Il mio dramma personale, individuale nasce, come quello di Michelstaedter, dal violento, sanguinoso conflitto tra me e il mondo, tra la mia feroce coerenza, la mia volontà di vivere come io voglio, e la pressione uniformatrice, omologatrice del mondo. Io esigo una perfetta corrispondenza tra pensiero e vita, mentre la vita comunemente intesa, come la vorrebbero per me i miei genitori, contraddice sistematicamente il mio pensiero. Ripeto: finora ho resistito, ma per quanto tempo ancora riuscirò a resistere? È l’incapacità di accettare compromessi, di cedere alla vita comunemente intesa, di uniformarmi, di omologarmi a condurmi al suicidio. Io non voglio tradirmi, io non voglio tradire le mie idee, le mie attitudini. Io voglio restare fedele a me stesso, al mio pensiero, alle mie mancanze, alle mie devastazioni. A una sopravvivenza ipocrita e sbiadita preferisco senza dubbio la morte, anche se non è questa la mia esigenza primaria, la mia necessità. Ogni uomo nella sua vita è chiamato a sacrificare qualcosa – io probabilmente dovrò sacrificare me stesso.
È una questione semplicissima e limpida, ma che nessuno intorno a me è capace di comprendere, e questa incomprensione mi scava attorno una solitudine, un vuoto immensi.
A me non interessa nulla di avere un impiego, di avere una casa, una macchina, una moglie, dei figli, di andare in vacanza ecc. A me interessa soltanto leggere e scrivere, meditare, essere coerente con le mie idee e restare incolpevole anzitutto davanti a me stesso. Perché dovrei rinnegarmi e prostituirmi se nulla di ciò che si ottiene rinnegandosi e prostituendosi mi riguarda?
Sono forse le parole di un uomo viziato? Possibile, ma io non devo rendere conto a nessuno all’infuori di me stesso.
Soltanto Lei è stata capace di comprendere tutto questo, sin dalla sua prima lettera. Ma anche Lei, in fondo, non è che una Carlotta, e come una Carlotta, svanita l’illusione, è tornata alla sua vita, come se niente fosse.