Gli sconfitti – Il freddo

La stazione

Marco osservava attentamente i binari vuoti. Pensava. Pensava a quel che un senzatetto teme di più: il freddo. L’autunno era stato clemente, in qualche giornale abbandonato aveva letto che si era trattato dell’autunno più caldo degli ultimi due secoli. E forse proprio per questo motivo l’inverno imminente si annunciava spaventosamente gelido. Già la notte appena trascorsa era stata difficile, impegnativa, e per la stazione circolava l’inquietante voce che uno di loro avesse perso la vita.
Marco era un senzatetto per scelta da più di dieci anni, e quanti poveri compagni aveva visto perire, tirare le quoia a causa del freddo, questo acerrimo nemico! Ne aveva visti morire molti, troppi, come se fossero cani randagi e non uomini. Lui era sempre riuscito a cavarsela, in un modo o nell’altro. Sebbene fosse piccolo e magro, si contraddistingueva da tutti gli altri senzatetto per la straordinaria resistenza alle basse temperature, ma, nonostante questo, il freddo era ciò che, in assoluto, lo intimoriva di più. Anche più della sete e della fame. Anche se si convive con il freddo per anni e anni, non ci si abitua mai del tutto ad esso.
Marco, seduto con le gambe accavallate nel “cortile” della sua casa di cartoni, osservava i binari vuoti e pensava. In mano teneva una mezza sigaretta spenta, raccolta per terra. Aspettava che passasse qualcuno, un viaggiatore oppure un capotreno cui chiedere un accendino per poterla fumare.
“Avrei proprio bisogno di un’altra coperta. Quella che ho è troppo leggera”, si ripeteva tra sé. Ma le sue riflessioni furono interrotte dall’arrivo di un compagno.
«Buongiorno Luca», lo salutò Marco.
Luca era parecchi anni più giovane di Marco, in confronto era un ragazzo, e solamente da un paio di mesi, per necessità, era un senzatetto. Nei suoi occhi non c’era ancora spazio per quell’indolenza caratteristica dello sguardo del vecchio clochard rassegnato al proprio destino. Nei suoi giovani e irrequieti occhi c’era ancora un fulgente bagliore di ribellione e una sfumatura di alterigia. Se le cose per lui non fossero cambiate di lì a pochi mesi, ecco allora che anche il suo sguardo fiero si sarebbe spento come quello di tutti gli altri senzatetto.
«Sei stato fortunato questa mattina», disse Luca indicando con un cenno del capo il mozzicone di sigaretta di Marco.
«Hai da accendere?».
«Sì, ecco», e Luca trasse dalla tasca dei jeans consumati e sporchi un piccolo accendino trasparente, quasi completamente scarico.
«E allora tieni, fumatela».
Marco porse la sigaretta, o meglio, quel che restava della sigaretta, al giovane compagno, che la consumò con avidità in pochissimi secondi.
«Come è andata stanotte?», domandò Marco a Luca dopo che quest’ultimo ebbe terminato di fumare.
«Lasciamo perdere. Non ho chiuso occhio neppure per cinque minuti. Ho vagato tutto il tempo per la stazione tentando di riscaldarmi con il movimento, ma non c’è stato verso. Non mi sentivo più le punte delle dita dei piedi. Sono preoccupato, te lo confesso. Se soffro in questo modo i primi freddi, allora in inverno inoltrato come farò?».
«I primi freddi sono i peggiori. Ti prendono così, alla sprovvista, ti aggrediscono alle spalle e se non hai la giusta esperienza non sai come affrontarli, non sai come opporti e ti fregano».
«Dicono che già questa notte uno ci sia rimasto secco…».
«Lo so, l’ho sentito».
«Credi che apriranno la metropolitana?».
«Me lo auguro. Ma tu hai qualcosa per coprirti?».
«No… Purtroppo non ho ancora rimediato niente».
Marco trasse dalla sua dimora di carta una vecchia coperta, sottile e sbiadita, e la porse a Luca.
«Tieni. Non è molto pesante, ma è meglio di niente. Non smettere però di cercare altre coperte, più ne avrai e meglio sarà».
Il giovane senzatetto, sbalordito, provò a opporsi con tenacia alla generosità di Marco.
«No, no, non scherzare amico. Non potrei mai accettare la tua coperta. È come se tu mi offrissi la tua donna. Io… Io mi abituerò».
«Non fare stupidamente l’orgoglioso, mettiti bene in testa che non ci si abitua al freddo, mai, neppure dopo dieci anni di convivenza con esso. Prendi questa dannata coperta se non vuoi crepare questa notte. E non preoccuparti per me, ne ho un’altra».
«Grazie Marco, grazie. Io…».
«Non ringraziarmi giovanotto. Se non ci aiutassimo tra di noi a quest’ora saremmo tutti morti».
Luca se ne andò felice, e si mise subito alla ricerca di altre coperte. In testa aveva un unico pensiero: sdebitarsi al più presto con quel vecchio e generoso compagno.
Marco sprofondò di nuovo nei suoi pensieri. Ora non aveva più neppure una coperta, e dall’alto della sua decennale esperienza da senzatetto sapeva benissimo che non avrebbero aperto la metropolitana, non ancora, che lui e i suoi compagni li avrebbero lasciati in balia del gelo come cani randagi. Forse al calar del sole un altro clochard sarebbe morto, ma non Marco. Lui poteva contare sulla sua straordinaria resistenza.

Il bosco

Il freddo gelido del primo mattino penetrava gli abiti di Adele, pungendola fin nelle ossa robuste. Batteva i denti e si muoveva, accennando qualche goffo passo di danza, tentando così di riscaldare almeno un poco le sue membra rattrappite, avvizzite. In piedi sul ciglio di una strada poco trafficata, che tagliava il grande bosco di F., la giovane donna pensava con nostalgia e tristezza al proprio paese d’origine. Ricordava con piacere le alte temperature della lontanissima Nigeria – chissà quanti chilometri era distante da dove si trovava ora! – dalla quale era scappata per trovare fortuna. Aveva trovato invece la schiavitù, e tutto quello che si trascina dietro questa parola orribile, impossibile da estirpare definitivamente: violenza, miseria, fame, freddo, solitudine. Se avesse immaginato ciò che la attendeva nella ricca Italia, non avrebbe mai e poi mai lasciato il suo paese, la sua terra, i suoi affetti. Almeno lì avrebbe sofferto accanto alla madre e insieme ai suoi nove fratelli.
Adele non era che una ragazza, aveva appena vent’anni, eppure il suo formoso corpo d’ebano era già sciupato, ed il suo animo delicato già rassegnato. Da quattro anni si prostituiva sulla strada. Aveva iniziato che era ancora minorenne. Vendeva il proprio corpo per quindici miseri euro, che spesso diventavano dieci e talvolta anche cinque. Alla fine della giornata lavorativa, che durava dall’alba fino al calar del sole, elemosinava un passaggio, offrendo in cambio una prestazione sessuale ovviamente, e tornava dal suo spietato aguzzino. Non le spettava che il dieci percento dell’intero guadagno mensile, e quel poco denaro che riceveva, lo inviava alla sua famiglia in Nigeria. A lei non serviva nulla, ci pensava il suo viscido aguzzino a vestirla e nutrirla, poco e male. Come andasse e tornasse dal lavoro era affar suo, il grasso schiavista non ne voleva sapere nulla.
Nel bosco fa più freddo che altrove, questo aveva imparato Adele dalla sua dolorosa esperienza italiana. Poi aveva anche imparato che, pur di racimolare qualcosa, non doveva mai dire di no ai clienti e assecondare tutte le loro richieste, per quanto crudeli e disumane. Qualche giorno prima, ad esempio, un uomo, un italiano di mezza età, mentre la possedeva tra i cespugli e la sporcizia, su di un materasso lercio e rattoppato, e al tempo stesso la prendeva a schiaffi e la insultava con una ferocia assurda, gridandole ignominiosamente, dritto in faccia, «puttana! schiava!», le spense una sigaretta sul seno generoso. Adele non si mosse. Adele non disse nulla. Non solo non si oppose all’infame crudeltà, alla becera violenza, ma neppure fiatò. Fece solo una rapida smorfia, strizzando dolorosamente gli occhi e arricciando la bocca, a causa dell’improvviso, intenso e acuto dolore che l’aveva trafitta, come un chiodo conficcato in profondità nella carne nera. Il suo corpo da tempo non aveva più alcun valore. Non era che un cencio, e per di più consunto. Un cencio che però era ancora in grado di percepire il freddo del bosco e di tremare a causa di esso.

La strada

Le sei e trenta del mattino. Il buio è fitto, le tenebre sono ancora impenetrabili e spaventose e la temperatura è tremendamente rigida, diversi gradi sotto lo zero. La pianura pontina è assopita. Da alcuni dei comignoli delle case fuoriescono sottili colonnine di fumo. Arde ancora qualche resto della legna bruciata la sera precedente. Il canto di un gallo solitario annuncia l’imminente apparizione del sole.
Adriano, nonostante indossi un enorme cappotto, una sciarpa e un cappello, entrambi di lana grezza, sente il freddo pungente e implacabile penetrargli fin dentro le viscere e raggerarlo. Pedala con insistenza, con forza, ma ogni sforzo è vano. Non riesce proprio in alcun modo a riscaldarsi.
“Non ho mai sentito così tanto freddo in vita mia”. È questo l’unico, ossessivo pensiero che gli gravita nella testa.
Adriano batte forte i denti e pedala, pedala senza sosta. Pedala, ma non riesce proprio a riscaldarsi.
“Maledetto freddo…”, mormora piano.
Un’automobile lanciata a folle velocità lo evita all’ultimo istante. Adriano non ci fa più caso, ma vorrebbe inveire rabbiosamente contro quell’automobilista incauto e irresponsabile. Tuttavia quando si è a quattro, forse addirittura cinque gradi sotto lo zero e non si è abituati, articolare le parole è complicato, quasi impossibile. La lingua sembra infatti ghiacciata, appiccicata al palato come una stalattite.
«Amore, quest’oggi dobbiamo festeggiare».
«Come mai tutta questa allegria, Adriano?».
«Tieniti forte cara… Finalmente ho trovato un lavoro!».
«Davvero?».
«Ebbene sì. Hai capito bene».
«Oddio! Grazie, grazie al cielo! Finalmente… E dove? Dove?».
«In una azienda agricola, qui vicino».
«Bene, bene! Che bello, che gioia!».
«È distante una decina di chilometri».
«Dieci chilometri? E come farai? La macchina non ce l’abbiamo più…».
«Non devi preoccuparti di questo, Angela. Un amico mi procurerà una bicicletta usata. È un po’ vecchia, ma cammina ancora, ed è l’unica cosa che conta».
«Ti ci vorrà tanto tempo per raggiungere l’azienda agricola… Su questa brutta strada poi…».
«Pedalare fa bene, ho proprio bisogno di un po’ di movimento, di un po’ di attività fisica. Mi sento avvizzito, rattrappito. E la strada non è così pericolosa come tutti dicono, fidati di me. È una strada come tutte le altre».
«Dovrai svegliarti presto, prestissimo…».
«Angela, dopo tutto quello che abbiamo passato in questi mesi terribili, è un sacrificio che faccio volentieri, con enorme piacere. Credimi, dico sul serio. Questo posto di lavoro è una vera e propria manna dal cielo. Finalmente avremo meno difficoltà. Non ci speravo più».
«Bisogna sperare sempre, Adriano, sempre. Sperare e avere fede. Non bisogna mai smettere di avere fede, mai, per nessuna ragione, anche nelle situazioni peggiori. Prima o poi… Sì, prima a poi il buon Dio premia gli onesti».
«Sì, dopo averli rovinati… Ma lasciamo stare, queste sono bazzecole. Ah, Angela, che gioia! Sono felice come un… Come un bambino! Non sto più nella pelle, non vedo l’ora di iniziare. Sai quale sarà il mio compito, la mia mansione?».
«Quale?».
«Sarò l’imbustatore! Imbusterò l’insalata, la cicoria, i broccoletti, il prezzemolo, il basilico e via dicendo».
Adriano pedala. Adriano bestemmia a denti stretti e maledice il freddo. Ma non si pente di aver accettato quell’impiego. Con ciò che guadagna e con ciò che racimola Angela, la moglie, facendo saltuariamente le pulizie nelle case altrui, riescono a tirare avanti con una discreta tranquillità, garantendo alla loro unica figlioletta di otto anni un’infanzia tutto sommato serena.
Sei mesi prima Adriano aveva perso il lavoro. Per vent’anni era stato un operaio, poi la fabbrica aveva chiuso i battenti e lui si era ritrovato disoccupato. La sua famiglia era immediatamente sprofondata nella povertà. Per non affogare, Adriano e Angela erano stati costretti a vendere l’automobile e i gioielli di famiglia. Avevano addirittura preso in considerazione la dolorosa possibilità di mettere in vendita la casa, costruita con immensi sacrifici subito dopo il matrimonio, ma, fortunatamente, non ne avevano avuto la necessità.
Dopo sei mesi di disoccupazione, Adriano aveva trovato questo modesto impiego presso un’azienda agricola, grazie al determinante intervento di qualche vecchia conoscenza. Lui e Angela lo avevano benedetto da subito, considerandolo un vero e proprio miracolo. Per i poveri, per i disperati i miracoli accadono molto più spesso che per tutti gli altri, altrimenti non saprebbero come andare avanti. E trovare un impiego quando si è sulla soglia dei cinquant’anni, in questa disgraziata Italia, è davvero un miracolo.
Così, da oramai quattro mesi, Adriano si sveglia tutti i giorni alle cinque e mezza del mattino, esclusa la domenica, e, in bicicletta, percorre i dieci chilometri che lo separano dall’azienda agricola. Nel cuore dell’inverno rigido, spietato, l’uomo parte che è ancora notte fonda, e giunge sul posto di lavoro quando il sole è appena sorto. Angela aveva ragione, quella strada, la provinciale che collega la cittadina N. al capoluogo di provincia L., percorsa da Adriano tutti i sacrosanti giorni, è davvero pericolosa, molto pericolosa, soprattutto per un ciclista. Piuttosto dissestata, ma caratterizzata da frequenti rettilinei, rende quasi tutti gli automobilisti, anche quelli più insospettabili, spericolati piloti. Una volta, solamente una settimana dopo aver iniziato a lavorare, un mezzo lanciato a folle velocità aveva sfiorato l’uomo in bicicletta facendolo ruzzolare rovinosamente in un’umida cunetta. Qualche centimetro, o meglio, qualche millimetro in più e per Adriano non ci sarebbe stato scampo. Il violento impatto lo avrebbe sfracellato, mandandolo a miglior vita. Lì per lì l’uomo, disteso tra le erbacce e la fanga, scosso dall’inaudito spavento, pensò di mollare tutto, convinto che non valesse la pena di rischiare ogni giorno la vita per uno stipendio misero. Poi però la disperazione e lo spettro della disoccupazione, della povertà avevano ripreso il sopravvento, rendendolo ancor più determinato. Il pensiero della moglie e della figlia lo spinsero a rialzare la bicicletta e a rimettersi in viaggio, convincendolo del fatto che fosse giusto – sì, per lui si trattava proprio di giustizia – rischiare, duellare con la sorte e con quei piloti improvvisati e incauti.
Adriano pedala. Attraversa la placida pianura pontina ricca di campi coltivati e villette a schiera curate da lavoratori di origine per lo più veneta, maledicendo il freddo, sempre attento a non allontanarsi troppo dal ciglio della strada, mentre innumerevoli automobili in corsa gli sfrecciano accanto. Inizia finalmente a rischiarare. Un nuovo sole sta per sorgere. Nuovo per modo di dire, in realtà si tratta sempre dello stesso, vecchio e malandato sole. E sorge senza che nessuno glielo chieda. Senza che nessuno lo voglia davvero, lo desideri davvero. Una luce tenue, giallastra macchia il cielo ancora piuttosto scuro. I galli impegnati ad annunciare l’ennesimo giorno si moltiplicano, si rincorrono, si sovrastano, ogni minuto di più. La nebbia pian piano si dilata, fino a dissolversi del tutto, in quello stesso nulla dal quale la sera precedente è apparsa. Sul suo volto precocemente invecchiato, solcato da decine di rughe piccole, ma profonde, e sulle mani gonfie, rovinate dall’acqua nelle quali deve tenerle a mollo ogni giorno per ore e ore, Adriano sente il freddo accanirsi come un boia, con inaudita crudeltà. Triste e malconcio si dirige verso l’azienda agricola oramai vicina, e ricorda come in fabbrica fosse tutto più facile e meno doloroso.

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Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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