Crisalidi – Capitolo XV

Mi comunicarono ora e data del funerale con un messaggio, inviato dal telefono di Marta, ma scritto da chissà chi. Dopo averlo letto pensai che Pietro non sarebbe stato felice di un simile comportamento, non lo avrebbe approvato, anzi, per quanto potesse amare la figlia, comprenderne il dolore, e fu un modesto palliativo.
La celerità con la quale Marco, l’ex compagno di Marta, si era precipitato a Nettuno dopo essere venuto a conoscenza del malore, o forse della morte del suo ex suocero (ma a che ora era morto Pietro? era tutto così poco chiaro nella sua spaventosa chiarezza) mi insospettì subito. Doveva esserci sotto qualcos’altro, e infatti… ma a suo tempo, tra qualche riga.
Durante il funerale Marco, che riconobbi subito avendolo visto in alcune foto in compagnia di Marina, non si staccò neppure per un attimo dalla suocera, da Marta e dalla figlia. Abbracciava ora l’una ora l’altra. Alla fine della funzione religiosa mi avvicinai, controvoglia, per fare loro le condoglianze, proprio come se fossi uno qualunque, e loro come tale mi trattarono. Ebbi l’impressione che solo Marina mi riconoscesse davvero, senza manifestarmi un particolare affetto peraltro. Marta, da parte sua, era davvero distrutta, singhiozzava in continuazione, sembrava ancora più piccola, ancora più magra, una bambina offesa da rughe precoci. Ma, a vederla così, mi ricordò piuttosto una radice, una radice raggrinzita e appena strappata dalla terra, per via dell’abbronzatura, la sola cosa che, della nostra estate, resisteva ancora.
Prima di andarmene, di tornarmene a casa, perché tanto la mia presenza lì era del tutto superflua, gettai un ultimo sguardo a Marta e strinsi forte i pugni per la rabbia, fino a sentire dolore. Avrei voluto correre da lei, prenderla per mano e portarla via di lì, ma non mi era permesso, allora voltai le spalle e uscii dalla chiesa di Sant’Anna, la chiesa del quartiere Cretarossa, quella in cui, tra l’altro, sono stato battezzato, comunicato e cresimato. Montai in sella ed ero pronto a volare via da quella che consideravo una farsa, quando sentii una mano afferrarmi per il braccio. Era Marina, accanto a lei c’era suo padre.
– Papà vorrebbe parlarti, – disse la bambina e poi scappò via, rientrando di corsa in chiesa, dalla madre.
– Marina mi ha parlato molto di te. Grazie per tutto quello che hai fatto per mia figlia in questi mesi, – disse Marco ed ebbi l’impressione che avesse pronunciato l’aggettivo possessivo mia con una particolare enfasi.
Avrei voluto rispondergli che avevo capito il suo sporco gioco, che sapevo bene che voleva riprendersi Marta e Marina e che questa disgrazia improvvisa agevolava di molto i suoi propositi, probabilmente anteriori ad essa. Lo avrei colpito con un pugno in pieno stomaco se necessario, gli avrei gridato dritto in faccia (ma non avrei potuto, perché era alto più di un metro e ottanta ed era pure ben piazzato) di finirla con quel dolore fasullo, con quella costernazione teatrale e di tornarsene da dove era venuto. Ma non fiatai e non mossi un dito. Nella mia vita ho sempre tentato di evitare di attirare l’attenzione, di passare inosservato, come uno scarafaggio ho sempre cercato fessure e non volevo certo tradire questo mio proposito in un’occasione simile, di lutto e di dolore. Una scenata del genere in quel momento avrebbe rappresentato una mancanza di rispetto imperdonabile nei confronti della sofferenza di Marta, di sua figlia, di sua madre, e nei confronti della memoria di Pietro. Per questi motivi a Marco non risposi nulla, non lo offesi, non lo colpii, non lo smascherai. Del resto, non sarebbe servito a niente, se non a farmi passare per quel miserabile che ero, certo, ma che almeno non volevo apparire, e poi il mio desiderio più grande in quell’istante era di gettarmi tutto alle spalle, il prima possibile, tornare a lavorare su me stesso per approdare di nuovo, e stavolta per sempre, in quell’altrove dal quale Marta mi aveva portato via, senza chiedermi se lo volessi oppure no.
Tutto ciò che accade è inevitabile, come ho già scritto in qualche pagina precedente, ed era inevitabile che da un giorno all’altro Marta si dimenticasse di me, come da un giorno all’altro di me si era innamorata. La morte improvvisa di Pietro aveva solo accelerato un distacco che ci sarebbe comunque stato, inevitabilmente. E a pensarci bene, a mente fredda, meglio che sia accaduto allora, che dopo, quando la mia casa era magari diventata anche la casa di Marta e di Marina. Sarebbe stato tutto più complicato.
Decisi di non cercare più Marta, se lo avesse voluto sarebbe stata lei a cercare me. E lo volle, con mia grande sorpresa, presentandosi a casa mia due giorni dopo il funerale, alle nove di sera, scusandosi, come la prima volta.
– Scusami se non ti ho cercato e se il giorno del funerale sono stata così fredda, così distaccata, come se tu fossi una persona qualunque, ma il dolore era troppo forte e non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine del cadavere di mio padre. Del resto, anche adesso ce l’ho davanti agli occhi ed è insopportabile, – esordì.
La feci accomodare in cucina, dove ero impegnato a preparare la cena, un piatto di spaghetti aglio e olio.
– Te la sei presa? – domandò poi, stupita, forse, del mio silenzio.
Avrei avuto molte cose da dire, ma non le volevo dire, attendevo solo che lei mi dicesse ciò che era venuta a dirmi, e sarei ricorso a tutto il buonsenso di questo mondo per far sì che la nostra storia si concludesse in modo conciliante, senza scenate, senza isterismi, né da una parte né dall’altra.
– Ma no, figurati, – risposi con forzata cortesia e noncuranza, decidendo di parlare solo perché temevo che il mio silenzio potesse essere frainteso, magari interpretato come una manifestazione di severo rimprovero. A Marta non avevo nulla da rimproverare, nulla da imputare, non ce l’avevo con lei, ma solo con me, per il modo in cui avevo tradito me stesso e tutto ciò in cui credevo in quegli ultimi sei mesi. E proprio da questi sei mesi Marta riprese il discorso.
– Abbiamo passato mesi bellissimi insieme e io ti ho amato davvero come dicevo, non voglio che tu ne dubiti neppure per un istante, ma la morte di mio padre ha cambiato tutto, è stato il calcio che ha mandato all’aria tutta la baracca. È come se di colpo si fosse conclusa una fase e se ne fosse aperta un’altra.
– Forse sarebbe meglio dire ri-aperta, – puntualizzai, incapace di contenermi e di lasciar correre.
Marta chinò la testa, spezzata da quella mia sola, implacabile parola, mettendosi una mano sulla fronte. Mi sentii in colpa, mi avvicinai a lei e mi inginocchiai ai suoi piedi. Le presi la mano che aveva lasciato sulla coscia, abbandonata a se stessa.
– Tu sai già tutto, – sussurrò Marta rialzando la testa e guardandomi negli occhi. I suoi erano tumefatti da tutte le lacrime versate in quei giorni. Il dolore sembrava avergliele strappate con forza da dentro, contro la sua volontà, e gli occhi gonfi, rossi e più infossati del solito tradivano questa violenza.
– L’ho saputo dal momento in cui Marina mi ha detto che con voi c’era suo padre, e ne ho sofferto, ne ho sofferto da morire, lo confesso. Ma lo ritengo giusto, Marta, lo ritengo giusto. Volete riprovarci, ricomporre la famiglia, lo capisco, è solo che… – mi fermai perché le stavo per dire proprio ciò che mi ero ripromesso di non dire, di tenermi per me.
– Cosa? – domandò Marta, preoccupata, e io a quel punto non potei più tirarmi indietro.
– Mi infastidisce, anzi, mi manda in bestia il fatto che Marco abbia sfruttato una simile disgrazia per trarne vantaggio, per riprendersi ciò che voleva, – dissi d’un fiato, il più velocemente possibile, per non provare rimorso a ogni singola parola pronunciata. Non servì a niente.
– Avresti dovuto dirlo a lui, non a me, visto che vi siete parlati, – rispose Marta, risentita, con un tono secco, reciso.
– Non mi sembrava il caso, durante il funerale di tuo padre, – mi difesi, lasciandole la mano e alzandomi. Era ormai lontanissima da me, irraggiungibile, e quelle sue parole mi avevano ferito e offeso nel profondo.
– Sono una stupida, perdonami. Ci trasferiremo a Milano e verrà anche mia madre con noi, – mi informò Marta, di nuovo pacifica, smaltito il risentimento.
– Così rinuncerete al vostro amato mare, – le feci notare, ma come se pensassi a voce alta, senza rivolgermi direttamente a lei. Ora volevo che Marta se ne andasse, che mi lasciasse solo ed era la prima volta da quando l’avevo conosciuta. Ormai era una persona che non mi riguardava più.
– Dobbiamo farlo, per il bene di noi tutti.
– Noi tutti… – ripetei, fermandomi e fissando il vuoto. – Ma sono d’accordo, te l’ho detto, è giusto così, – aggiunsi subito, senza troppa convinzione.
Avevo fame e volevo mangiare, il mio stomaco implorava cibo, mugugnava, scorbutico. Lo dissi a Marta e lei si alzò, pronta ad andare via. La accompagnai alla porta e qui si voltò per un’ultima volta.
– Quasi me ne dimenticavo. Marina ti manda questa lettera, – disse porgendomi una piccola busta sigillata.
– Ci speravo che mi salutasse anche lei, – risposi sorridendo, finalmente, e prendendo la lettera.
– Ci teneva a farlo. Leonardo, io… noi… troppi morti… chi sarà il prossimo? – balbettò mentre nuove lacrime le affioravano agli occhi martoriati dal pianto.
– È vero, c’è qualcosa di diabolico nella nostra unione… Ma ora basta farci del male, Marta. Hai fatto una scelta, quella giusta, perché io non avrei potuto garantirvi ciò che vi garantisce Marco. Buona fortuna per tutto, – la interruppi in modo quasi scortese, con l’intenzione di mettere fine al più presto a quella situazione pietosa, soprattutto per me. Avrei potuto, forse dovuto stringerla a me, per un’ultima volta, consolarla, accogliere il suo pianto e provare a lenire il suo dolore, ma ormai non era che una donna qualunque per me, un’estranea, e il sentimento che permette a un uomo di avvicinarsi a un suo simile con il quale non ha nessun legame affettivo, la solidarietà, non mi è mai appartenuto.
Marta non aggiunse altro, si limitò ad annuire e andò via. La ascoltai scendere le scale, aprire il portone e richiuderlo dietro di sé, senza muovere un passo.
Mangiai poco, senza finire tutta la pasta, perché un malessere diffuso, psico-fisico intervenne a rovinarmi l’appetito, diffondendosi dentro di me a poco a poco, momento dopo momento. Mi gettai sul letto, senza sparecchiare la tavola, senza lavare le stoviglie, come non accadeva mai. Mi accesi una sigaretta e lessi la lettera di Marina. Mi ringraziava per tutte le volte che l’avevo aiutata a fare i compiti, per il libro di Pinocchio, per averle fatto scoprire Michelangelo e Raffaello, per le riproduzioni della Trasfigurazione e del Giudizio universale, per le tele, i pennelli e i colori, che avrebbe utilizzato per dipingere il panorama che le offriva la sua nuova cameretta milanese. Aggiungeva inoltre che con me in quei giorni di lutto era stata fredda, come con tutti gli altri, per mostrarsi forte e aiutare Marta, così sofferente, che le dispiaceva di lasciare me e il mare, ai quali voleva tanto bene. Nel post scriptum concludeva: «So bene che non doveva essere questa la sorpresa di cui mi avete parlato tu e mamma, ma la vita è così, le cose non vanno mai come vorremmo». Sorrisi leggendo quella sentenza pensata e scritta in fondo a una lettera d’addio da una bambina di dieci anni, banale forse, scontata, ma drammaticamente vera. Sì, Marina poteva proprio essere mia figlia.
La lettera di Marina rappresentò un momento, un solo, labile momento d’evasione da quel malessere che mi aveva afferrato subito dopo la partenza di Marta e che si faceva ogni secondo più insistente. Quando, nel giro di pochi minuti, raggiunse l’apice, facendomi sobbalzare dal letto, compresi di cosa si trattava: di un’avversione profonda, viscerale per me stesso e per il mondo che mi era toccato in sorte, per questo nostro tempo imbecille. Di queste crisi me ne capitavano spesso in passato, quando ancora non mi ero spinto al di là della vita e non possedevo la suprema indifferenza. A questi attacchi non ero più abituato e non sapevo più gestirli, controllarli.
Iniziai a camminare per la stanza come un leone in gabbia, alla disperata ricerca di un modo per sfogare quel disgusto insopportabile, perché soprattutto di una fortissima sensazione di disgusto si trattava, di schifo per tutto. Se non lo avessi trovato avrei finito con il mettermi le mani addosso e farmi del male, molto male, forse senza avere più la possibilità di tornare indietro, di rimettere i cocci apposto. Ma l’occhio mi cadde sulla pila di libri lasciati a terra, quei libri contemporanei consigliatimi da Luca, e mi accanii con furia su di essi. Iniziai a strapparli con foga, gettandone i resti nel camino. Dopo averli completamente distrutti, alle pagine stracciate, più o meno sminuzzate, diedi fuoco. Alla vista di quelle fiamme fatue, effimere e fredde eruppi in una risata prolungata, nervosa e maligna.
Ecco cosa resterà del nostro tempo: cenere, dissi a me stesso, svanita la barbara allegrezza e spento il fuoco.
Provai una sensazione di sollievo, come se mi fossi liberato di un peso, facendo ciò che avrei dovuto fare da tempo, che avevo in mente da tempo, ma che, non avendolo fatto prima e potendolo dunque fare ora, mi aveva salvato la vita. Bruciando quei libri io avevo bruciato un’epoca intera, la nostra epoca, e tutti i suoi uomini, tranne uno, me stesso. Per questo motivo, liberatomi dal disgusto per il mondo ma non del disgusto per me stesso, afferrai il quaderno, quel quaderno riservato in origine alla storia di Liza, la penna, e iniziai con irruenza a scrivere questa storia. Per poterla bruciare e bruciare con essa me stesso, questa storia di crisalidi diventate farfalle ma solo a tempo determinato, per poi rientrare, inorridite e spaventate, nel proprio bozzolo, rifiutando ancora una volta e per sempre la vita, mai più distinta dalla morte.
A proposito di crisalidi, a Marta sarò sempre grato per avermi costretto a ucciderne una quel pomeriggio a casa dei miei genitori: una creatura sofferente di meno, grazie alla semplice pressione del mio pugno tutt’altro che forte.
Iniziai a scrivere a notte fonda e da quella notte non si è più fatto giorno. Perché la luce del giorno non giunge in quell’altrove dove ero approdato prima che iniziasse questa storia e dove posso dire di essere tornato dopo averla narrata, e distrutta.

Crisalidi ,

Informazioni su Simone Germini

Classe 1989, dopo il diploma di liceo scientifico mi iscrivo alla facoltà di Lettere presso l'Università degli Studi di Roma La Sapienza, dove mi laureo nel luglio del 2015 con la tesi «Figlie della crisi. I personaggi femminili di Heinrich von Kleist», pubblicata sulla rivista «Le rotte - Il porto di Toledo». Sempre presso lo stesso ateneo, nel settembre del 2017, conseguo la laurea magistrale in Filologia Moderna, con la tesi «Con le parole guerra alle parole. Linguaggio e scrittura in Carlo Michelstaedter». Dal 2012 al 2018 sono stato caporedattore del blog «Freemaninrealworld». Insieme con Lorenzo Pica, Raffaele Rogaia e Marco Zindato ho fondato il sito iMalpensanti.it. Sul blog «Bazzecole» i maldestri tentativi di scrittura creativa. Per info e contatti simonegermini@yahoo.com.

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