L’escluso – meno 12

Sì, ieri sera sono uscito e uscire dopo una settimana passata in camera a leggere, leggere, leggere, a divorare un libro dopo l’altro come se non ci fosse un domani, è stato come tornare a respirare. Sì, è stato come uscire dall’apnea e tornare a respirare.
Ho rivisto l’uomo che mi ha soccorso. Non era in bicicletta ma a piedi. Entrava in ogni ristorante proponendo a tutti i tavoli con almeno una presenza femminile la sua merce: rose. Da ragazzo feci uno scherzo crudele a uno di questi venditori di rose che s’incontrano a decine nel nostro paese. Mi avvicinai a lui, mentre i miei amici già sghignazzavano a qualche metro di distanza, e gli scaricai sul palmo della mano un mucchio di monete tintinnanti, sorridendo come un filantropo consumato soddisfatto della sua buona azione ed esortandolo a comprarsi una sciarpa nuova. I suoi occhi brillarono di gratitudine e mi consegnò le ultime cinque rose che gli erano rimaste. Io lì per lì le rifiutai, poi le presi. Faceva parte del piano. Ci trovavamo sulla banchina del porto di Anzio e dopo qualche passo gettai i fiori in acqua. Al disgraziato avevo rifilato un mucchio di sterline. Quando se ne accorse eravamo già lontani. Lo vidi che provava a recuperare le rose sparse in mare, sporgendosi sulla banchina. Perse l’equilibrio e cadde in acqua. Iniziò a dimenarsi e a gridare aiuto. I miei amici si scompisciarono dalle risate, spezzati in due, le mani poggiate sulle ginocchia piegate. Io invece fui aggredito subito dal rimorso e affondai i denti nel labbro fino a farlo sanguinare. Avrei voluto persino aiutarlo, ma non volevo rendermi ridicolo agli occhi dei miei amici. Un paio di pescatori lo aiutarono a tornare sulla banchina.
Anche ieri sera mi sono avvicinato al venditore di rose ma con tutt’altre intenzioni. Mi ha riconosciuto subito e mi ha chiesto come stavo.
– Sto meglio, grazie. Non è stato niente di grave. Come vanno gli affari stasera?
– Male, – mi ha risposto avvilito e quasi vergognoso, scaraventando lo sguardo triste sull’asfalto.
– Quanto vuoi per tutte le rose?
– Tutte?
– Sì, tutte.
Lui allora ha guardato il mazzo, ha contato le rose e ha fatto il prezzo, ma senza troppa convinzione, proponendo più che imponendo.
– Dieci euro? – domanda titubante.
– Quante sono?
Le conta di nuovo.
– Venti, – risponde.
– Cinquanta centesimi a rosa è troppo poco, che ci guadagni? Tieni, venti euro, e puoi tenerti il mazzo. Per ringraziarti dell’aiuto che mi hai dato l’altra sera.
– No no no no no, – si è schermito lui, aggiungendo che accettava i soldi ma solo in cambio di tutte le rose.
– Regala a tua ragazza, – ha tentato di convincermi.
– Non ce l’ho la ragazza, – rispondo.
– Allora regala a tua mamma, – ha insistito.
Così sono stato costretto a prendermi tutto il mazzo. Il venditore terminava così il suo turno di lavoro e io credo che abbia insistito tanto per cedermi tutte le sue rose proprio per farla finita in anticipo con tutti quei rifiuti umilianti che altrimenti avrebbe dovuto subirsi per altre due ore. Ho visto il suo volto rilassarsi, distendersi. Si è accomodato su una panchina e io accanto a lui. Gli domando come si chiama.
– Yasir.
– Io Fausto, piacere.
Ci stringiamo la mano.
– Fausto era il nome di mio padre.
– Anche papà di mio papà si chiamava Yasir. Vuol dire essere ricco.
Non ho potuto non sorridere scoprendo il significato del suo nome. Nomen omen.
– Da dove vieni, Yasir?
– Pakistan. Perché altra sera ti hanno menato?
– Non lo so.
– No? – domanda stupito Yasir, abbandonato sulla panchina con le gambe distese e le mani intrecciate sul grembo.
– A volte non c’è un motivo. A volte le cose succedono e basta. Loro stessi hanno tentato di giustificare la loro violenza insensata rubandomi il telefono e i soldi, ma non mi hanno aggredito per rubarmi il telefono e i soldi. Lo hanno fatto dopo, per giustificare innanzitutto a loro stessi l’aggressione.
Yasir non dice nulla, ma sul suo volto si forma un punto interrogativo al quale decido di non rispondere.
– Non è un bel posto qui, ci sono tanti matti, – dice dopo qualche minuto di silenzio, vedendo che non avevo nessuna intenzione di chiarire le mie misteriose parole.
– Già, e sarebbe pure bello se non ci fossero tutti questi matti, come li hai definiti tu, ma facendo un torto ai veri matti. Questi sono bestie, non matti.
– Bestie… – ripete Yasir come se voglia imprimersi nella memoria la parola e sostituirla con quella detta in precedenza. Parlava italiano per frasi prefabbricate, che teneva nella testa già pronte. Grazie al mio suggerimento la prossima volta non avrebbe detto più «Non è un bel posto qui. Ci sono tanti matti», ma «Non è un bel posto qui. Ci sono tante bestie».
– Vuoi fumare? – domando tirando fuori dalla tasca laterale del giubbotto il pacco di tabacco, i filtri e le cartine. Yasir scuote la testa. Gli chiedo se ha famiglia.
– Sì, moglie e figli.
– Quanti?
– Tre.
– Vanno a scuola?
– No.
– È importante che vadano a scuola, Yasir.
– Sì.
– Da quanto tempo sei in Italia?
– Due anni.
– E chissà che ti aspettavi… Migliaia di chilometri sulle spalle per trovare altra miseria.
– Non è un bel posto qui, – ripete ancora una volta Yasir e comprendo che in quella frase prefabbricata sta tutta la sua persona, tutta la sua storia e tutta la protesta della sua persona per la sua storia.
– Non vorrei scoraggiarti, ma ti dico una cosa. È il mondo intero a non essere un bel posto. Potrebbe esserlo, ma noi uomini facciamo di tutto perché non lo sia.
– Tu a scuola sei andato, – mi dice Yasir guardandomi negli occhi per la prima volta da quando ci siamo seduti.
– Sì, ma andare a scuola troppi anni e studiare troppo fa male. A piccole dosi, come tutto, va bene. Io invece per una vita non ho fatto altro che studiare. Oltre a vendere le rose come ti guadagni da vivere?
– Bra… – risponde Yasir ma senza riuscire a completare la parola.
– Bracciante?
– Sì.
– Bracciante il giorno e venditore di rose la notte. È così che mandi avanti la baracca.
– Sì.
– Migliaia di chilometri sulle spalle per questo.
– Sì.
– Tranquillo, tra poco toccherà anche a noi. I deserti avanzano…
Mi giro una sigaretta, la fumo e in quei minuti nessuno di noi due dice niente. Entrambi fissiamo il vuoto spalancato davanti ai nostri occhi. Entrambi naufraghiamo silenziosi nelle nostre tragedie. Yasir mi fa una gran pena con quel suo giubbotto consumato, scolorito, rattoppato, di una taglia più grande. Ma anche il mio giubbotto è consumato, scolorito, rattoppato e di una taglia più grande. Non siamo molto diversi io e Yasir e forse per questo motivo una settimana fa si è fermato e mi ha aiutato. Forse mentre ero a terra sanguinante aveva notato il mio giubbotto così simile al suo.
Finisco la sigaretta, getto a terra quel poco che ne resta e mi accommiato da Yasir.
– Io vado, continuo il mio calvario. Vatti a fare una bella dormita.
– Sì.
– Ci si vede in giro.
– Sì. Attento però. Non è un bel posto qui. Ci sono tante… bestie, – dice Yasir sfoderando subito la nuova parola, che ha sostituito definitivamente la vecchia.
– Tranquillo, saprò difendermi. Se proprio sicuro di non volere le rose?
– No no no no no. Regala a tua mamma.
– E tu regala ai tuoi bambini la scuola. Forse è l’ultima cosa decente che questo maledetto paese possa offrire loro.
– Sì.
Così me ne vado come uno scemo, con un intero mazzo di rose in mano. Penso di buttarlo, ma poi decido di portarmelo dietro per tutto il tempo del calvario. Se al ritorno i fiori non saranno troppo appassiti e sfiniti li porterò a casa.
Ma ieri sera ho avuto anche un altro incontro e ben più piacevole dell’incontro con Yasir, con tutto il rispetto. Un incontro che desideravo fare da una settimana e che avevo immaginato decine e decine di volte rinchiuso tra le quattro pareti aggredite dalla muffa della mia camera.
Stavo tornando alla macchina quando di fronte all’hotel Astura vedo lo stronzetto che sette giorni fa mi ha spaccato la bottiglia in testa. È solo e procede in direzione opposta alla mia, dall’altra parte della strada. Non mi lascio scappare l’occasione.
Il cappuccio del giubbotto ce l’ho già calato sulla testa. Alzo lo scaldacollo fin sopra il naso ed è come se indossassi un passamontagna. Solamente gli occhi sono scoperti. Passo il mazzo di rose nella mano sinistra e con la destra impugno il coltello aperto. Mi lancio al suo inseguimento.
Il ragazzino imbocca una strada piuttosto buia, sulla destra, una strada priva di negozi dunque di telecamere. È il momento. Accelero il passo, sono leggero quindi silenzioso, lo raggiungo, lo affianco senza che lui si accorga di nulla. Stringo forte il coltello e ho la tentazione di scannarlo come un maiale, come aveva detto mio padre, di spalancargli la pancia e strappargli le budella, poi penso di procedere oltre senza fargli niente e queste sensazioni le provo tutte in un secondo. Nello stesso secondo la rabbia e il buonsenso s’incontrano a metà strada e lo trafiggo due volte nel culo. Due colpi secchi e decisi. Subito dopo avergli rifilato la seconda coltellata fuggo a gambe levate, la lama bagnata di sangue nella destra, il mazzo di rose nella sinistra. Sento lo stronzetto bestemmiare alla luna e gridare per il dolore. Lì per lì deve aver provato a inseguirmi, ma il calore del sangue sulla pelle deve averlo immobilizzato e terrorizzato dopo qualche passo.
Corro a perdifiato per parecchie centinaia di metri e faccio il giro lungo per tornare alla macchina. Mi getto sul sedile sfinito ed eccitato, il respiro spezzato. Non correvo così da anni e le gambe mi tremano e mi formicolano. Il cuore batte all’impazzata. Metto in moto e me ne vado a tutta velocità.
A casa ho ripulito il coltello con cura e ho messo le rose in un vaso dopo averlo riempito d’acqua. Erano sbattute, provate, come se avessero corso anche loro con me, ma mantenevano ancora una certa dignità regale. Mamma l’indomani sarebbe stata felice di trovarle sul tavolo della cucina e papà sarebbe stato fiero di me se gli avessi raccontato della mia vendetta.
Mi sono gettato sul letto soddisfatto di avergliela fatta pagare a quello stronzetto.

L'escluso ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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