I taccuini di Tarrou – 220

Soltanto i mediocri, gli sfumati, i grigi hanno la capacità di non farsi del male. Gli estremi, i radicali finiscono sempre per infliggersi ferite profonde, impossibili da rimarginare, con le loro stesse mani. Incapaci di vivere con distacco, ovvero di sopravvivere, in ogni singola circostanza, anche la più insignificante, s’immergono anima e corpo, facendone una questione di vita o di morte. In loro ogni sensazione ha il peso di un fatto, ogni azione la portata di un fenomeno capitale. In ogni rapporto, in ogni attività gli estremi si giocano la testa, e finiscono sempre per rimettercela. In ogni azione mettono l’ardore della missione, in ogni amore il furore della fede e della resurrezione. Assai di rado il loro impegno viene ripagato, il loro amore corrisposto; quasi sempre, al contrario, si ritrovano sconfitti e soli, lo spirito segnato dall’ennesima ferita mortale. Eppure, nonostante i continui fallimenti, nonostante l’incapacità di sconfiggere il loro demone più terribile, il demone dell’impossibilità, gli estremi non demordono, fino al colpo finale che li schianta per sempre.

Io credo di aver già ricevuto quest’ultimo colpo, e l’impossibilità di compiere il passo successivo, definitivo, il tuffo nel nulla che mi libererebbe finalmente dalla vita, dunque dal dolore, mi tortura. Le evasioni temporanee sono sempre più rare, e anche in esse trovo motivo di dolore, come mostra il caso di Cristina. Al contrario di quanto sostiene Zarathustra nel monito rivolto alla propria ombra – sono io l’ombra – non troverò mai serenità e pace nella mia prigione. Al massimo una mesta rassegnazione. Spero.

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