1. Disprezzo e disgusto. Da una settimana non provo che disprezzo e disgusto: per la natura, per gli uomini e per le loro leggi disumane, per la società, per me stesso. Mi auguro solo che sia questa l’anticamera dell’indifferenza. Tutto è come ricoperto da una patina viscida, maleodorante, nauseante: gli alberi, i volti degli uomini che mi passano davanti, le case, io stesso, persino i libri. Mi è impossibile afferrarli, ci provo, mi scivolano dalle mani, cadono, si schiantano a terra andando in migliaia e migliaia di minuscoli pezzi irricomponibili. Irricomponibili… esisterà questa parola? Non importa. Anche la penna, fatico a trattenerla, mi sfugge dalle dita, schizza via. Sembra uno di quei vermi sotterranei irrigiditi dal sole dopo la morte. Li chiamiamo mazzacchere e non so dove abbiano la testa, se ce l’abbiano oppure no una testa. Provi ad afferrarli e ti scivolano via dalle mani, viscidi. Questo vento maledetto lo odio: scaraventa le nuvole altrove e impedisce loro di svuotarsi sulla mia testa. Che tu sia maledetto, vento. Solamente un temporale potrebbe spazzare via questo disprezzo e questo disgusto, solamente una pioggia battente, feroce potrebbe lavare via dalle cose questa patina immonda e nauseabonda.
2. Io sono il dolore dei ribelli. Io porto dentro di me le sofferenze di tutti quegli uomini dell’oltre che nella storia del genere umano hanno scritto ciò che il mondo non voleva sentirsi dire ed erano consapevoli di quanto fosse inutile scrivere ciò che il mondo non voleva sentirsi dire. Io: il primo e l’ultimo.
3. Decido di festeggiare il mio fallimento, con una birra nel solito locale, ma da solo. Entro e vedo Elena: almeno. Prendo la birra e vado fuori, mi siedo sugli scalini della libreria in cui spero sempre di trovare un annuncio di lavoro che non compare mai. Ho sempre esaminato la vetrina in questi mesi, sempre. Del resto ci lavora un ragazzo che ha compiuto il mio stesso identico percorso universitario. È stato fortunato, lui. Bevo, fumo una sigaretta dopo l’altra. Penso a quanto sarà difficile ora chiedere a mia madre i soldi per una birra e per un pacchetto di sigarette. Dovrei smettere. Sì, come no. Meglio spararsi. Esce Elena, sola. Mi scruta, si dirige verso di me, si siede accanto a me – tremo. Sprofondo poi quando mi rivolge la parola chiedendomi l’accendino. Glielo do, ma senza guardarla, fissando ostinatamente l’asfalto. Mi ringrazia e io non riesco neppure a rispondere grazie, mugugno appena qualcosa di incomprensibile.
– Sei stato tu a mandarmi i fiori, vero? – mi chiede dopo qualche boccata di fumo e la sua domanda mi trapassa come un proiettile, in pieno petto, dove sento una fitta profonda e dolorosa. Non rispondo.
– Chi tace acconsente, – mi incalza Elena, sorridendo.
– Chi tace molto semplicemente non sa che dire, – trovo finalmente la forza di parlare.
– Grazie dei bei fiori e delle belle parole, non mi avevano mai scritto cose simili.
– Come lo hai capito?
– Dal tuo sguardo.
Detto ciò Elena getta la sigaretta a terra, mi bacia sulla guancia e rientra nel locale. Io mi scolo quella mezza birra rimasta nel bicchiere e me ne vado, sorridendo, ma solo di me stesso.
Quando capiremo che siamo tutti – ma proprio tutti, nessuno escluso – dei poveri disgraziati, sarà troppo tardi.
Un uomo (suo malgrado)