«E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce».
È questa l’amarissima conclusione alla quale giungono i pensatori critici, che chiamano le cose con il proprio nome e fanno piazza pulita delle menzogne, delle illusioni, dei luoghi comuni e dei pregiudizi accumulati dagli uomini nel corso dei secoli nel goffo tentativo di rendere meno misera e insensata la propria esistenza. Non a caso Leopardi, uno dei più grandi pensatori critici di sempre, sceglie la citazione giovannea come epigrafe del suo testamento filosofico-letterario, La ginestra.
Avrei dovuto capirlo semplicemente leggendo e studiando Leopardi e Michelstaedter, le loro esperienza avrebbero dovuto aprirmi gli occhi – non soltanto recidermi le palpebre – e convincermi a desistere, a lasciar perdere, ma la critica è un fuoco che non può bruciare ed estinguersi da solo, che non può restare chiuso in se stesso; le sue fiamme non sono quelle controllate di un falò, ma quelle barbare e inarrestabili di un incendio estivo sospinto dallo scirocco. Fiamme impetuose, che fugano le tenebre e illuminano, ma che alla fine bruciano soltanto colui che le ha in sé, mentre tutti gli altri, spaventati e pavidi, fuggono a gambe levate trovando rifugio nelle loro millenarie menzogne.