Ci sono momenti, giorni in cui perdo il filo, in cui la trama del linguaggio, e con essa quella della riflessione, si sfilaccia. Le parole divengono suoni vuoti e insensati, meri significanti privi di significato. Allora devo strapparmi con violenza dalla pagina per non impazzire. Tentare di scrivere durante queste crisi sarebbe come tentare di abbattere un muro con calci e pugni – ci si fa del male e basta. È come se all’improvviso, e senza una ragione, si sgretolasse quell’equilibrio spirituale che ogni sacrosanto giorno, con mia grande fatica, tento di costruire per non sprofondare nel nulla. Perché un conto è vivere il nulla, vederlo ovunque attorno a sé, dentro di sé, percepirlo sulla propria pelle, un conto è precipitarvi. In quest’ultimo caso non c’è possibilità di resistenza, ma solamente la follia o la morte.
In questi momenti un effetto benefico è dato dal lavoro fisico, dalla fatica e dalla stanchezza materiale che ne consegue, la quale svuota la mente e agisce come una sorta di anestetico. Soltanto dopo aver ritrovato la lucidità mentale, le certezze linguistiche e l’equilibrio spirituale posso tornare a scrivere.