Di tanto in tanto dei ricordi lontani, dimenticati riaffiorano di colpo dal cimitero della mia memoria e mi riconducono a una vita che fatico ogni giorno di più a riconoscere come mia.
Chiunque ci avesse visti, me e Annamaria, quel pomeriggio di primavera, a Villa Borghese, davanti alla statua di Puškin, oramai cinque anni fa, avrebbe pensato: “Quei due si amano”. Stretti l’uno all’altra, non smettevamo di scambiarci effusioni, di baciarci.
In realtà non amavo Annamaria, e lei non amava me. Eppure, la prima volta che la baciai, nei corridoio della facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, durante l’intervallo di una lezione della Frabotta su Giorgio Caproni, provai un entusiasmo profondo e incontenibile, forse mai provato prima. Quel bacio voluto, desiderato, conquistato con convinzione, determinazione e ardore, rappresentava la fine di un sortilegio, di un maleficio. Lottai con tutto me stesso per quel bacio e per quel pomeriggio primaverile a Villa Borghese, davanti alla statua di Puškin.
Non ne seguirono altri. Il mio entusiasmo svanì presto e presto lasciai andare via Annamaria, che non mi chiese di restare. Non mi piaceva la sua leggerezza, la sua frivolezza, l’attenzione eccessiva dedicata alla cura del proprio aspetto.
Delle donne che hanno assecondato e ricambiato il mio interesse, che non hanno rifiutato i miei baci e anzi li hanno desiderati, mi sono sempre stancato presto: ciò che di loro non mi piaceva finiva per prendere il sopravvento su tutto il resto, costringendomi ad allontanarmi. È l’impossibilità il principale alimento del mio amore. Sì, io amo soltanto ciò che è impossibile. Del possibile non ho mai saputo accontentarmi.
Che sia anzitutto io stesso il mio demone più terribile, il demone dell’impossibilità, del tu non puoi, del a te non è concesso? Se fosse così sarebbe spaventoso…