È avvilente, e umiliante, dover sempre pagare per poter passare del tempo in compagnia d’una donna e regalarsi un’illusione, almeno un’illusione, di felicità; dà l’esatta, matematica misura della propria meschinità, della propria miseria, della propria inadeguatezza. Ma la consapevolezza di ciò, e l’avvilimento, e l’umiliazione non bastano quando il peso della solitudine diviene insostenibile e la compagnia una necessità impellente, bruciante, da appagare a tutti i costi, almeno per mezz’ora. E se non sarà questa notte, sarà la successiva, avvelenata sempre dalla certezza di non poter interrompere, di non poter spezzare questa squallida e dolorosa catena se non con la morte.
C’è qualcosa di consolante in questo incubo senza fine? Forse il fatto che sia io, sia le povere sciagurate costrette a vendere il proprio corpo per sopravvivere, siamo creature disperate. C’è sempre un’alternativa, ma, senza amore, è rappresentata da una forza di volontà da padre del deserto che non mi appartiene e forse non mi apparterrà mai. Sono come il padre Sergij di Tolstoj: vorrei, ma la tentazione è troppo forte, e anche nel mio caso farsi saltare un dito della mano con un colpo d’accetta non servirebbe a niente. Sarebbe soltanto un inutile palliativo.