzaro afferra la sigaretta e se la ficca tra le labbra esangui.
– Che ce l’hai l’accendino? – risuona di nuovo la voce rauca, cavernosa, sepolcrale di Lazzaro.
Carlo gli fornisce pure l’accendino, poi anche lui si accende la sigaretta, l’ennesima della giornata. Se Carlo non fuma è perché dorme.
Ed eccoli qui i due cani randagi, vicini, a fumare insieme, i gomiti puntati sul parapetto di marmo imbrattato, sfregiato del Belvedere, osservando il mare, che si agita scomposto come se volesse divorarli entrambi, ma senza riuscirci. L’impossibilità è il primo nutrimento del desiderio, e dopo averlo alimentato lo incattivisce.
Una boccata di fumo e un colpo di tosse Lazzaro, volto del colore e della consistenza della creta, corpo forgiato dagli elementi. Una boccata di fumo e nient’altro Carlo Ottaviani, volto del colore e della consistenza della cenere, corpo da mussulmano. Se partecipasse a una selezione non avrebbe scampo. La vita è un olocausto.
– Il vento porta via le nuvole come il cancro ha portato via mia moglie, – sentenzia Lazzaro dopo una rapida occhiataccia al cielo nero.
Con queste parole fai arrossire tutti i presunti poetastri e scribacchini del nostro tempo, me compreso, vecchio mio. Parole che colpiscono e fanno male come un cazzotto. Me le ripeto cento volte per imprimerle nella memoria.
Vent’anni fa, quando Carlo era solo un bambino, felice peraltro, dopo la morte improvvisa della moglie, divelta da questa valle di lacrime – Salve, o Regina, Madre di misericordia, vita, dolcezza, speranza nostra salve… – da un cancro fulminante nel giro di poche settimane, Giulio Bernardini, professore di storia dell’arte, si era buttato sulla religione, in cerca di conforto. Vi si era gettato a capofitto, nel disperato tentativo di colmare il vuoto e soffocare il dolore. Trovò invece la follia. Abbandonò tutto, il lavoro, la casa, quel che restava della famiglia, e si mise sulla strada, credendosi, chissà per quale razza di ragione misteriosa, quel celebre Lazzaro resuscitato da Cristo.
– Nessuna mi ha interpellato… – mormora a denti stretti, dopo un paio di minuti di silenzio, Lazzaro. È il vento a fumargli la sigaretta, che tiene stretta tra le labbra, in mezzo a quella faccia cretosa crivellata di rughe una ferita mai rimarginata.
– Nessuno mi ha mai domandato se lo volessi oppure no… – sussurra ancora.
Carlo sa che si riferisce alla faccenda della resurrezione. Batte sempre sullo stesso chiodo. Chiodo scaccia chiodo ma quattro chiodi fanno una croce. Ne bastano meno, Cesare.
– E tu lo volevi oppure no? – gli domanda Carlo ma senza guardarlo, continuando a fissare il mare furibondo e sbraitante.
– Cosa? – fa Lazzaro in tono astioso, minaccioso, lanciando uno sguardo sorpreso al suo sottile interlocutore, come se si accorga solo adesso della sua presenza.
Il vento mi scaraventa dritto in faccia un’insopportabile puzza di carogna. Trattengo il respiro. Vorrei sputare. Che il mondo intero sia in putrefazione?
– Risorgere, dico, – puntualizza Carlo, imbarazzato dallo sguardo allucinato del vedovo cane randagio.
Torna a guardare il mare, vecchio mio, fammi questo favore. I tuoi occhi fondi mi mettono a disagio.
– No che non volevo, – risponde Lazzaro con un grido strozzato.
– L’ho sempre creduto, – replica Carlo con tutta la serietà di questo mondo. Perché se Lazzaro si crede Lazzaro allora è Lazzaro. Chi siamo noi per giudicare?
– Davvero?
– Mica ti prendo in giro, – lo rassicura Carlo.
– Io credevo che l’avesse capito solo Caravaggio.
– Non te la prendere, Cristo l’ha fatto per amicizia.
– L’amicizia… puah! Gli amici sono pur sempre uomini quindi esemplari della peggiore razza su questa terra. Comunque Cristo non l’ha fatto per amicizia ma per mettersi in mostra, – spiega Lazzaro. La ragione illumina a intermittenza, come i lampi la massa compatta di nuvole gravide di pioggia all’orizzonte, quel poco che resta nella testa semicalva del vedovo cane randagio.
– E la croce? Anche sulla croce c’è salito per mettersi in mostra? – lo provoca Carlo, ferito nell’orgoglio. Anni e anni chino sui libri per cosa, se democratica a tal punto è la sapienza?
Puzzi di cane morto e fai il filosofo. Non sta bene, vecchio mio. Ma hai le tue ragioni e, in fin dei conti, le rispetto.
– Ma tu… tu sei Lui, eh? Sei tornato? – chiede Lazzaro con un tono di voce oscillante come un pendolo, o come un grattacielo giapponese durante una scossa di terremoto, tra la speranza e il terrore.
– No, non sono abbastanza bello. E poi, se fossi Lui, starei pianificando un attentato al Vaticano. Bombe lungo tutte le mura.
– E poi boom! – grida Lazzaro con feroce entusiasmo, esplodendo subito dopo in una risata violenta, convulsa, sguaiata, che lo spezza in due, vecchio tronco rugoso bruciato dal sole e piegato dal vento. Risate che sovrastano persino l’ininterrotto bestemmiare delle onde. Durano un minuto buono.
Dopo aver finito di ridere, di nuovo homo erectus, Lazzaro getta via il mozzicone della sigaretta e ne chiede a Carlo un’altra. Carlo gliela dà. Lazzaro lo ringrazia con un’amichevole pacca sulla spalla.
– Vuoi accenderla? – si informa Carlo, premuroso. In lui le arrabbiature hanno vita breve.
– No, – risponde Lazzaro, recisamente. Il suo volto, pochi istanti fa sfigurato dal riso, è tornato austero.
E Lazzaro sen va, scendendo le scale consumate, insabbiate del Belvedere, diretto verso il mare. Carlo lo osserva svanire nel buio, ascolta il fruscio della mefitica coperta di Lazzaro strusciante per terra, poi torna alla macchina.
Abita oltre il bosco di Foglino, questa estate lambito dalle fiamme ma salvo, il neolaureato in Filologia moderna Carlo Ottaviani, matricola 1275573.
D’accordo Carlo, tutto bello. 110 e lode e il bacio accademico e la commozione dei genitori e degli amici e i complimenti dei professori. Tutto bello, davvero. Ma adesso? Rabdomanzia?
Scricchiolano i passi di Carlo in avvicinamento al portone blindato di casa sul viale di breccia. Tintinna il mazzo di chiavi, mai dimenticato. Lei lo aspetta, accoccolata sul tappeto d’ingresso, l’afona gatta biancogrigiotigrata, formidabile cacciatrice d’uccelli, che divora intieri in un sol boccone. Scatta in piedi e si precipita verso Carlo, ritta la coda, strusciandoglisi sulle gambe, spargendo peli sui blue jeans. Carlo in ginocchio le accarezza la testa, il collo. Lei gode.
Sei l’unica che sia mai riuscito a far godere. Anzi no, ce n’è stata un’altra, la prima, Marta.
– Buonanotte, Diana, a domani, – la saluta Carlo.
Tre giri e lo scatto della serratura. Sono tutti a casa. Tutti dormono. Il padre russa e rimbombano fragorosi i suoi ronfi nel silenzio della notte. Carlo chiude il portone, inserisce l’allarme – tre punture dolorose ai timpani -, si sfila la giacca, la appende, beve un paio di bicchieri d’acqua, spegne la luce della cucina e, guidato dalla luce del cellulare, attraversa il corridoio, raggiungendo il bagno, dove si slaccia e sfila le scarpe, piscia ma non scarica per non fare rumore, si lava le mani evitando lo specchio. In camera si sveste e indossa il pigiama, quindi si corica, il lenzuolo tirato fin sopra la testa. L’ultimo momento benedetto, l’oblio finalmente fino all’ennesimo canto del gallo silvestre. Amen.

«È stato ritrovato questa mattina sulla spiaggia dei Marinaretti il corpo senza vita di Giulio Bernardini, ex professore di storia dell’arte, noto a tutti come Lazzaro. A trovare il cadavere, alle prime luci dell’alba, è stato un anziano abitante della zona impegnato nella quotidiana passeggiata mattutina, che ha subito avvertito le autorità. Di Giulio Bernardini si erano perse le tracce da tre giorni.
Il cadavere verrà sottoposto all’autopsia, secondo la prassi, ma non ci sono dubbi sul fatto che la causa del decesso sia l’annegamento. È molto probabile, se non addirittura certo, che la vittima si sia avvicinata troppo all’acqua e sia stata travolta dalle onde, senza riuscire a mettersi in salvo visto il mare grosso per il maltempo di questi ultimi giorni. Una tragica fatalità, dunque.
In questi vent’anni Giulio Bernardini, alias Lazzaro, era diventato un vero e proprio simbolo della città di Nettuno, soggetto privilegiato degli artisti locali, che lo hanno immortalato in numerosi dipinti e fotografie, caro a tutti i nettunesi, che si stringono in un unico, commosso e al tempo stesso caloroso abbraccio attorno all’addolorata famiglia».
Finalmente Lazzaro ce l’ha fatta, questa volta è morto davvero. Beato lui.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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