Il disertore – IX-X

IX

Più ci rifletto e più sono convinto che la vita è più importante di qualunque territorio. Un territorio conquistato o difeso a scapito di migliaia di vite umane resterà per sempre macchiato di sangue, e dove scorre il sangue non attecchisce niente. So che a molti le mie parole risulteranno incomprensibili. Alcuni si indigneranno con me e mi definiranno traditore oltreché disertore. Posso solo dire che a me risultano incomprensibili le loro, di parole, e che secondo il mio punto di vista la vita viene prima di tutto. Come può essere una colpa, un tradimento schierarsi dalla parte della vita e dell’innocenza? Che il mondo sia governato da criminali, da lupi con la coscienza sporca di sangue non significa che tutti dobbiamo essere criminali e lupi. Io sono fuori dalla logica della violenza e della guerra, e penso anche di pagare, in questo momento, un prezzo piuttosto alto per le mie posizioni. Rimprovero a me stesso soltanto una cosa: di non essere stato abbastanza scaltro. Sto invecchiando…
Grazie a Ivan sono riuscito a spedire una lettera a Vera. Spero che le mie parole la rassicurino almeno un po’. Le ho rinnovato la mia promessa: ci rivedremo.
Vera non è originaria del mio villaggio. Si trasferì qui per prendersi cura di una vecchia zia, ormai cinque anni fa. Non dimenticherò mai il momento in cui la vidi per la prima volta. Era appena scesa dal treno e si dirigeva a casa della zia, mentre io andavo a scuola. Procedevamo in direzioni opposte e i nostri sguardi, senza volerlo, s’incontrarono. Vera mi sorrise ed io sorrisi a lei. Fu un attimo, perché continuammo a camminare per la nostra strada, ma la sua immagine s’impresse nella mia mente e non la lasciò più. L’avevo osservata soltanto per pochi secondi, ma di lei ricordavo ogni particolare. Mi sembrava di conoscerla, di averla già vista da qualche parte, ma non ricordavo dove né in quale circostanza. Forse era soltanto un’impressione.
Rividi Vera una settimana dopo il nostro primo incontro, alla festa del villaggio. Eravamo agli inizi di maggio, ma sembrava piena estate. Faceva caldo, troppo caldo e c’era odore di birra, di carne cotta alla brace e di erba appena tagliata nell’aria immobile. Sedevo a uno dei tanti tavoli ammassati nella piazzetta del villaggio, tutt’intorno alla grande giostra montata per l’occasione, in compagnia di alcuni dei miei alunni più grandi. Si beveva, si fumava, una sigaretta dietro l’altra, si rideva. C’era anche lo Scorbutico con noi: accigliato come sempre, giurava e spergiurava che quell’anno non avrebbe permesso neppure a una «cimice» di salire sul ciliegio e rubare i frutti. I ragazzi lo provocavano, io ridevo di gusto. Guardandomi attorno notai Vera, seduta accanto alla zia, in compagnia di qualche altra vecchietta. Era vestita di bianco. Il colore dell’abito esaltava i suoi lunghi capelli neri, sciolti e leggermente mossi. I nostri sguardi s’incontrarono di nuovo e di nuovo sorridemmo. Andò avanti per un’ora buona: sguardi e sorrisi continui. Quando Vera si alzò per andare a prendere da bere alla zia, mi alzai anch’io e la raggiunsi.
– Scusami, ma proprio non ce la faccio a non guardarti, è più forte di me, – dissi d’un fiato, arrossendo. Con le donne sono sempre stato timido, timido fino alla stupidità. Se tra di noi non ci fossero stati prima quegli sguardi e quei sorrisi, non avrei mai rivolto la parola a Vera, che, dopo avermi ascoltato, sospirò e abbassò gli occhi, imbarazzata. Neppure per me era facile. Avvicinarla e parlarle era stato come gettarmi nel vuoto. Avevo il cuore in gola e temevo di fare la figura del cretino. Ma quegli sguardi e quei sorrisi… Mai nessuna donna mi aveva rivolto tanti sguardi e tanti sorrisi.
Ci presentammo, e quando Vera mi disse il suo nome, un vecchio ricordo, sepolto da tempo nel cimitero della memoria, mi tornò in mente. Frequentavo il primo anno d’università, nella capitale. Terminate le lezioni, tornavo nella mia piccola e angusta soffitta. Il sole tramontava e iniziava a fare freddo. Camminavo velocemente per riscaldarmi. Incrociai una vecchia zingara che chiedeva l’elemosina.
– Per un tozzo di pane, bel giovane, vi prego, – si rivolse a me con un tono di voce lamentoso, cantilenante, tendendo il palmo della mano abbronzata e rugosa.
Le diedi qualche spicciolo, scusandomi di non poterle dare di più. C’era un autentico retaggio superstizioso, lo confesso, nella mia elemosina (mia madre dava sempre qualcosa alle vecchie zingare, per evitare che le lanciassero il malocchio, così diceva), ma non solo. Quella donna curva, piegata dal tempo, ricoperta di rughe profonde come solchi e di stracci, mi ispirava pietà e, chissà perché, simpatia, se non addirittura fiducia.
– Non devi scusarti, giovanotto, so bene che non disponi di grandi mezzi. Vieni qui, fatti vedere, – disse la zingara afferrandomi il viso con entrambe le mani e guardandomi dritto negli occhi. Le sue mani erano ruvide come carta vetrata e il suo sguardo penetrante.
– So che in una donna cerchi più di ogni altra cosa, più della bellezza, la sincerità. Tra qualche anno conoscerai una donna, la tua donna, diversa dalle altre, luminosa, intelligente, buona e, soprattutto, vera. Vi riconoscerete al primo sguardo, – disse la zingara pronunciando con una particolare enfasi le parole «tua» e «vera».
Quando Vera mi disse il suo nome, mi ricordai subito della profezia della vecchia zingara, che fino a quel momento avevo completamente dimenticato.
Incuriosito e confortato da quell’antico ricordo, chiesi a Vera di uscire con me.
– Va bene, maestro, ma a patto che tu mi permetta di cogliere un po’ di quelle meravigliose ciliegie che avete nel cortile della scuola.
– Affare fatto, anche se lo Scorbutico non ne sarà contento.
– Chi?
Raccontai a Vera la storia dello Scorbutico, glielo indicai tra la folla, tormentato dalle «cimici» che non gli davano tregua, e fu bellissimo sentirla ridere per la prima volta, di quella sua risata discreta, musicale e fresca che, da quella miracolosa notte, ha impreziosito tanti e tanti momenti della mia vita, e che sento riecheggiare anche adesso, se chiudo gli occhi, tra queste quattro mura.
Io e Vera uscimmo già la sera successiva e la portai subito a cogliere le ciliegie. La aiutai a salire sull’albero e ce ne restammo lassù dopo l’abbondante raccolta, seduti sui rami, come bambini. Era una notte meravigliosa: l’aria era cambiata, faceva meno caldo, c’era anzi una piacevolissima frescura e nel cielo terso, puntellato di stelle, dominava la luna, quasi piena. Raccontai a Vera di Nora, della profezia della zingara e di tutto il resto. Ci baciammo per la prima volta lassù, sul ciliegio.
– Ora so perché sono venuta in questo villaggio, – disse Vera dopo il nostro primo bacio, intrecciando le sue mani alle mie.
“Ecco perché non mi accorsi dell’amore di Nora,” pensai tornando a casa. “Non era lei, ma Vera”.
Un anno dopo, su quello stesso ciliegio, chiesi a Vera di sposarmi. Disse di sì.
Vera è… una fiamma vivente, che illumina senza accecare e riscalda senza bruciare.
Vera, amore mio, dove sei ora, che cosa fai, a cosa pensi, cosa sogni? Mi mancano la tua luce e il tuo calore. Mai, prima di conoscerti, avevo immaginato di poter amare come amo te, con ogni singola fibra del mio essere, fisica e spirituale. Sei dentro di me, Vera, mi scorri nel sangue e io ti sento, io ti vedo…
Io uscirò vivo da questa gabbia, amore mio, e noi due ci rivedremo. Io devo rivederti.

X

Ivan se n’è andato. Lo hanno spedito al fronte. Non ha avuto neppure il tempo di salutarmi. Mi ha fatto portare un paio di pagnotte di pane, una cassa d’acqua e qualche pacchetto di sigarette. Evidentemente teme che senza di lui qui al comando si dimentichino di me. Il soldato che mi ha portato la roba non mi ha degnato di uno sguardo. Ha lasciato pane, acqua e sigarette nella gabbia come se non ci fossi, come se riponesse delle scorte in un magazzino.
Sono partiti in molti dal comando provinciale, lo sento. C’è meno frastuono. Inizio a pensare che tra non molto mi lasceranno solo qui dentro. Cosa posso sperare? Che un missile distrugga queste quattro pareti senza uccidermi. Ecco a cosa sono ridotto.
Sempre sul ciliegio della scuola Vera mi comunicò di essere incinta, quattro mesi dopo il nostro matrimonio.
– Sento che è una bambina, – disse Vera e subito decidemmo di chiamarla come le nostre madri, Anna e Nina.
La gravidanza rese Vera ancor più dolce e mite. Una luce particolare le illuminava il volto sempre sorridente. Una luce che si riversava su tutto ciò che la circondava, me compreso. Passava ore e ore ad accarezzarsi il ventre. Non eravamo mai stati così felici come in quel momento. In fondo, non c’è niente di più semplice e naturale della procreazione, ma per un uomo e una donna che si amano, si amano davvero e insieme formano una cosa sola, indissolubile, mettere al mondo una nuova vita è qualcosa di particolare e indescrivibile. È come se quella creatura rappresentasse il suggello definitivo dell’amore, concreto e tangibile. Non sono capace di spiegarmi meglio e temo di scrivere delle banalità, ma chi ama sa cosa voglio dire.
Con l’approssimarsi del parto, alla felicità iniziò a subentrare l’angoscia. Avevo paura come se dovessi partorire io. Paura delle sofferenze che avrebbe provato Vera. Ma Vera non se ne curava, era molto più forte e coraggiosa di me.
– Come fai a essere così tranquilla? – le domandai una volta, mentre la osservavo accarezzarsi il pancione e mi torturavo le mani per la preoccupazione.
Vera non disse nulla. Mi guardò soltanto con un sorriso così luminoso che fu come se avessi piantato gli occhi nel sole.
– Ecco perché provo un’angoscia così forte e profonda, mai provata prima: sono angosciato per me e per te, – dissi dopo essermi ripreso da quel sorriso abbacinante.
Fu un parto lungo e faticoso. Camminai per ore e ore, fumando una sigaretta dopo l’altra, sentendo soltanto i lamenti di Vera, riuscendo a pensare soltanto alle sue sofferenze. Non c’era nient’altro nella mia testa. Camminare era l’unico modo che avevo per diminuire l’angoscia, per alleviarla e tenerla sotto controllo. C’erano momenti in cui mi sembrava d’impazzire, momenti in cui non riuscivo più a distinguere tra fantasia e realtà. Mi domandavo se quell’attesa fosse reale oppure se si trattasse di un incubo. Quando poi alle mie orecchie giunse finalmente il grido di Annina, quelle interminabili ore d’attesa e d’angoscia svanirono di colpo, e fu come se non ci fossero mai state.
– Hai sofferto molto? – domandai a Vera, mentre teneva in braccio Annina, esausta ma felice.
– Che importa? Annina ora è qui. Tienila anche tu, – rispose Vera porgendomi Annina. Dormiva e sembrava serena.
– È bellissima, come te, amore mio, – sussurrai con un filo di voce, stringendo Annina tra le mie braccia, perdendomi in lei. L’emozione mi soffocava e respiravo piano. Inoltre avevo paura di farle male e di svegliarla, turbando la sua serenità.
– Sì, ma ha i tuoi occhi. Quegli occhi profondi e penetranti che mi hanno catturata al primo istante in cui li ho incontrati. Spero che Annina, da grande, veda ciò che vedi tu, veda il mondo e la vita come li vedi tu, – disse Vera.
Un neonato riconosce subito la madre, è una questione di odore, di calore. Con il padre è diverso, ci vuole più tempo. Annina mi riconobbe tre mesi dopo la sua nascita e fu il momento più incredibile della mia vita. Rientrato a casa dopo la scuola mi avvicinai alla culla, come facevo sempre, mi chinai su di lei e le baciai la fronte. Allora Annina, che dormiva, si svegliò e, dopo essersi stiracchiata, mi guardò dritto negli occhi e mi sorrise. Non lo aveva mai fatto prima.
– Ti ha riconosciuto, ora sa chi sei, – disse Vera sorridendo a sua volta.
Avrei voluto dire qualcosa, esprimere tutta la mia gioia, ma non ci riuscii. Un improvviso nodo alla gola mi impedì di parlare. Abbracciai Vera e non so dire se piansi o se risi. Forse entrambe le cose. Quel sorriso di Annina mi aveva toccato il cuore… e le parole di Vera… beh, le parole di Vera avevano fatto il resto.
– Dio quanto vi amo… è impossibile dirlo, – sussurrai all’orecchio di Vera, che stringevo forte, come se temessi di cadere.
In quel momento, il più bello della mia vita, compresi che non c’è niente di più grande, importante e prezioso dell’amore. Senza l’amore la vita è nuda esistenza, inutile, fine a se stessa. E forse l’amore non cambia la sostanza delle cose, d’accordo, non sovverte la spietata, sanguinante matematica che regola le nostre esistenze, non ci libera dalle sofferenze e dalla morte, ma impreziosisce e consola. Forse non rende la vita meno insensata, meno assurda, ma certamente la rende degna di essere vissuta. Senza amore la vita è quello che è, soltanto quello che è, e compiango gli uomini ai quali il destino non concede neppure il conforto dell’amore. L’amore rende la vita meno dolorosa, meno pesante e regala ricordi ai quali aggrapparsi nei momenti più difficili, aiutando a superarli. Ricordi che brillano come luci e indicano la via nelle notti più buie, che ardono come fuochi e riscaldano nelle notti più gelide. Che cosa sarei io senza questi ricordi? Come sarebbe la mia prigionia senza di essi? Pura disperazione, e nient’altro. Ma forse senza di essi non sarei neppure qui. Senza di essi non avrei tentato di fuggire e il mio corpo giacerebbe senza vita su un campo di battaglia. È grazie a questi ricordi che posso nutrire ancora una speranza… e ad essi mi aggrappo con tutte le forze, resistendo alla disperazione che, dal fondo dell’abisso, tenta di ghermirmi e di trascinarmi giù, nel nulla. Ma non mi avrà. Niente e nessuno mi avrà. L’amore mi ha reso libero, nella vita e nella morte. Non esistono leggi, non esistono gabbie che possano imprigionare un uomo come me, con dei ricordi come i miei. Il corpo è intrappolato, rinchiuso in pochi metri quadrati e condannato all’inattività, all’immobilismo, ma la mente e il cuore volano via liberi.
Vera, Annina, sono con voi anche adesso. Neppure per un istante vi ho abbandonato. Fin quando sarò vivo, il mio cuore batterà all’unisono con voi, e anche dopo, quando non sarò più, quando di me resterà soltanto polvere, io continuerò a vivere in voi, nella vostra memoria e nel vostro cuore.
Non mi sono mai sentito così vivo e forte come in questo momento.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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