Soffrire per il semplice fatto di essere, di esistere: è questa la sola cosa che mi resta, l’ultimo anello che mi lega alla vita.
Non immaginavo che la mia vita si potesse spezzare in due, come è accaduto ormai sette mesi fa (quel 6 giugno 2021, giorno della mia prima, vera morte spirituale, ho perduto la fede in tutto), perché credevo di trovarmi già nella condizione in cui mi trovo ora. Un errore madornale, imperdonabile. Ora non ho davvero più niente dentro di me, ora non ho davvero più nessuno intorno a me. Sono vuoto e solo. Se prima vivevo, divenivo, ora permango in un vuoto e in una solitudine che hanno assunto forme definitive, irreversibili e una consistenza fisica, tangibile.
Una sola cosa ancora mi amareggia: non poter dire a mia madre che l’unica alternativa possibile a questa condizione di immobilismo e isolamento è la morte. Se lo facessi naturalmente non mi comprenderebbe, come nessun altro del resto.
In questo stato di distacco, in un certo senso di sospensione spettrale, della mia vita precedente mi giungono di tanto in tanto degli echi, suoni vaghi, confusi di nomi, brandelli dissonanti di ricordi avvolti nella caligine e nulla di più. Immagino sia questa la condizione dell’agonizzante un istante, appena un istante prima di esalare l’ultimo respiro, staccato dalla vita e proiettato verso il nulla. Resisto perché il mio ultimo respiro sia di sollievo.
